A Mara che sapeva incendiare il cuore delle persone
con il fuoco del suo amore per la bellezza
Esco dall’ufficio. M’incammino tra le vie affollate della metropoli. La sera promette ancora luce e colore, regalando intensi profumi di fiori ed erba, in questo ‘fine giornata’ di mezza estate. M’infilo in stazione. L’eco del lavoro si mescola con il rumore assordante del convoglio che si avvicina. Le porte si aprono, salgo. La carrozza è mezza vuota. Mi siedo, equilibrando il peso con il supporto d’acciaio del sedile. Il treno si mette in moto e lascio scivolare lo sguardo, esplorando in questo “paesaggio vago” il contrappunto di corpi, le frizioni e le occhiate in tralice, su un fondale di cartelloni pubblicitari, intervallati dalla mappa della rete ferroviaria “stile Harry Beck”. Sembra un cocktail messo insieme da un barista sbadato o incurante degli accostamenti. Si reclamizza un po’ di tutto. Ci sono corsi on-line su “la qualunque” e funerali a basso costo, tutto compreso, “chiavi in mano”. Per andare dove? Non si sa. Improvvisamente, nel fluttuare pressoché indifferente del guardare senza vedere, incontro una figura di giovane donna, mora, viso regolare, corpo sottile, di cui indovino le forme delicate sotto il leggero abito estivo. Legge, profondamente intenta e gentilmente rilassata, in “posa da lettura”, tipicamente femminile, come se stesse facendo da modella per la Ragazza che legge una lettera davanti alla finestra di Vermeer o per un dipinto del più vicino, e meno noto, David Hettinger. Le sue palpebre, lievemente abbassate, si chiudono, con ritmo lento, trattenute, in un movimento morbido e sensuale. Le ciglia si appoggiano, per poi risollevarsi subito, al primo asolo di concentrazione. Dita fini sfiorano il libro. Con gesto fluido, un poco felino, voltano le pagine. Mi accade di ricordare Le passanti: «Alla compagna di viaggio, i suoi occhi il più bel paesaggio, fan sembrare più corto il cammino, e magari sei l’unico a capirla, e la fai scendere senza seguirla, senza averle sfiorato la mano». Mi sento improvvisamente attratto da questa ragazza. Il suo corpo snello, giovane, pieno di vita, di energia compressa, di eleganza compiuta mi affascina e allo stesso tempo mi umilia, mi confronta con il limite dell’imperfetto dinanzi al perfetto. Provo una sensazione struggente, lacerante, qualcosa d’inafferrabile, che oltrepassa l’inammissibilità irrevocabile del contatto, l’eventualità folle di un approccio, per giungere a un livello di bellezza ideale, cui la sua bellezza reale allude.
Mentre sono inghiottito da questo buco nero d’attrazione e nostalgia, a motivo di ciò che non mi è dato per possibilità, lei alza gli occhi e guarda fuori dal finestrino, per controllare la stazione. Nel tornare alla lettura avverte qualcosa, all’istante. Forse è istinto o abitudine d’essere oggetto d’interesse. D’un lampo mi sento scoperto, materia di osservazione a mia volta. Non è più una “bella cosa” che sto guardando, è un’altra persona che mi restituisce intenzione. La qualità del suo sguardo è calma, intensa e impenetrabile, come il Ritratto di dama di Leonardo. È coinvolgente e, allo stesso tempo, distante. I suoi occhi, profondi, scuri, esprimono emozione e immediatamente sfuggono. Non posso più seguirli. Abbasso i miei.
Nascondo il tumulto dei pensieri, come se insistere fosse declamarli a voce alta. Ormai smascherato, non posso più tornare, pena l’essere invadente e irrispettoso. Mi rifugio nella riflessione.
Quell’incontro fa nascere mille interrogativi. Svanisce tutto quanto e rimango solo con domande che fluttuano nel pensiero: cos’è la bellezza? Perché mi attrae così tanto e, nel contempo, mi sembra irraggiungibile? La sua natura si dà a me in quella giovane ragazza, incontrata per caso, o rimanda ad altro, a qualcosa che trascende la materia, la sua espressione fisica, concreta, determinata nel tempo e nello spazio? Che relazione c’è tra quel bel volto e le maestose montagne che osservo da casa mia, Il ponte di Langlois di Van Gogh, la Pietà di Michelangelo, fino a Le Nozze di Figaro di Mozart e a La sera del dì di festa di Leopardi? Non è forse vero che si dice, allo stesso modo, “un bel paesaggio”, “una bella musica”, “un bel quadro”, “una bella poesia”?
So di abitare in un’epoca in cui l’idea di bellezza è strattonata da mille parti, anche contrapposte tra loro, consunta, quasi sdrucita da infiniti passaggi di mano in mano, usurata da secoli di rinuncia d’una natura condivisa. Oggi mi appare una nozione dimentica delle proprie origini, della sua genesi, inconsapevole della progressiva indistinguibilità, almeno nel suo uso invalso, tra ciò che è bello e ciò che piace.
Se torno alla sua infanzia, nell’antica Grecia, ricordo tre parole, unite da un collegamento essenziale: vero, buono e bello. L’unione di queste dimensioni – i fundamentals della nostra civiltà, si direbbe oggi – della conoscenza e dell’esperienza, implicava una sorta di tensione interna, una struttura concettuale la cui stabilità era garantita dalla relazione della triade. Non c’era una senza le altre due. Tenere insieme i nessi consentiva di ritrovare nel bello anche ciò che era autentico, veritiero, sincero. Allo stesso tempo, c’era integrata la dimensione etica. Ciò che è bello deve essere anche buono. Questa concezione propone una prospettiva che trascende il mondo tangibile, per riferirsi a una perfezione ideale cui indirizzare la ricerca.
È un mondo da desiderare, da perseguire in un lavoro quotidiano di “costruzione del bello” che è già bello, ma non è ancora la bellezza.
Un “modo di vedere” di questo tipo porta un “modo di agire” conseguente. La parabola di sviluppo di chi cerca di contemplare la bellezza o di ‘fare cose belle’ non è espressa esclusivamente sotto forma di novità per se stessa, ma di miglioramento continuo, volto alla perfezione. Ciò indica che lo “stupore” si offre come un effetto, un “dono” della bellezza, non come un obiettivo. Il suo colore, inoltre, è quello dell’utopia, non nella sua accezione di irrealizzabile, ma proprio nella sua forza motivante e produttrice di senso. Costruiamo un mondo bello perché abbiamo nel cuore un mondo ideale.
Come faccio, dunque, a trovare la bellezza? Mi limito ai templi dorici e alla Nike di Samotracia? I miei punti di riferimento sono solo Giotto e Caravaggio? Penso che dopo Beethoven la vera musica sia defunta? Più che a un ritorno al passato – anche se ritengo che bagnare i panni nel fiume del tempo possa sempre giovare al mio guardaroba –, mi riferisco al quesito incessante che la bellezza pone, a quel sentimento di necessità che nasce spontaneo, dentro di me, ogni volta che osservo qualcosa di bello. È il suo “sporgersi verso il senso” che mi attrae, che genera valore, che mi proietta in una realtà progettuale. La vivo come una continua apertura e uno stimolo alla conoscenza della realtà in cui vivo. La bellezza mi seduce, mi “conduce a sé”. Mi sembra ipocrita dire che una ragazza mi colpisce perché “è bella dentro”. Come posso saperlo, prima ancora di averla conosciuta? È la sua bellezza a sedurmi, a spingermi, ad avvicinarla e, se sono fortunato, a frequentarla. La bellezza nasce per muovere alla conoscenza. La bellezza sorprende, mi prende “come da sopra” e mi toglie dal fango degli affanni quotidiani, dalle bruttezze in cui, talvolta, sono immerso, per farmi accedere a un altro punto di vista, panoramico, in cui il nero è solo uno dei tanti colori dell’arcobaleno.
Su tutte queste considerazioni, però, aleggia un quesito sul gusto: quello che ritengo sia bello, riguarda solo me? Sono un uomo della mia epoca e non rinuncio volentieri alla libertà di espressione dell’apprezzamento del “bello personale”, così come mi piace pensarmi paladino della libertà altrui, affinché tutti possano esprimere il proprio parere. Nonostante ciò, resisto alla tentazione di dire che ciò che “mi piace” coincide con la bellezza, perché il relativismo sciocco, quello banale, allevato allo stato brado, spesso prelude a nuovi autoritarismi, perché tende ad annichilire il dibattito su ciò che si ritiene bello, vero e giusto in modo condiviso. Se non c’è un orizzonte, non vi è una regola, un canone, un punto di riferimento, prevale l’arbitrio. Nei casi più fortunati, si verifica un allineamento con il funzionale, il pratico, l’utile, il “calcolatorio”. Nelle situazioni più sfavorevoli è definito dall’autorità del più forte. I risultati si sono visti nella storia dell’uomo e, purtroppo, si continuano a vedere.
Il sospetto nei confronti del primato di un gusto scollegato dall’educazione estetica nasce in me da un’esperienza di fruizione, in cui la formazione è stata, ed è, importante per la percezione dell’opera d’arte. Se non studio, se non capisco, faccio proprio fatica a comprendere la bellezza. Questo non significa che non ne possa intuire il valore. Tutti, secondo me, sono sensibili alla bellezza, così come all’amore. Ma come l’amore, anche la bellezza si apprende con il tempo, dal contesto che frequentiamo, dalla profondità di coinvolgimento in quella realtà. Più si abita la bellezza, più la si apprezza. Perciò, se una persona dovesse sostenere che il preludio al corale Nun komm, der Heiden Heiland di Bach è musica brutta, la compatirei, mentre se affermasse che non le piace, le direi: «Posso capirti. È impegnativa. Non sempre è di agevole ascolto e immediata. Tuttavia ti consiglio di bazzicare la musica per un po’. Suona uno strumento, uno qualsiasi. Prova a comporre un breve brano musicale. Poi ne riparliamo. Vedrai che cambierai idea». Invece, all’obiezione che i tempi cambiano e ciò che era bello all’epoca di Händel e Bach oggi non piace più, così come le belle e formose dee greche oggi sarebbero considerate, come minimo, sovrappeso, risponderei che le rappresentazioni, le vie, gli stili, i modi d’essere della bellezza cambiano, ma il protendere verso la bellezza ideale è lo stesso di sempre, basta saperlo cogliere.
Peraltro, la vicinanza tra bellezza e sentimento non è casuale, perché mi accorgo che quando sperimento il “bello”, mi viene normale rispettarlo. Vale per le persone, ma anche per la natura e per le cose. Cammino lungo uno splendido sentiero alpino. Sono circondato da alberi secolari, dai colori verdi, rossi e lapislazzuli delle montagne. Sono conquistato dallo stupore per l’ineffabile e viva bellezza che mi circonda. Come posso buttare per terra il sacchetto di plastica della colazione o lanciare una bottiglia vuota di Coca Cola da un pendio? Poniamo che sia un imprenditore e percepisca la bellezza della natura in cui mi è dato, per un certo tempo, vivere. Come posso costruire un grattacielo per mille persone sulla cima di un monte o lungo la spiaggia del mare? Come posso inquinare un fiume o il mare, con i rifiuti della mia produzione?
I sussulti per gli ultimi scambi, prima della stazione, mi ridestano dal torpore delle mie volatili fantasticherie. La ragazza è scesa da tempo. Mi è rimasta impressa nella memoria quella bellezza “individuata”. La lascio e, allo stesso tempo, la porto con me. Ora cammino sulla banchina e guardo avanti, in alto. I monti della Prealpe sembrano abbracciarmi. I riflessi serali, d’oro e d’argento, dei laghi Briantei, baluginano contro un cielo che, negli ultimi istanti del giorno, si tinge di arancio e turchese, come in certi quadri di Constable. Mi aspetta la bellezza domestica, quella che ho scelto, quella che ho deciso di praticare e, con impegno costante, far durare.
I dipinti che accompagnano questo testo sono di Samuele Arrighi (Como 1978). Diplomato in pittura e restauro pittorico all’Accademia di Belle Arti A. Galli di Como, il suo lavoro artistico si esprime attraverso opere di pittura, fotografia e decorazione.
La sua attività espositiva inizia con varie collettive fino a realizzare mostre personali a Como, Cassina Rizzardi (CO), Milano e Seregno (MB). Numerose opere appartengono a collezioni pubbliche e private, in Italia e all’estero.