La scrittura è un processo e così la traduzione, ma non ci sono due processi: la traduzione è ingaggiata in quello dell’opera originaria, intesa come punto d’origine del processo di creazione.
Il processo dell’errore: l’atto di traduzione non coinvolge solamente l’esito dell’errore ma l’intero processo che lo ha generato.
La traduzione dell’errore non si preoccupa di eventuali “perdite” rispetto all’originale, tanto meno di “tradimenti”: sono funzionali alla sua sopravvivenza e ne garantiscono la continuazione.
Questa riflessione nasce dalla recente esperienza di traduzione di un capitolo del libro Zong! di M. NourbeSe Philip1 e si innesta su una serie di domande che da tempo mi pongo, soprattutto in relazione alle pratiche etiche-estetiche della Glitch Art e dell’Asemic Writing, che sperimento da diversi anni.
La Zong era una nave inglese dedita alla tratta degli schiavi lungo le rotte atlantiche. Nel 1781 la nave trasportava 442 persone imprigionate nella stiva delle quali, per vari problemi, 150 vennero gettate in mare. A partire da quel che rimane dei verbali della causa di risarcimento nei confronti dell’assicuratore, l’autrice di Zong! ha distillato ed espanso un’opera che cerca di riesumare quei defunti, di «esacquare» le loro spoglie sparse nell’Oceano.
Ẹbọra è il titolo del capitolo di cui ho curato le tavole di traduzione. Ẹbọra è una parola in lingua yoruba che la Philip, nel glossario, traduce con “spiriti sottomarini”2; l’espressione “tavole di traduzione” è più adatta a suggerire un impianto visivo basato su elementi testuali che le consuete pagine di testo. L’“errore”, introdotto dal titolo, è ciò che ha scritto Ẹbọra ed è stato generato da una macchina. Ci si potrebbe però domandare se non siano stati gli spiriti sottomarini a mettere scompiglio nella macchina. Gli ẹbọra hanno prodotto Ẹbọra?
L’autrice di Zong! ha chiaramente descritto il processo che ha generato Ẹbọra in uno dei capitoli del libro, Notanda3: durante la stampa della prima stesura di una sezione del libro, la stampante laser restituisce le prime due o tre pagine sovrapposte e accartocciate, trasformando il testo in un “denso panorama testuale”, come dichiara la stessa Philip. Un errore con un esito significativo. Cos’è che produce questo contenuto valoriale? Chi si assume il compito di tradurre – che è una responsabilità di un certo peso –, si fa questa domanda, anche se non entra in questione l’errore.
I sette “panorami testuali” che ho tradotto sono l’esito di un processo che non può interrompersi con la traduzione, perché il processo innescato da un autore è il medesimo che produce contenuto valoriale nella traduzione. In Ẹbọra, nel processo della scrittura poematica è accolto l’errore non atteso di una macchina, quell’errore che genera qualcosa di significativo e che in un batter d’occhio si riconosce come funzionale rispetto all’intero processo della scrittura dell’opera. Cosa vede questo batter d’occhio? Ho iniziato a indagare il processo dell’errore e a comprendere che l’atto di traduzione non coinvolge solamente l’esito dell’errore ma l’intero processo che lo ha generato.
Una stampante è soggetta, ad esempio, ad errori di memoria, di connessione, di trascinamento dei fogli e ad alcuni altri. Indipendentemente dal tipo di malfunzionamento, ciò che la macchina ha espulso è conforme a una logica. Ho dovuto comprendere questa logica dell’errore ed entrare nell’apparente disordine della pagina tipografica deformata per riuscire a vedere quanto corpo umano può emergere da un corpo testuale tipografico così azzittito, ammassato, assorbito dal bianco della pagina. Non è una percezione legata al solo effetto visivo: in tal caso l’unica difficoltà di traduzione avrebbe riguardato l’aspetto tecnico-grafico e la meticolosità di chi impagina.
A una traduzione del genere, formalmente precisa, forse pedante, verrebbe a mancare forza; si tratta di forza spiritualeche, nel caso di Ẹbọra viene espressa anche dall’errore, che è, qui, l’interruzione di un processo programmato e ripetibile. Questa forza, più in generale, si manifesta in una traduzione come la continuazione di un movimento complesso che coinvolge il linguaggio nei suoi diversi aspetti: da quello semantico a quello sonoro, visivo, spaziale, temporale e biologico, quindi il modo in cui il corpo di chi scrive (e legge, anche silenziosamente) si attiva e reagisce.
La traduzione rende possibile la continuazione nel tempo e nello spazio di un’opera letteraria, poetica. Tale continuazione è la vita del testo, che consiste nella disponibilità dell’opera ad accogliere il suo stesso mutamento. Un’atto di traduzione origina una mutazione e si sviluppa inserendosi in quel medesimo processo che ha creato il lavoro d’origine. Una traduzione consente all’opera di adattarsi a circostanze che sono altre rispetto a quelle in cui è stata realizzata; in tal modo ha durata, può propagarsi e passare liberamente, senza incepparsi nella sua stessa lingua. Conservando una reale consistenza, continua a parlare, conformemente alla logica del processo sorgente.
L’errore del processo di stampa da cui provengono i “panorami testuali” che compongono Ẹbọra risulta riassorbito: assunto da Philip come conforme al funzionamento del dispositivo costruito. L’esito di questo errore, osservato nel contesto dell’intero libro Zong!, sembra restituire una forza a quanto resta delle lettere, parole, frasi, interlinee e di ogni altro elemento che dispiega la pagina a una lettura non uni-lineare né unidimensionale. Pare una forza animatrice che presenta ciò che sopravvive al massacro di un imperdonabile errore.
L’indagine si focalizza sull’aspetto visivo – ed emotivo – che è molto evidente in queste sette tavole ovvero “panorami testuali”, e a me appaiono come un sudario aperto che ha conservato l’impronta dei corpi gettati in mare. Tutta questa tessitura urla molto forte. C’è vita, qualcosa continua a esistere: quello che sopravvive è il “diventato altro” che procede e ha ancora un fiato. Il suono del sopravvissuto entra nella dimensione asemantica in cui il linguaggio alfabetico non è più idoneo a narrare né a dire, ma paradossalmente ciò che si vede suona forte e chiaro.
La perdita di peso del corpo, così sfigurato, delle parole, fa sì che i sopravvissuti procedano con un moto a ritroso, come a cercare un movimento originario del segno che segue quello del corpo, verso lo scioglimento delle costrizioni, delle gabbie, degli usi e degli abusi, delle disposizioni e delle deportazioni che il linguaggio normato impone quando non riesce a confrontarsi con la realtà in modo intimo ed efficace. Da tale deficienza procede la dimensione visiva di Ẹbọra in cui il lettore entra perché si accorge di un (presunto) errore, non tanto quello della stampante (di cui ancora non sa, se legge il libro dall’inizio alla fine senza salti), ma quello che avverte attraverso un sentimento di perdita nell’impossibilità di decodifica: ci sono delle lettere e delle parole, o dei segni che lo sembrano, ma c’è molto rumore di fondo e di superficie che impedisce di proseguire se non si adotta una diversa strategia cognitiva.
Considerando un solo punto di vista e un contesto vago, le tavole che compongono Ẹbọra potrebbero benissimo comparire tra le immagini postate nei vari gruppi social dedicati all’Asemic Writing. Risulterebbe però riduttivo leggere solamente le loro qualità visive, così come lo sarebbe anche per un asemic writing. Entrambe sono fondate sull’errore: l’errore è l’innesco del processo del farsi opera, e questo errore lo fa il fruitore/lettore nel momento in cui tenta di capirle e non sa decidersi se deve leggere o deve guardare. Una tale incertezza vorrebbe essere sciolta con un aiutino, una chiave per aprire la porta dell’inconoscibile, forse una traduzione? perché è esattamente questo che serve quando il linguaggio inizia a disdire il codice condiviso su cui si regge e attraverso il quale esercita la sua funzione. Nessuno si è mai posto il problema di tradurre una “cosa” del genere, ma per Ẹbọra, chi scrive e i curatori della traduzione italiana di Zong!, sì. Si comprende il perché se si legge ogni tavola disegnando traiettorie visive non consuete e iniziando a esplorare la pagina dal punto in cui si focalizza immediatamente lo sguardo. Le parole e i segmenti di frasi che si incontrano, i superstiti, sono parte degli stessi corpi che si sono incontrati nei capitoli precedenti, non sono residui fonetici che hanno terminato il fiato; sono il corpo delle parole utilizzate per narrare questo evento della Storia che non può essere narrato ma è necessario narrare, come dice Philip, con qualità di premessa, nel libro.
Per tradurre Ẹbọra ho seguito le istruzioni dell’autrice; sono quelle contenute nella descrizione, già riportata sopra, e sono nella non-narrazione di Zong!, costitutive del libro. Le intendo come istruzioni perché la micro-narrazione degli eventi occorsi in fase di stampa dà conto di una curiosa e involontaria trasformazione dell’intero libro e dell’opportunità di riassorbirla nel processo della scrittura, mettendo in chiaro ciò che regola il cambiamento (perciò il processo di traduzione) e la natura delle facoltà dispositive dell’errore.
L’errore nel processo di stampa da evento diviene oggetto, non perché fissato nella carta ma perché ingaggiato nel processo di creazione di un’opera dove si dispone a un dato fine. Accade che l’opera intera si basi totalmente sul processo dell’errore – una sorta di dispositivo etico-estetico – come nell’ambito della Glitch Art dove un errore di buffering (un inconveniente tecnico di trasmissione dei segnali audiovisivi), oppure di codifica di una immagine (per citare solo due esempi), restituisce qualcosa che si fonda sul processo di una rivolta. Non si tratta di una lotta in cui ci si aspetta un vinto e un vincitore; si tratta di una tensione all’autonomia del difetto, dell’indesiderato, della latenza trasmissiva e del disturbo ovvero di un moto di liberazione da un processo perfettamente funzionante, prestabilito e replicabile. L’errore può avere una vita tutta sua, può proseguire generando ulteriori errori o correre il rischio di incarnarsi in un’opera artistica compiuta, finita.
Diversi anni fa ho avuto la necessità di tradurre in inglese una mia stessa opera glitch. Si tratta di un video realizzato a partire da errori di trasmissione via internet di programmi televisivi italiani. Ci sono dunque immagini in movimento accompagnate da una voce che dice in italiano frasi che suonano un po’ strane. Anche senza traduzione il video può funzionare, rende intellegibile l’operazione estetica. Ma questa traduzione da fare dava un’opportunità ulteriore di trasformazione, una sorta di scossone per rinvigorire il processo e togliere stabilità all’artefatto digitale. Questa traduzione poteva trasmettere “in chiaro” la logica dell’errore e quindi l’intero processo su cui si basa questa mia operazione. Come potevo, allora, tradurre il parlato glitch se non utilizzando la logica dell’errore? Perciò ho adottato un traduttore automatico e adottato questa traduzione – ovviamente piena di errori – nei sottotitoli del video.
Per Ẹbọra il processo di traduzione non poteva utilizzare l’errore di un procedimento automatizzato: un traduttore on-line, basato su algoritmi di intelligenza artificiale, si sbaglia spesso, soprattutto se non viene “allenato” a sufficienza e se deve tradurre frasi ambigue che deviano un po’ dalla sintassi ordinaria. C’è un’alta probabilità che sbagli. Diversamente fa una stampante laser. Si può indurre di proposito un errore ma con esiti probabilmente molto lontani dagli affioramenti e dalle sparizioni che il forte intreccio delle dimensioni testuale e visiva crea nelle tavole originarie. Questo sarebbe stato un problema. Ho dunque rintracciato le pagine che avrebbero potuto essere quelle incorse nell’errore di stampa, consapevole del fatto che potevano anche non essere esattamente quelle, non tutte: il confronto l’ho fatto con la versione definitiva, con il libro originario, ma quello che la macchina aveva processato era una prima stesura di Philip. Questo approccio mi consentiva di non dover provocare l’errore ma di assumere quello connaturato al metodo assunto: ho stampato su fogli trasparenti le pagine, ancora in bozza di traduzione, corrispondenti a quelle precedentemente individuate, alcune su un medesimo foglio, altre mantenute divise e poi sovrapposte, per ottenere maggiore tridimensionalità. Ho quindi utilizzato una lama di un cutter per raschiare alcune zone troppo dense in cui le masse dei segni alfabetici impedivano quel movimento di pieno e vuoto che rende ogni pagina di Ẹbọra uno spazio in cui convive il moto di superficie e quella dimensione invisibile che è il fondo senza fondo del reale4.
L’errore pare qualcosa di illuminante.
Note
1M. NourbeSe Philip, Zong!, Wesleyan University Press, 2008. La prima edizione italiana è pubblicata da Tielleci, 2021 (Benway Series 15) Traduzione di Renata Morresi. Traduzione di “Notanda” e di “Gregson vs Gilbert”: Andrea Raos. Traduzione di “Ẹbọra”: Mariangela Guatteri.
2Ulteriori informazioni sul significato di Ẹbọra
3Cfr. p.228 della traduzione italiana, p.206 dell’edizione originale.
4François Jullien, Figure dell’immanenza, Economica Laterza, 2019, p.254.