Conosci Ensor? Era nato nel 1860 a Ostenda, sul mare del nord. E a Ostenda, salvo qualche anno di formazione accademica e di bohème a Bruxelles, ha passato quasi tutta la vita. Per essere artisti bisogna vivere nascosti, diceva.
Certo conosceva Brueghel il Vecchio, anche le sue tele sono affollate da piccoli uomini impotenti.
Nel suo isolamento percorre a suo modo, o anticipa, le stagioni del tardo impressionismo, dell’espressionismo, del simbolismo.
Sulla sua fama grava il peso di non essere andato a Parigi, e anche di avere vissuto fino a quasi novant’anni. Sopravvissuto alle sue diverse stagioni di pittore. Sopravvissuto perché aveva dipinto innanzitutto per sé e si era curato attraverso la sua arte.
Leggendario nel non rinunciare mai ad attaccare l’ordine costituito. L’acquaforte Le Pisseur, 1887, raffigura l’artista che urina su un muro coperto da graffiti; in alto la scritta che esprime la voce del critico: «Ensor est un fou» (Ensor è un pazzo).
Esorcizza la malattia sbeffeggiando i medici in tele e incisioni. Disegna e dipinge senza posa: tutti i procedimenti sono buoni, diceva, matite, acquarelli, gouache. Si libera così dai suoi fantasmi. Anche riempiendo i suoi quadri di maschere. Autobiografia: maschere come ricordo infantile delle cianfrusaglie nel negozio di souvenir della madre; maschere come rappresentazione del delirio; forse anche a un certo punto della saggezza, della maturità dell’adulto: accettare di indossare maschere. Accettare maschere di ruolo che la vita sociale ci impone, senza per questo cessare di essere, dietro la maschera, noi stessi.
C’è un Ensor con la sua opera, vastissima, tele e tavole, pennelli e spatole, incisioni, disegni satirici, temi che tornano, nature morte, salotti borghesi, plein air, ritratti e autoritratti. Stili diversi, o in apparenza mancanza di stile.
E c’è una singola tela, che agli occhi dello stesso Ensor doveva apparire un unicum, una precoce sintesi della sua intera opera.
A ventotto anni dipinge questo quadro il cui significato profondo sfugge a lui stesso, o forse gli è chiarissimo – ma dicibile solo attraverso immagini. Opera personalissima e al contempo qualcosa che va oltre la sua opera personale, perché l’artista è in fondo un involontario testimone del suo tempo: l’epoca, la temperie culturale si manifestano attraverso esseri umani tanto sensibili da respirare l’aria, da cogliere, eseguire ciò che lo spirito del tempo detta loro.
Qualcuno, e anch’io, lo considera il capolavoro che sinterizza l’arte visuale del XX secolo, e forse anche, per essere ancora più appassionatamente esagerati, del XXI.
Ma già dipinto in anticipo, nel 1888. L’Entrée du Christ à Bruxelles: il culto delle masse il delirio delle masse, i modelli di leadership, il socialismo come fuga religiosa, l’ipocrisia borghese, questo grande quadro rifiutato dalle esposizioni, resta per una quarantina d’anni nello studio di Ostenda, nessuna lo voleva. Ensor sopravvissuto al suo successo mancato teneva nel suo studio il quadro e di fronte ad esso suonava il pianoforte e poi l’harmonium. Continuava a dipendere per bisogno e per abitudine dalla pittura, la sua vocazione artistica si era spostata però verso il teatro e la musica, non conosceva la scrittura musicale, ma componeva musica, facendola trascrivere da amici.
L’entrata di Cristo a Bruxelles è esposta in pubblico per la prima volta negli anni Venti. Non credo sia stata allora veramente guardata: credo fosse considerata solo un cimelio che l’autore, ormai abbastanza noto, poteva permettersi di esporre alla vista.
All’inizio del XXI secolo a Bruxelles, a cinquant’anni dalla morte, una grande mostra celebra il successo postumo di Ensor. Nella mostra la grande tela – ora al Getty Center, Los Angeles – manca; a rappresentarla, solo una diapositiva. La folla belga guarda con distaccato rispetto l’immagine famosa.
Il distacco temporale, il contesto museale, l’assenza dell’opera nella sua materialità permettono ai visitatori di osservare rimuovendo la specularità: il quadro ritrae loro stessi e li sbeffeggia, folla succube e inneggiante per conformismo all’ultima celebrità.
Marangoni era uno studioso d’arte fuori dai ranghi. Era stato prima musicista, antropologo. Marangoni provava avversione per il metodo filologico della storia dell’arte, alla quale si era avvicinato esercitando l’occhio, vedendo e rivedendo le opere nei grandi musei d’Europa. Riprendo in mano Saper vedere.1 In questo libro, scritto nel 1933, Marangoni se la prende con i critici di professione. Sostiene che «l’arte è cosa da iniziati», ma aggiunge subito che «si può avere la propria iniziazione».
Ciò che mi interessa qui di Saper vedere non sono le tesi che vi trovo esposte, ciò che mi interessa è l’invito a dubitare. Possiamo essere davvero capaci di intendere il bello? Come si può cogliere lo splendore senza prendere abbagli? Non siamo comunque condizionati dall’eccessiva vicinanza – storica o culturale – o dall’eccessiva lontananza? Marangoni ci ricorda che Giorgio Vasari, pur così acuto, non capiva la pittura veneziana: sottovalutava Tiziano, accusava il Tintoretto di «dipingere a caso, senza disegno». Allo stesso modo credo, di fronte all’L’Entrée du Christ à Bruxelles ammiriamo il capolavoro di Ensor, ma ci rifiutiamo di capirlo, perché ci dice troppo. Troppo di noi stessi.
L’Entrée du Christ à Bruxelles: allegoria teatrale, bizzarra e deforme. Nel rosso steso à plat sulla grande tela – il colore delle bandiere e degli striscioni –, nelle scritte deliranti che inneggiano al Messia, in quei volti come maschere di disperazione, leggo la morte dei sogni, il timore del domani che incombe nel futuro di ogni rivoluzione. Il potere, come si è espresso nel XX secolo, e come possiamo conoscerlo oggi, sta tutto qui.
È anche un’opera politica, dove traspare l’anarchismo di Ensor.
Lo sguardo sardonico e delirante di Ensor è lontanissimo anche dall’atteggiamento agiografico e nutrito di certezze ideologiche dei muralisti messicani – Rivera, Siqueiros, Orozco. Ma a ben guardare proprio dal grande quadro di Ensor «viene buona parte dell’opera di Diego Rivera». Secondo Octavio Paz proprio Ensor pone le basi del muralismo, e allo stesso tempo ne fornisce la critica più radicale.2
Ma ancor più, direi, l’Entrée è l’opposto di Guernica. L’opera di Picasso è grondante di retorica, l’Entrée è disperata e ironica. Guernica è l’emblema del politicamente corretto, l’Entrée sfiora il blasfemo. Guernica è la tipica opera su commissione, l’Entrée è l’esemplare opera che l’artista crea a partire dalla propria solitaria ispirazione. Guernica, in virtù di un abile marketing è opera già famosa durante la sua lavorazione; è creata per essere esposta all’Esposizione Universale di Parigi del 1937.
Ensor dipinge nel 1888, ma il titolo intero dell’opera di Ensor è L’Entrée du Christ à Bruxelles en 1889 – e si può presumere che l’artista si riferisca all’Esposizione Universale di Parigi di quell’anno. Gran celebrazione della moderna civiltà industriale, rappresentata dalla maestosa Galerie de Machines e dalla Tour Eiffel. Centenario della Rivoluzione Francese, ma anche dei successi della Terza Repubblica, che aveva seppellito le speranze libertarie della Comune, il cui eco è comunque vivo diciassette anni dopo la feroce repressione.
Ensor ha ben presente il mito di Parigi, ma è belga. Ha molti motivi per scegliere come scena del quadro la capitale del suo paese, Bruxelles.
La Bruxelles di Ensor è anche la Bruxelles di Rimbaud e Verlaine, il simbolo di un luogo dal quale vorremmo fuggire lontano. L’8 luglio del 1873 Verlaine telegrafa a Rimbaud di raggiungerlo a Bruxelles, Hotêl Liégiois. Alle otto di sera del 10 luglio Rimbaud depone presso il commissariato, riferendo del colpo di pistola sparatogli da Verlaine.
In agosto Rimbaud stampa a Bruxelles la Saison en Enfer, 400 copie subito distrutte dell’autore, salvo qualche copia destinate agli amici, tra questi Verlaine: Rimbaud lascia la sua copia alla portineria del carcere.
È anche la Bruxelles di Conrad, la tetra “città sepolcro”, “città dei morti”, di cui si parla in Cuore di tenebre.3 Bruxelles è qui il centro del dominio imperialistico che si irradia, attraverso i fiumi, verso il profondo inferno della foresta tropicale.
Ensor dipinge il quadro (a Ostenda) nel 1888. Conrad entra in contatto con la Société du Haut Congo nel 1889: la vicenda narrata in Cuore di tenebra è in buona misura autobiografica. A Bruxelles infatti il capitano Marlow, che è il giovane Conrad, firma nella grigia sede della Societé Anonyme Belge pour le Commerce du Haut Congo il contratto che lo porterà a intraprendere quel viaggio che si rivelerà terribile anabasi.
Estrazioni minerarie, caucciù, lavoro forzato degli indigeni. Dopo una conquista condotta a termine a titolo personale, solo nel 1885 Leopoldo II è divenuto ufficialmente Capo dell’État Indépendant du Congo. Le compagnie private sfruttano ferocemente il bacino del gran fiume africano a suo nome. Passerà un decennio prima che il territorio divenga ufficialmente colonia del Regno del Belgio.
In Belgio sono anni di crisi economica e di lotte sociali. Di pubbliche manifestazioni di protesta. La figura epica del proletario belga è il minatore. Ma come accade dovunque in Europa in quegli anni le masse si affollano nella metropoli: Bruxelles.
Ensor descrive in anticipo la scena che vedremo ripetuta nei primi trent’anni del XX secolo.
Le città sono teatro di scontro sociale violentissimo. La ribellione delle masse paventata in Metropolis. Masse che si affacciano in quegli anni sulla scena politica e sociale, cercando rappresentanza politica, spazi sul mercato del lavoro. Masse anonime, insoddisfatte, prive di guida, che si muovono in un unico flusso, sempre insieme. Ribelli e impotenti.4
Il 15 luglio 1927 cortei spontanei convergono verso il centro di Vienna. Manifestanti pacifici e agitatori si confondono. Il Palazzo del Parlamento è strettamente presidiato dalle forze dell’ordine, non così il Palazzo di Giustizia, che viene incendiato. La polizia riceve l’ordine di sparare. Sarà una carneficina.
«Quel giorno tremendo, di luce abbagliante», scrive Elias Canetti, «lasciò in me la vera immagine della massa, la massa che riempie il nostro secolo».5 In ricordo di quel giorno Canetti scrisse Autodafé6: gli intellettuali «tutto testa e niente corpo» non possono capire le donne e gli uomini ridotti ad avere una identità solo come informi elementi di una massa. E Canetti, per riflettere su questo nodo che impedisce alle energie sociali di sprigionarsi, passerà i trent’anni successivi scrivendo Massa e potere.7
È una storia che avrà grigia conclusione nelle folle inquadrate delle adunate naziste. E nell’identificarsi della massa in un Capo.
Ensor contamina genialmente questa immagine con una tradizione che cittadini ed intellettuali belgi non potevano non aver presente. In questa contaminazione sta la ricchezza dell’opera – e forse anche la ragione del suo rifiuto: per i contemporanei, forse, immagini troppo ricche, che spezzano le convenzioni e confliggono con le immagini tramandate dalla memoria storica.
Il vincitore della guerra, salvatore della patria, entra in trionfo in città; il Sovrano, dopo la sua ascesa al trono si presenta alle popolazioni delle sue città.
Di questo ingresso cerimoniale del sovrano in città troviamo tracce in ogni epoca, in ogni cultura. Ma la tradizione – Blijde Intrede in olandese, Joyeuse Entrée in francese – è specialmente radicata nel Ducato di Brabante, nella Contea delle Fiandre, nei Paesi Bassi borgognoni: risale al Medioevo.
Rappresentanti della città, accolgono il Sovrano fuori porta offrendogli le chiavi della città. All’incontro con magistrati e notabili segue l’incontro con la popolazione.
Ensor, dipingendo, aveva certo anche in mente la storia recente. Il momento centrale della fondazione del Regno del Belgio: la Joyeuse Entrée a Bruxelles di Re Leopoldo I, 21 luglio 1831. Ancora oggi noi stessi possiamo percorrere, nel centro di Bruxelles, l’Avenue de la Joyeuse Entrée.
Joyeuses Entrées, del resto, sono presenti nella memoria iconografica di ognuno di noi. Non solo incoronazioni di re e regine: ritorno di eroi di guerra, pubblico omaggio ad eroi sportivi od astronauti, glorioso ingresso di Castro all’Avana, l’8 gennaio 1958. Ricordo qui la cerimonia di accoglienza di Charles Lindbergh a New York, il 13 giugno 1927, perché l’entusiastica accoglienza del trasvolatore transatlantico, il cielo coperto da stelle filanti che sono poi nastri per telescriventi, ha luogo a pochi giorni di distanza alla tragica manifestazione che si conclude nell’assalto al Palazzo di Giustizia di Vienna.
Le metropoli sono luogo di incontri festosi e di insanabili conflitti. Ogni Joyeuse Entrée, come Ensor chi insegna, è sempre ambigua e complessa: anche la sfilata di carri carnevaleschi è una Joyeuse Entrée.
Vive la Sociale! Bandiere e striscioni sono alzati inutilmente. Gli slogan di partito suonano vuoti; non trovano riscontro negli sguardi dei cittadini stipati nelle prime file, nel luogo pubblico che si risolve in spazio chiuso, recinto. Un ammasso caotico e disumanizzato di maschere e caricature. Figure pubbliche, storiche e allegoriche, insieme, dice qualche critico, alla famiglia e agli amici dell’artista.
Sulla sinistra della folla avanzante, su una sorta di tribuna, qualche autorità presiede con distacco allo scorrere della folla umana, e ancora clown.
Il Cristo aureolato e benedicente è al centro nella scena, ma già sullo sfondo. Si staglia precario e isolato tra le masse ridotte a gregge. Quasi icona traballante portata in processione
Possiamo cercare un senso nel colore e nell’equilibrio complessivo dei segni. Un verde acido si contrappone al rosso degli striscioni. Spostando lo sguardo verso il fulcro dell’immagine, il Cristo lontano appena abbozzato, il verde, il rosso, qualcosa di blu, lasciano spazio al giallo e a un bianco sporco che sembra parlare di voluta incompiutezza, di impossibilità di rappresentare.
Ma il tratto più significativo sta nello stravolgimento espressionista della prospettiva.
In alto lo striscione. In primissimo piano schiacciato e distorto da uno sguardo grandangolare, sta colui che a quanto pare si ritiene – ma la folla pare di altro avviso – la guida del corteo: tronfia autocompiaciuta figura in abiti vescovili, con in mano la bacchetta da sindaco. Si arroga il ruolo di leader, gonfio di arroganza.
Qualche critico sceglie di vedere in questa figura il riformatore sociale ateo, carnevalizzato nell’aspetto. Ma è in ogni caso l’incarnazione di un potere temporale, laico, reso vano dalla folla disinteressata che circondandolo lo sovrasta.
L’equilibrio geometrico dell’immagine ci porta a spostare lo sguardo, seguendo la tiara come una freccia, e vediamo così il Cristo.
Possiamo così isolare tre elementi simbolici; tre aspetti dell’umanità. Il cinico politico di professione che cavalca le paure dei cittadini ridotti a folla solitaria. Il Cristo. La folla stessa.
La folla, ci accorgiamo, non consiste nelle figure borghesi in prima fila, così ansiose di apparire, di ostentarsi. Se immaginiamo la scena ripresa da una cinepresa, la figura del leader e le maschere che lo circondano sono in procinto di uscire dall’inquadratura.
E allora lo sguardo non può che spostarsi oltre la fanfara di gendarmi, sulle folla, lontana, priva di identità, quasi invisibile che sfila nel bianco lattiginoso, dietro al Cristo.
Possiamo rileggere i tre elementi simbolici alla luce della parabola del Grande Inquisitore, incastonata da Dostoevskij nei Fratelli Karamazoff. Il Grande Inquisitore, austero membro della Chiesa, dileggia il Cristo, misteriosamente riapparso. Inveisce contro di lui: non servono le tue parole di libertà, serve la nostra ferma guida. «La libertà di coscienza affascina l’essere umano ma, anche, non c’è niente che dia all’essere umano altrettanta angoscia. Se non vede segnato davanti a sé un cammino preciso, l’essere umano non sopporterà questa vita».
Il Grande Inquisitore è qui il grottesco vescovo in primissimo piano. Ensor, con questa immagine, coglie l’ipocrisia di ogni Salvatore del Popolo: afferma di voler salvare, guidare in un porto sicuro, ma in realtà specula cinicamente sull’ignoranza e sulla paura, e impedisce ogni presa di coscienza e assunzione di responsabilità.
Paolo, nella Lettera ai Filippesi, indica un’altra via, che lo stesso Ensor sembra suggerire. Nel versetto 2,7 leggiamo: Cristo, lui che gode della condizione divina, se ne è spogliato, facendo propria la condizione umana; si è fatto riconoscere dagli esseri umani come essere umano.
Spogliarsi dei propri privilegi. Svuotarsi del proprio potere. Questo sembra essere il Cristo che entra a Bruxelles.
Un potere avverso è imposto alla moltitudine di cittadini il cui volto è ignorato. Il XVIII secolo si era aperto con progetti di Rivoluzione. La Comune di Parigi è l’ultimo fallimento. Ensor – in una immagine di grande potenza riassuntiva – annuncia i fallimenti dei movimenti democratici e socialisti che attraverseranno il XX secolo.
La politica, ci mostra Ensor, è truffa, inganno. Il cittadino non può credere certo nella sincerità e nell’onestà dei governanti.
E tuttavia, usciti dall’inquadratura lo pseudo vescovo e le chiassose lobby, l’attenzione può spostarsi sulle sagome indistinte di migranti, quasi un esodo verso una possibile città dell’uomo, al quale il Cristo stesso appartiene. Utopia, immaginazione di un futuro possibile, desiderio come potenza costruttiva.
Bruxelles non solo come metropoli, ma come nostra metropoli. Più del trenta per cento della popolazione non è belga.
Dagli anni Cinquanta, Bruxelles ha via via rafforzato il suo ruolo di capitale dell’Europa.
Se come è lecito sperare ci sentiamo cittadini europei, Bruxelles è la nostra capitale. Quella folla lontana, che in lunghe colonne si incammina in remota prospettiva, sullo sfondo del quadro, siamo è noi.
NOTE
1Matteo Marangoni, Saper vedere. Come si guarda un’opera d’arte, Treves, 1933.
2Octavio Paz, Suor Juana o las trampas de la fe, Fondo de Cultura Económica, Ciudad México, 1982, trad. it. Suor Juana o le insidie della fede, Garzanti, Milano, 1991. E ancora sulla influenza dell’Entrata di Cristo a Bruxelles nella pittura latinoamericana: Edward Lucie-Smith, 20th Century Latin American Art, 1993.
3Joseph Conrad, “Heart of Darkness”, Blackwood’s Magazine, 1000th issue: special edition, february 1899; trad. it. Cuore di tenebra, Bottega di poesia, Milano, 1924.
4Sigmund Freud, Massenpsychologie und Ich-Analyse, Internationaler Psycoanalytischer Verlag, Leipzig-Wien, 1921; segue seconda edizione 1923; trad. it. Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in «L’Io e l’Es e altri scritti 1917-1923», Opere, vol. 9, 1977, pp. 257-330. José Ortega y Gasset, La rebelión de las masas, Galo Sáez, Madrid, 1929. Wilhelm Reich, Massenpsychologie des faschismus, Kopenhagen, Prag, Zürich, Sexpol Verlag, 1933. José Ortega y Gasset, La rebelión de las masas, Revista de Occidente, Madrid, 1930; trad. it. La ribellione delle masse, Il Mulino, Bologna, 1962.
5Elias Canetti, Die Fackel im Ohr. Lebensgeschichte 1921-1931, Hanser, München-Wien, 1980; trad. it. Il frutto e il fuoco. Storia di una vita (1921-1931), Adelphi, Milano, 1982, p. 256
6Elias Canetti, Die Blendung, Reichner, Wien 1936; Auto da fé, Jonathan Cape, London, 1946; The Tower of Babel, Knopf , New York, 1947; La Tour de Babel, Arthaud, Grenoble-Paris, 1949; Auto da fé, Garzanti, Milano, 1967.
7Elias Canetti, Masse und Macht, Claassen, Hamburg, 1960; Crowds and Power, Viking Press, New York, 1962; Masse et puissance, Gallimard, Paris,1966; Massa e potere, Adelphi, Milano, 1981.
1Matteo Marangoni, Saper vedere. Come si guarda un’opera d’arte, Treves, 1933.
2Octavio Paz, Suor Juana o las trampas de la fe, Fondo de Cultura Económica, Ciudad México, 1982, trad. it. Suor Juana o le insidie della fede, Garzanti, Milano, 1991. E ancora sulla influenza dell’Entrata di Cristo a Bruxelles nella pittura latinoamericana: Edward Lucie-Smith, 20th Century Latin American Art, 1993.
3Joseph Conrad, “Heart of Darkness”, Blackwood’s Magazine, 1000th issue: special edition, february 1899; trad. it. Cuore di tenebra, Bottega di poesia, Milano, 1924.
4Sigmund Freud, Massenpsychologie und Ich-Analyse, Internationaler Psycoanalytischer Verlag, Leipzig-Wien, 1921; segue seconda edizione 1923; trad. it. Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in «L’Io e l’Es e altri scritti 1917-1923», Opere, vol. 9, 1977, pp. 257-330. José Ortega y Gasset, La rebelión de las masas, Galo Sáez, Madrid, 1929. Wilhelm Reich, Massenpsychologie des faschismus, Kopenhagen, Prag, Zürich, Sexpol Verlag, 1933. José Ortega y Gasset, La rebelión de las masas, Revista de Occidente, Madrid, 1930; trad. it. La ribellione delle masse, Il Mulino, Bologna, 1962.
5Elias Canetti, Die Fackel im Ohr. Lebensgeschichte 1921-1931, Hanser, München-Wien, 1980; trad. it. Il frutto e il fuoco. Storia di una vita (1921-1931), Adelphi, Milano, 1982, p. 256
6Elias Canetti, Die Blendung, Reichner, Wien 1936; Auto da fé, Jonathan Cape, London, 1946; The Tower of Babel, Knopf , New York, 1947; La Tour de Babel, Arthaud, Grenoble-Paris, 1949; Auto da fé, Garzanti, Milano, 1967.
7Elias Canetti, Masse und Macht, Claassen, Hamburg, 1960; Crowds and Power, Viking Press, New York, 1962; Masse et puissance, Gallimard, Paris,1966; Massa e potere, Adelphi, Milano, 1981.