Nostalgia degli sguardi
Il racconto del viso, nel cinema, nella vita

Coded Bias, diretto da Shalini Kantayya

Studiate i volti dei nuovi tiranni… Tutt’altro che mostruosi,
i loro volti, benché un po’ tesi, paiono quasi insipidi.

John Berger, Il taccuino di Bento, 2011

Il volto umano è un paesaggio, devi disegnarlo bene.

Tsai Ming-liang

Sino al prossimo 19 agosto è disponibile in chiaro su Arte TV Your Face , opera del grande regista taiwanese Tsai Ming-liang presentata fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2018. In 13 piani sequenza, altrettanti uomini e donne, immersi in uno spazio nero (e nella straniante colonna sonora di Ryuichi Sakamoto), offrono il loro volto in primissimo piano alla camera del regista che ascolta e registra frammenti di loro storie di vita, memorie, sogni, desideri, scrutandone le emozioni, spesso nervose o imbarazzate, anche a causa di quella prolungata esposizione. Scrivendo del film da Venezia ponevo, a me stesso in primo luogo, delle domande: «[…] lo sguardo di quelle persone risponde e interpella direttamente anche noi, nell’eterno controcampo, figurato e reale, con lo sguardo dello spettatore. Anche noi siamo messi alla prova: sosteniamo lo sguardo dell’altro? Lo accettiamo, lo cerchiamo? O ci distraiamo, ci assentiamo, magari ci assopiamo?»

In questi mesi, le nuove prescrizioni e abitudini legate alla pandemia, in particolare sull’uso o il non uso delle mascherine, hanno riproposto con forza il tema della centralità del volto umano e riportato l’attenzione sul principale focus – visivo ed emozionale – di quel “paesaggio” che è lo sguardo. Se è vero che lo sguardo non mente mai – a dispetto della mimica facciale, non di rado incongrua rispetto alle nostre posture ed emozioni più vere – sappiamo bene come nella nostra contemporaneità affollata da troppi segni e immagini anche gli sguardi umani si siano fatti sempre più fuggevoli, e anche sfuggenti. Una delle ragioni va forse rintracciata nella diffusione continua dei tanti “occhi” tecnologici e nell’incessante  moltiplicarsi di quelle “visioni senza sguardo” di cui parlava il filosofo francese Paul Virilio già a metà degli anni Ottanta (e che richiamavo in un precedente contributo su questa rivista).

La nostra voglia di strada ai tempi del Covid 19 © Önder Örtel, 2021 – Unsplash

Ho pensato allora  a quanto il cinema ci ha insegnato, e a quanto ancora potrà insegnarci sullo sguardo, sui volti. Credo che, pur nelle profonde trasformazioni che da tempo lo attraversano e lo trasformano, il cinema cercherà in ogni modo di preservare gli sguardi dalla menzogna, continuando a testimoniarne la verità ultima, quella che accoglie il segreto dell’Altro e dona il nostro. Per ragioni anagrafiche, non nutro grande ottimismo sugli esiti finali della sfida tra l’occhio umano e quello della macchina. Mi piace però lo stesso pensare, in modo certo un po’ nostalgico e “analogico”,  che se un giorno gli sguardi umani dovessero essere cancellati dal mondo, censurati o condannati al rogo, come i libri di carta nella profezia di Ray Bradbury (che la Storia aveva già precorso), gli ‘sguardi del cinema’ potranno essere  salvati (magari rimontati come i baci di Tornatore). Per essere non solo conservati, ma anche mostrati in pubblico, o soltanto raccontati clandestinamente, in un luogo protetto (magari una sala abbandonata, un  ‘Cinema Paradiso’ o il ‘Dragon Inn’ di Tsai Ming-liang), da uomini e donne di  ogni razza ed età, come nel finale genialmente reinventato da Truffaut per il suo Fahrenheit  451.

Verso un volto unico?

Del resto, dietro le maschere, reali e metaforiche, di ogni tempo e luogo (comprese, si parva licet…, le mascherine usa e getta del nostro tempo pandemico) cerchiamo e troviamo sempre le facce, i volti, i visi. Parole che sembrano uguali ma non lo sono (l’inglese, lingua spesso molto ricca, si mostra in questo caso assai povera ricorrendo sempre a face). In realtà, è solo il viso (dall’etimo latino del vedere, ma anche del visitare), visage in francese, l’attributo proprio ed esclusivo della specie umana, dal momento che faccia è un termine che a volte riferiamo agli animali per indicare, in senso figurato, quella degli uomini,  mentre volto è parola “metaforica” che attribuiamo, sempre figuratamente, a tante cose, animate e non. Dal canto suo, nell’etimo, il volto rimanda a qualcosa che è stato piegato, trasformato, dunque manipolabile. E se, per motivi religiosi, morali, culturali lo puoi nascondere, e persino interdire (insieme al corpo o a parti di esso), grazie alla tecnologia puoi ritoccarlo o deformarlo a piacimento, ma persino crearlo (e diffonderlo), o escluderlo.
Intorno a quest’ultimo fenomeno non mancano le preoccupazioni. Un documentario del 2019 (disponibile su Netflix), Coded Bias, diretto dalla regista e attivista Shalini Kantayya,  rivela il ruolo perverso giocato dai pregiudizi incorporati negli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale, in particolare, nei programmi di riconoscimento facciale (punta di diamante della odierna, e cruciale, sorveglianza ‘biometrica’). Il film prende infatti le mosse dalla scoperta di una giovane ricercatrice afro-americana del MIT Media Lab, Joy Buolamwini: per essere riconosciutadal software del suo istituto doveva indossare… una maschera bianca! Indagando a fondo, avrebbe dimostrato, nei dettagli tecnici, quanto peraltro nella sostanza già noto: gli algoritmi, elaborati per lo più da programmatori uomini e bianchi, non funzionano bene con persone di colore, ancor meno se donne. Insomma, replicano gli errori da cui “imparano” e dunque diffondono discriminazione (si pensi, nel mondo del lavoro, ai programmi di ricerca e selezione del personale, a tutti i livelli, gestiti ormai da algoritmi, specie nelle fasi iniziali).

E ancora. In un mondo dove il linguaggio – e dunque il potere – dominante è sempre più quello dei cosiddetti “social media”, una tendenza inquietante si è andata sviluppando a livello planetario, in particolare tra i più giovani: modificare virtualmente i propri visi reali  per renderli sempre più ‘uguali’ tra loro, omologati ai canoni estetici imposti dal marketing globale (senza dire della tendenza, certo più elitaria, di sottoporsi a costosi e pericolosi interventi di chirurgia estetica). Lo avevano spiegato, un paio di anni fa, Lorella Zanardo e Cesare Cantù con “Volto Manifesto”, un ambizioso progetto imperniato su un documentario che denunciava l’aumento esponenziale dei “volti artificiali”, al confine tra umano e virtuale ma anche tra uomo e macchina, e il pericolo di una corsa verso un “volto unico” che nell’ansia di cancellarne i “difetti” finisce per cancellare e rendere anonimo il nostro vero viso e i suoi segni unici: rughe, cicatrici, nei, lentiggini eccetera. A non  accettarlo.  Una questione che è etica ben prima che estetica, pubblica e politica e non solo intima e privata.

Volto Manifesto, di Lorella Zanardo e Cesare Cantù, 2020

 

Visages, Villages

D’altra parte, siamo ancora in molti a ricordare i tempi in cui i visi, così come i corpi, ‘parlavano’, e tanto, di noi stessi, del nostro background ma anche del nostro destino sociale (quasi sempre immutabile). Basta pensare ai visi e ai corpi dell’Italia del 1965 immortalata da Pasolini in quello straordinario viaggio/inchiesta tra le diverse età e “classi sociali” che è Comizi d’amore. O a quelli, praticamente solo maschili, fermati per sempre nel loro stupore dalla cineasta, fotografa e giornalista Cecilia Mangini (scomparsa nel gennaio scorso, all’età di 93 anni) in una sua foto scattata dal palchetto della musica, alle spalle del direttore d’orchestra, in occasione della festa patronale  in un paesino pugliese nel 1956.

Nel cortometraggio Facce (2018) Paolo Pisanelli, giovane collaboratore della Mangini, a partire da quello scatto di oltre sessanta anni addietro compie un originale percorso a ritroso, nello spazio fisico dell’immagine e nel tempo. Lo stesso Pisanelli avrebbe fatto incontrare, sempre in Puglia nel 2011, la Mangini e Agnès Varda, morta a quasi 92 anni nel  marzo 2019 (le vediamo qua, queste due grandi donne e cineaste, entrambe anche fotografe, discutere dello sguardo del cinema sulla realtà, peraltro con idee un po’ diverse…).

©Agnès Varda-JR-Ciné-Tamaris, Social Animals 2016. La regista francese Agnès Varda nel suo studio di Parigi

 

Come non pensare allora a Visages, Villages, film del 2018 che precederà soltanto il suo film- testamento, Varda par Agnès? Insieme a JR, artista (e attivista) di strada francese, assai noto – e controverso – per le sue realizzazioni in diversi luoghi del mondo ad alto impatto simbolico,  la Varda intraprende un on the road attraverso la Francia, soprattutto di provincia e di campagna. Entrambi intervistano persone comuni, lavoratori e lavoratrici di varie età, i cui visi vengono poi affissi e “monumentalizzati”, sullo sfondo delle loro case o dei luoghi di lavoro, dalle gigantografie prodotte dal fantastico camioncino-studio mobile di JR  (secondo un suo collaudato concept e attraverso la tecnica del collage fotografico, spesso utilizzata anche dalla regista nel suo cinema sempre libero, creativo e aperto alla sperimentazione).

Il volto dell’Altro (ovvero, ‘le visage d’Autrui’)

Ma se i volti vengono spesso plasmati dai luoghi che abitiamo (come Visages, Villages sin dal titolo ci ricordava), gli uomini cambiano spesso, per scelta o necessità, luogo e volto. Nel 2014, sempre JR, non nuovo a esperienze cinematografiche, aveva diretto Ellis, un corto dove il corpo-feticcio di Robert De Niro attraversa lo spoglio labirinto della memoria collettiva di Ellis Island. A scandire i suoi passi, incollati su muri scrostati, porte chiuse, finestre dai vetri rotti, ci spiano (in rappresentanza dei dodici milioni di ‘migranti economici’ passati da lì in pochi anni) visi di donne, di vecchi, di piccoli ‘minori non  accompagnati’. Immagini fantasmatiche, eppure assai più “reali” dei volti dei migranti di oggi, ‘tutti uguali’ (così come i loro corpi formano un’unica massa indistinta) secondo una narrazione mediatica che azzera le storie individuali. Storie alle quali il cinema è riuscito in questi anni solo in pochi casi (così come del resto il teatro), a dare autentica voce.

Ellis, cortometraggio con Robert De Niro, scritto da Eric Roth e diretto da JR (2014)

Il volto dei migranti che noi stessi siamo stati per generazioni, è ormai dimenticato, o meglio rimosso, ma sempre sarebbe ri-conoscibile attraverso l’incontro. Ad annunciare questo incontro, sempre inatteso, è appunto l’“epifania del volto” (visage), come ci ha insegnato Emmanuel Lévinas, tra i pensatori del Novecento che, in questa nostra parte del mondo, ci hanno spiegato con più efficacia come l’identità umana sia solo e soltanto relazionale. «L’Altro che si manifesta nel viso sfonda, per così dire, la sua plastica essenza, come uno che aprisse la finestra sulla quale tuttavia già si disegnava la sua figura». In questa celebre frase del filosofo, l’apparizione di Autrui (il nome proprio dell’Altro per Lévinas)  ci sembra giungere con la forza di una visione e di un movimento “cinematografici”, piena di mistero e anche di una certa suspense… Ma non è un ‘personaggio’ che sfonda lo schermo della finzione verso la sala buia. A irrompere plasticamente nella nostra vita, affacciandosi da una finestra/schermo (aperta, a prima vista incongruamente, dall’esterno) sulla nostra intimità, o solitudine, è una persona reale, anche se “straniera”. Come noi  stessi, in fondo, nella nostra più profonda essenza.

Il filosofo lituano Emmanuel Lévinas
Sul filo degli sguardi

“Il viso parla”, per Lévinas, vuole il dialogo, che è fatto di parole, e di silenzio, e di silenzi tra le parole. Non cerca incontri occasionali, ma una relazione, qualcosa che appartiene al tempo e alla sua durata, più che al  movimento, in fondo sempre illusorio, dell’immagine. «Tutto dipende dalla relazione tra le parole» diceva John Berger parlando del lavoro della scrittura, e della poesia in particolare.1 Lo stesso è per le immagini e per gli sguardi, anche.  Ho pensato ancora al campo/controcampo che, sebbene sia un artificio tecnico, non solo è elemento essenziale della sintassi del montaggio, ma, a mio parere, è paradigma dell’intero linguaggio cinematografico. In quel raccordo si incarna il dialogo con l’Altro e si tesse la trama del racconto e delle vite. Dialogo verbale e non verbale,  reale o immaginario, ma che ha luogo e accade sulla linea dell’orizzonte relazionale che è appunto quella degli occhi, dello sguardo umano.

Il critico d’arte e scrittore britannico John Peter Berger

 

Ma a questo punto, per non finire fuori strada o preda di miraggi, ho abbandonato il filo del pensiero e ho iniziato a ri-cercare, nella mia memoria di spettatore, il filo delle immagini. Cercavo di ri-cordare (dal cuore, appunto) quegli sguardi del cinema più resistenti al tempo, perché legati a un mio vissuto, personale o familiare, o a fatti e sentimenti immaginati, creati o evocati dal desiderio (o dalla paura). Desiderio anche di ‘un certo’ cinema, dei suoi autori, attori, attrici. Dei loro visi e corpi. Quelli che lo scorrere della pellicola “vampirizzava”, al ritmo di 24 fotogrammi al secondo.
Inevitabilmente, i fili si addensano intorno alle emozioni primarie di ogni  esistenza: i vincoli del sangue, l’amore, la morte. I grandi enigmi della vita che rivivono, a volte trovando se non soluzioni, indizi o tracce di spiegazione, nei nostri sogni, e anche nel cinema.
Mi piace allora, per finire, condividere qui alcune di queste ‘scene’ ripescate dalla mia memoria (dove spesso anche le musiche o gli scritti ispiratori, anche se non citati, hanno grande importanza). Nessuna pretesa di una “trama” in questi frammenti, anche se, come i pensieri, le immagini trovano spesso in noi concatenazioni fortuite e inconsapevoli.

Sequenze di sguardi

Kaos, Paolo e Vittorio Taviani, 1984
Il grande scrittore, ormai anziano, è solo in casa, elegantemente vestito, attende una visita importante. Si siede sul divano, inizia a sbucciare un limone. In un monologo interiore, declinato al passato, parla di ‘ombre nell’ombra che mi guardavano con tanta insistenza che alla fine, per forza, mi sono voltato”. Allora lo vediamo girarsi e volgere lo sguardo in alto, fuoricampo. “Ma certo mamma, sei tu che mi hai chiamato”. Uno stacco di montaggio ci mostra madre e figlio seduti in poltrona, uno davanti all’altro, in campo lungo. Inizia così un lungo fraseggio di sguardi, di parole, di gesti delle mani più significativi e densi delle parole stesse (quelle del figlio, del resto, sono ormai “troppo difficili” per la madre). Sinchè la madre gira la testa  e con lo sguardo inquadra, con un sorriso accennato, una finestra aperta dove, in mezzo al mare, appare la vela di una tartana (a introdurre la stupenda sequenza di memoria infantile presso le cave di pomice dell’isola di Lipari).

Kaos dei fratelli Taviani. Luigi Pirandello, colloquio con la madre (1984)

L’età dell’innocenza, Martin Scorsese, 1993
Ancora una finestra aperta, un battente che si chiude e riflette i raggi del sole sul viso di un uomo incanutito, ma sempre affascinante, seduto su una panchina di una piccola ed elegante piazza di Parigi, lontano nel tempo e nello spazio da New York. In sovraimpressione ritorna, attrazione fatale, quella scena, della realtà o forse del sogno, quella scommessa con se stesso e con il destino: che nella luce di quel tramonto, irreale, indescrivibile se non dalla luce del cinema, lei si fosse girata, nel ralenti senza fine della sua bellezza, e che lo avesse guardato prima che la barca a vela giungesse al faro.

L’età dell’innocenza, Martin Scorsese. Scena finale (1993)

Italianamerican, Martin Scorsese, 1974
Prima dei titoli di coda de L’età dell’innocenza compare la dedica al padre, ‘Luciano Charles Scorsese’ (il nome italiano e quello ‘americano’, come spesso avveniva per gli emigranti italiani), scomparso poco prima dell’uscita del film. Il mio ricordo, per ragioni del tutto personali, va allora al documentario autobiografico Italianamerican che è uno strepitoso, ininterrotto dall’inizio alla fine, dialogo triangolare di sguardi (e gesti e ammiccamenti)  tra i  genitori del regista e tra loro due e, fuoricampo, il figlio alla camera.

Italianamerican, Martin Scorsese (1974) film intero

Nuovomondo, Emanuele Crialese, 2006
È come un valzer lento, ballato a distanza da un uomo e una donna sul ponte di un piroscafo, in mezzo a un oceano che non ha fine, le fusoliere a fare da paravento, ostacoli momentanei all’incrocio degli sguardi tra due estranei, abissalmente diversi per storia e per cultura, ma che un sogno comune, quello del “nuovomondo”, unirà perché è più forte di tutte le onde del mare. Fin quando le traiettorie si incrociano, e il gesto antico e nobile di lui di togliersi il cappello è più eloquente di una dichiarazione d’amore, che non avrebbe avuto del resto alcuna lingua per esprimersi. Ma non occorreva nessuna parola, se non quella degli occhi e dei gesti.

Nuovomondo, Emanuele Crialese, 2006

Il raggio verde, Eric Rohmer, 1986
I due giovani giungono sulla spiaggia, lei lo guarda, lui no, lei vede un’insegna (come un segno del destino) e lo invita a salire su un piccolo promontorio a vedere il tramonto… lassù, ora lui trova il coraggio di guardarla e di invitarla a sua volta, ma ci sono esitazioni, bisogna saper aspettare, le donne sono più brave in questo. Lei tiene un piccolo segreto, che viene da un libro, si scoprirà solo al tramonto, quando l’ultimo raggio del sole rivelerà la luce dell’amore dentro di noi. Un fenomeno fisico, e dell’anima, assai raro. Per questo, forse, lei piange di felicità tra le braccia di lui.

Il raggio verde, Eric Rohmer (1986), scena finale

Amour, Michael Haneke, 2012
Alla fine resta solo l’amore, che sfida la morte, forse perché sa come essere più freddo di lei. Un film dove ogni sguardo contiene tante emozioni diverse. Come ogni vero amore che contiene il suo contrario. “Sei un mostro, qualche volta” lei gli  dice, quasi sorridendo, e forse non scherza. Quando lui le prende il viso tra le mani, la camera in soggettiva, vediamo solo gli occhi sgranati di lei che ora hanno un po’ paura. Lui potrebbe anche ucciderla, con quelle mani, e infine, anche se in altro modo, lo farà, per amore, perché “ogni uomo uccide ciò che ama”. E anche questo ce lo aveva insegnato Fassbinder, dal primo all’ultimo suo film. Per la morte come per l’amore, non c’è bisogno di parole. E della musica? La musica della vita scorre dentro di noi, se sappiamo ascoltarla (e non c’è bisogno di essere, come i due protagonisti, degli esperti). Ma quando l’interruttore è spento, la musica che ha sfidato la malattia più crudele (Sakamoto lo sa) continuerà a fluttuare nell’Universo, e forse, come alcuni scienziati sostengono, noi con lei, coscienti, tra le stelle. O sulle plages d’Agnès? In ogni caso, lo sappiamo, Only Lovers Left Alive.

Amour, Michael Haneke (2012), trailer

1 “Il lavoro della poesia”, da And Our Faces, My Heart, Brief as Photos, 1984 (E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto, traduzione e cura di Maria Nadotti, Bruno Mondadori, 2008).