2009. Un quartiere della città di Dieppe, nella Regione dell’Alta Normandia. Una serie di edifici che abbraccia stilisticamente un largo periodo architettonico che va più o meno dal XV secolo agli anni Settanta del Novecento. In primo piano una piscina e degli uomini che nuotano (paiono quasi allenarsi), al centro l’accesso alla stessa attraverso una costruzione contemporanea che sembra posizionata al di sotto della strada carrabile. Oltre una fascia di cielo azzurro luminoso. Alle spalle del fotografo probabilmente la “vista mare” decantata nei depliant turistici dell’Hotel Mercure. L’immagine è complessa, per nulla affascinante, eppure, nell’insieme, comunica un preciso contesto, caotico potremmo dire ma al tempo stesso tranquillo. È una visione della “vita moderna” cui fa riferimento il titolo della mostra in corso alla Triennale di Milano dedicata all’intera produzione artistica di uno dei più grandi autori di fotografia francesi: Raymond Depardon.
Si potrebbe definire lo sguardo di Depardon sul mondo uno sguardo “umanista”, nel senso proprio di “geografo dell’umano”, anche quando nel mirino la presenza dell’uomo ci è preclusa dall’autore, non è necessaria poiché tutto nell’immagine già parla del suo esistere.
La vita moderna fa un po’ venire in mente, così di primo acchito, un film di Jaques Tati Jour de fête (1949) in cui il famoso regista conterraneo di Depardon mostra come l’innovazione scuote un tranquillo villaggio situato nella valle della Loira nel momento in cui, in un giorno di festa, nella piazza principale si proietta un documentario su un nuovo sistema di distribuzione veloce della posta adottato negli Stati Uniti. Il postino del paese, interpretato dal regista stesso, decide così di “fargliela vedere” a les américains! e pedalando come una scheggia sulla sua bicicletta lungo i viottoli della campagna circostante, lancia letteralmente ai destinatari le missive a loro indirizzate. La vita moderna è qui mostrata attraverso l’evoluzione tecnologica. Stiamo parlando, però, di rappresentazione fotografica e dunque perché la vita mostrata in queste immagini è “moderna” e non “contemporanea”?
Pur essendo la fotografia differente e molto più recente, come linguaggio, dalla pittura, potremmo ugualmente classificarla “moderna” nel momento in cui compare prima di quella “contemporanea” poiché anche in fotografia contemporaneo è ciò che viviamo in questo preciso momento e moderno ciò che invece è storicizzato. Dunque le fotografie di Depardon, attraverso questa definizione niente affatto scontata, rimettono a posto le cose, donando loro un significato che ci fa entrare in relazione con un “processo” e non con un dato di fatto.
La fotografia di Raymond Depardon è moderna e non contemporanea perché il suo sguardo non riguarda la realtà pura e semplice ma indaga un sentire che è proprio di chi osserva ciò che accade senza giudizio alcuno come pure senza intento documentaristico. È questa una visione comune anche in altri autori francesi come, per esempio, Bernard Plossu o come la scrittrice e cineasta Marguerite Duras, autori che si occupano del reale senza documentare. Al contrario, l’erranza come ricerca costante del proprio reale interiore è un tratto che in Depardon assume le sembianze di uno dei suoi lavori più forti e arditi – sviluppato completamente in verticale (la posizione dell’uomo sulla strada) – dal titolo Errance, appunto, che non a caso in mostra viene proposto a dimensione naturale. Qui lo sguardo non si allarga, piuttosto resta a tu per tu con lo sguardo del luogo che, per una volta, non è avvolgente ma diretto quasi a voler rispondere all’interrogazione posta proprio dall’errare dell’autore.
«Ho grande fiducia nel reale, penso che mi abbia dato molto nei miei film, nelle mie foto». Il “reale” di cui parla Depardon non è evidentemente la “realtà” ma uno stato preciso che ci permette di “essere” in un certo punto e in un determinato momento, fotografare soltanto ciò che è lì e mostra il proprio carattere di infinito.
In Errance la composizione nell’inquadratura è costretta a tagliare, a escludere e quindi a privilegiare una visione precisa che parla di un’appartenenza cucita addosso, come un sudario.
Essere sulla curva di una strada o davanti a un deserto, non è una condizione astratta, comporta il bisogno di fermarsi, di fare una riflessione o semplicemente di “contemplare” mossi dal desiderio di riconoscersi attraverso tutti gli elementi che compongono il quadro.
Nella serie Comuni realizzata nel 2020, Depardon ci mostra invece un altro tipo di dialogo con il luogo e come si possa rispondere autorialmente (cioè in maniera non documentale) allo sfruttamento del territorio – una tematica sia politica sia sociale – fotografando ciò che gli abitanti di quei luoghi “vogliono” preservare: le loro abitazioni “antiche”, piene di storia passata che vive ancora nel presente. La serie, le cui immagini sono state prese nelle regioni meridionali francesi, mostra le case di questi paesi, tipiche dell’architettura occitana, i particolari della vita dei loro abitanti, la cui esistenza è stata minacciata da un progetto di estrazione di gas scisto che, se attuato, avrebbe deturpato la natura di un territorio che si estende lungo 280 comuni. Interessante il fatto che non vi sia presenza umana nelle immagini se non attraverso le cose della vita che si vedono affacciandosi alla vetrina di un negozio o stese alla finestra, quasi come a voler sottolineare che è proprio l’umano a essere artefice dell’una e dell’altra realtà, una condizione che impone la necessità di interrogarsi sul perché ciò accade.
«Glasgow mi sembrava agli antipodi della mia fotografia». 1980. Il colore spesso livido di queste immagini restituisce la condizione della città operaia scozzese per eccellenza e dei suoi abitanti schiacciati sotto il tallone di ferro di Margaret Thatcher, primo ministro britannico dal 1979 al 1990. Le foto sono a colori ma appare lo stesso una sorta di monocromatismo che pervade la città tutta. Gli individui sembrano confondersi con i muri e con il selciato grigio piombo. Le poche macchie di colore appaiono quasi sempre nei giochi dei bambini. Anche qui l’intento di Depardon non pare essere quello di documentare o di narrare delle storie ma, molto semplicemente, quello di “registrare” ciò che osserva come un dato di fatto: le cose stanno così, sembra voler affermare senza nessun giudizio, tantomeno politico.
«È un po’ questo il concetto di erranza – dice – che non ci sono più momenti preferiti, istanti decisivi, istanti eccezionali, – e qui l’autore allude chiaramente al motto di Henri Cartier-Bresson – bensì una quotidianità» che, aggiungiamo noi, è tanto preferita, decisiva e eccezionale quanto l’inaspettato poiché racchiude altrettanta meraviglia.
Nel modo in cui si guarda l’apparente staticità di Comuni, possiamo guardare anche il movimento di New York, poiché i due lavori posseggono la stessa anima pur essendo totalmente diversi. Nel primo caso l’umanità rimane celata dagli spessi muri delle case che si ergono ai due lati delle strette stradine di questi piccoli paesi, nel secondo appare talmente in primo piano da “invadere” lo spazio come a volersene appropriare: in entrambi l’uomo è radicato e ben presente.
Manhattan Out (1981) si srotola in un movimento difficile da catturare, da fermare in una immagine, restituendone al tempo stesso la fluidità. Con la macchina fotografica appesa al collo l’autore cerca di acciuffare quell’umanità che vaga sui marciapiedi senza un preciso intento. Ritorna palese anche qui il tema dell’erranza in cui non è affatto scontato e nemmeno necessario che vi sia il momento decisivo da catturare o la scena fuori del comune da documentare (non siamo sotto l’etichetta troppo stretta della street photography), piuttosto nell’osservare si entra a far parte del flusso di individui che sembra non essere per nulla infastidito d’essere ripreso poiché il fotografo viene percepito come parte dell’accadere. Dunque se in Comuni gli umani si nascondono pudicamente in Manhattan Out si mostrano senza alcuna ritrosia. Entrambe le situazioni sono “la vita moderna”, non quella contemporanea.
Depardon torna poi a New York nel 1986 perché «New York è una città in cui si torna sempre», questa volta per realizzare un film – Depardon è anche regista – ma non riesce a mantenere il programma che si è dato: produrre almeno quattro minuti di girato al giorno. Il suo moto errante lo porta a vagare senza trovare spunti, non riesce a dare forma a ciò che vede. Ogni sera ritorna nella sua abitazione senza immagini, la forza della città impedisce al cineasta di ritrarla, il suo è un corpo magmatico che deborda dall’obiettivo e al tempo stesso è secco nel suo incedere impietoso. Alla fine Depardon monterà tre sequenze per un totale di dieci minuti circa. Il film restituisce in modo sublime il disagio dell’autore nella sua ricerca disperata di senso. Nella prima sequenza del video il moto va verso destra inquadrando un apparente banale paesaggio, indica eloquentemente l’andare, la ripresa viene effettuata dalla funivia di Roosvelt Island. Nella seconda la posizione della camera è fissa, una strada silenziosa percorsa da alcuni passanti altrettanto silenziosi, indica il restare. Nella terza e ultima sequenza il moto è verso sinistra, la direzione opposta alla prima, come a indicare il tornare. L’inconcludenza delle riprese di Depardon si condensa in questi tre momenti posti semplicemente uno di seguito all’altro, eppure il risultato è inequivocabile: l’aspetto essenziale che traiamo dalla visione di queste immagini è principalmente quello del passaggio che assume qui il senso metaforico della parabola esistenziale.
Ma regina dello spirito errante di Depardon è la Francia. Egli la riprende in ogni aspetto del suo territorio: la provincia, la parte rurale, la città (Parigi in particolare, grande assente di questa poderosa mostra antologica, lavoro raccolto nel voluminoso libro Paris Journal, Hazan, 2004). Anche in questo caso non siamo di fronte a un’azione documentale bensì a un’urgenza di ritrarre la naturale evoluzione delle proprie radici. In tal senso vogliamo ricordare come l’autore senta la necessità di mostrare il proprio paese d’origine, il luogo fisico in cui è nato e in cui ha sviluppato la sua predisposizione all’osservazione: il microcosmo descritto in Our farm (Actes Sud, 2006), altro lavoro importante e assente in questa mostra, in cui Depardon racconta la sua storia e quella della propria famiglia attingendo all’archivio personale di immagini risalenti a quando, bambino, viveva in una fattoria nei pressi di Villefranche-sur-Saône, un villaggio vicino a Lione. Il libro mostra la giovinezza dell’autore e il distacco dalle attività familiari legate alla coltivazione della terra e all’allevamento del bestiame e del ricordo caldo che rimane. Così scrive nel testo che accompagna le immagini:
«La scala in pietra davanti alla cucina è ancora lì. Conduce al soppalco. Sebbene la mia memoria non sia del tutto chiara, mi sembra di ricordare che fu il mio primo punto di riferimento nella fattoria. Da bambino mi era permesso solo di salire i primissimi gradini (…) Ancora oggi mi piace sedermi su quelle scale. Sarà per la forma perfetta dei gradini, consumati dal tempo? È il loro colore che cambia con la luce e le stagioni? È piacevole restare lì, sotto il sole invernale. Sei al riparo dal vento che soffia attraverso la valle di Saône. In estate, è il punto più caldo del cortile. Quando cala la sera, il sole rosso tramonta dietro i gradini più alti».
Questa poetica descrizione di un elemento così pregnante della memoria personale riverbera in tutto il territorio francese che Depardon ritrae, è parte del desiderio urgente e ardente – allora come in seguito e ancora oggi – di testimoniare lo stato del mondo e dell’uomo al suo interno. Rural e La France, lavori esposti in mostra, esprimono proprio questo stato di testimonianza, di comunione totale con il luogo cui l’autore riserva uno sguardo, lo ripetiamo ancora una volta, non documentale, uno sguardo che dimostra affetto.
La parte dedicata a San Clemente è una mostra nella mostra. È significativo che la presenza umana più forte, in questa antologica, sia riservata al disagio psichico umano.
È di pochi anni prima la sentita indagine di Carla Cerati che assieme a un giovanissimo Berengo Gardin, realizza uno dei più importanti reportage sullo stato dei manicomi in Italia: Morire di classe. Siamo nel 1968 e il fermento politico partito dalle lotte studentesche è al massimo della sua espressione. La denuncia dello stato di questi luoghi appare come un gesto necessario che porta a galla un aspetto da sempre percepito con vergogna: il disturbo psichico. Il lavoro di Depardon è successivo, 1977-1981, la sua indagine esplora diverse istituzioni manicomiali italiane: Trieste, Napoli, Arezzo, Torino e l’Isola di San Clemente. Se l’umanità che vaga per le strade di una grande città come New York chiede all’autore di non mostrarsi, di rimanere come lei “anonimo”, negli scatti realizzati nei manicomi Depardon si mette totalmente a nudo, come gli uomini e le donne che fotografa, andando incontro a quest’altra umanità, “mostrando” la macchina fotografica che successivamente descriverà come una “pistola” nella sua mano.
Per questo lavoro oltre alle immagini, infatti, è presente in mostra un video, in cui l’autore “segue” i pazienti nei loro momenti all’esterno della struttura. In questa non-narrazione è evidente come Depardon sembri quasi non sapere come filmare, la stessa cosa gli succederà qualche anno dopo sempre a New York. Il video riprodotto in loop crea una sorta di circolarità del tempo che non si ferma, le immagini si susseguono sempre uguali senza soluzione di continuità (la stessa che accompagna i personaggi cittadini “chiusi” per le strade). L’autore tallona i soggetti nel loro andare avanti e indietro attorno a un edificio che sembra essere una specie di luogo d’incontro. Un uomo apre e chiude l’acqua di una fontanella, un altro dice se può chiedere al “fotografo” 150 lire per prendere un caffè. Un terzo uomo ascolta una musica uscire da una radiolina portatile. Depardon concede loro tutto lo spazio che può, senza creare alcun canovaccio, senza dir loro nulla. Il risultato è una visione poetica e gentile del tempo vissuto da questi individui, un tempo anche qui circolare senza soluzione di continuità.
Alla fine del percorso espositivo possiamo azzardare una lettura che mescola il disagio umano rappresentato in San Clemente, Glasgow e Manhattan Out, metafora forte e molto attuale dei riflessi della vita moderna sull’individuo, con l’osservazione catartica del paesaggio in Errance, Comuni e La France dove lo sguardo quasi riposa cercando di ritrovare la sua reale dimensione. L’Uomo che ha attraversato tutti questi luoghi appare, alla fine, non solo artefice dell’esistenza propria e altrui ma anche testimone del risultato che scaturisce dalla modernità della propria vita.
A ciascuno l’onere di stabilire se si tratti o meno di un “buon risultato”.
La mostra: Raymond Depardon, La vita moderna, in collaborazione con Fondation Cartier pour l’art contemporain – dal 15 ottobre 2021 al 10 aprile 2022. Triennale Milano