La prima volta che ho visto una mostra di fotografie di Paolo Gioli è stato a Reggio Emilia, nell’ambito del Festival di Fotografia Europea, nel 2006. Conoscevo il suo lavoro ma vederlo dal vero fu una rivelazione. In seguito mi capitò di andare ad un’altra sua mostra, molto ampia e articolata, presso la galleria milanese Peep Hole, era la primavera del 2016, in cui erano esposte le immagini, i dipinti e anche i film. Ma è stato a Napoli che ho avuto modo di visitare, del tutto casualmente, una mostra che mi è rimasta molto impressa, sarà stato forse perché era “di maggio” e c’era il sole, era la mia prima volta a Napoli e tutto mi sembrava limpido, accecante. Vi andai con due amiche che mi accompagnarono volentieri. Mentre loro però la visitarono svelte io ci rimasi due ore. La mostra si intitolava “Abuses. Il corpo delle immagini” (2014) ed era allestita presso la “Casa della Fotografia” posta all’interno del Museo Principe Diego Aragona Pignatelli Cortes. Così, mentre le mie due amiche mi aspettavano nel giardino, piacevolmente sedute a chiacchierare, io mi concessi il “tempo giusto” per vedere ogni immagine, il tempo necessario.
Andare all’origine delle cose è sempre stato per Gioli un aspetto affascinante, da studiare e applicare con curiosità ad ogni approfondimento della conoscenza. Capire da dove vengono le immagini, far loro attraversare un percorso che origina prima ancora che esse vengano fotografate – utilizzando manipolazioni di varia natura prodotte sul negativo vergine – equivale a tornare agli albori dell’arte fotografica stessa. L’esposizione presentata in quell’occasione, una parziale antologica esaustiva del lavoro dell’artista veneto svolto negli ultimi decenni, si componeva di sette serie di fotografie: Maschere, Autoanatomie, Sconosciuti, Torsi, Luminescenti, Naturae e Vessazioni, cicli di immagini proposti dal curatore Giuliano Sergio tutti in qualche modo legati a doppio filo al concetto vita/morte assai presente nella poetica di questo artista.
Nell’interpretazione di Paolo Gioli la materia si fa fotografia nei volti come nei corpi che appaiono sezionati e poi riassemblati come se l’autore volesse studiarne le possibilità compositive. I volti addormentati, quasi assenti, che d’improvviso spalancano gli occhi osservandoci con uno sguardo ossessivo e insistente. Nature morte e nature vive che appaiono come morte dove il medium utilizzato dall’autore, la polaroid, testimonia questa dualità. I corpi cercano la propria vita nei pezzi rappresentati, combattendo con la morte o meglio tentando di conviverci.
Tra le nature vive che paiono morte c’è lo scarno Torso di Sebastiano, mutilato e offerto che racchiude in sé questa idea disperata di tragico sacrificio reso ancora più estremo dal modo in cui Gioli ha effettuato questa e le altre riprese della serie Torsi, mantenendo tempi lunghi e utilizzando flash e lampade roventi, come se il pezzo di corpo ritratto dovesse dimostrare tutta la sua sofferenza. A tale proposito è di estremo interesse ciò che Gioli stesso dice della serie Vessazioni in cui affronta il tema vita/morte anteponendo al volto del soggetto ripreso una sorta di maschera che lo ritrae apparentemente morto:
“Quello che mi interessa è la formidabile capacità che la materia fotosensibile ha nel manomettere e immaginare, quasi sempre drammaticamente, ogni cosa tocchi. […] Prima dell’immagine c’è la materia. Taglio la pellicola poi al buio tengo attaccati i due pezzi di negativo con un pezzo di nastro adesivo per creare un elemento grafico di sovrapposizione. L’immagine deve dare l’impressione di essere dietro la materia.”
Eccoci dunque all’origine dell’immagine che è “dietro la materia”. Si potrebbe quasi dire che l’immagine esiste prima ancora di essere scattata e in effetti è così se pensiamo al processo di immaginazione che la renderà visibile. La materia ritratta le conferisce vita: è solo “luce-pensiero” come lo stesso Gioli afferma.
Nella serie Naturae è la vita che invece sgorga dalle vagine ritratte generando qualcosa che a prima vista appare indefinito ma che si noterà essere fiori. Tali immagini possono sembrare forti, violente, disturbanti in realtà si tratta della più vera testimonianza di vita intesa proprio come nascita che non ha nulla di sereno o di “pulito”. Quelle immagini conturbanti ricordo furono opportunamente collocate in una stanza alla quale si poteva accedere sollevando un telo come se si dovesse entrare in un luogo proibito ma accessibile al tempo stesso. Farlo riguardava soltanto lo spettatore disposto o meno a lasciarsi condurre dal proprio sentire primordiale verso queste nascite, proprio come accade quando si attende fuori dalla sala parto: si vorrebbe entrare per vedere cosa sta succedendo ma non a tutti è concesso (o per meglio dire non tutti se lo concedono), così come non sempre ci concediamo di assistere all’accadimento della morte. Il principio e la fine, i due momenti fondanti dell’esistenza umana.
“Volevo mostrare le Naturae coperte da un panno – disse Gioli in quell’occasione – e costringere le persone ad alzarlo e guardare […] E c’è chi alza per vedere bene e chi invece spia e si ritrae […]”.
Il lavoro di Paolo Gioli invece non si ritrae, al contrario è una profonda riflessione sulla materia che origina con la nascita – qualcosa di estremamente naturale – e termina il proprio ciclo con la morte altrettanto naturalmente. Tuttavia di queste scene spesso non sopportiamo la vista negando allo sguardo la possibilità di osservare ciò che ci accade con quella sensibilità necessaria ad attraversare la materia che forma l’immagine, riflesso del nostro io nascosto. Con le sue immagini Paolo Gioli ci aiuta a farlo, sempre che si voglia scostare il panno che le cela.
L’anno scorso, grazie all’interessamento di un amico virtuale, una carissima persona, ho tentato di ottenere udienza da Gioli per un’intervista che avrei voluto fargli per questa rivista. Sfortunatamente non siamo riusciti a convincerlo, mi fu riferito che Gioli non aveva più voglia di incontrare giornalisti, di sentirsi fare ancora e sempre le stesse domande e poiché non credeva gli si potesse chiedere qualcosa di “nuovo” non era disposto a concedersi. Non volli insistere nel rispetto di un autore forse stanco di doversi relazionare con chi non conosceva, lui così appartato. E dunque la rivista non ha avuto la sua intervista, ma oggi, a pochi giorni dalla scomparsa, non ho potuto fare a meno di ricordarlo attraverso un altro ricordo, il mio, di quella mostra che di lui vidi nel sole sfavillante di Napoli.
Il sito di Paolo Gioli