Pornoland Redux è il racconto di un ritorno da una terra dove si svolgono battaglie campali e hanno luogo epiche imprese, un luogo di cui tutti parlano e che tutti vorrebbero almeno solo visitare. I confini di Pornolandia sono larghi e labili: Berlino, Budapest, Praga, Tokyo, Los Angeles, Milano, ma la scena geografica non è resa da “fatti”, è essenzialmente rappresentazione di fantasie oniriche, allucinazioni ad occhi aperti, dettagli, ossessioni più reali della realtà stessa.
Stefano De Luigi, in punta di piedi, quasi un’ombra sul set cinematografico, riscrive le dinamiche di un immaginario ormai cristallizzato in una lunga ma definita serie di situazioni, contrapponendo la banalità del quotidiano al climax del momento eroico. L’eroe non ha il pene perennemente eretto, brandito come un gladio, pronto ad affondare nel corpo della vittima predestinata, lo vediamo sussurrare amichevolmente un pensiero all’orecchio della partner. Il gruppo di maschi in mutande, sul palco illuminato dai riflettori, fa pensare ad un qualunque drappello di lavoratori in attesa di un qualunque faticoso lavoro. Né ci sono eroine, tranne una statua di Atena, vergine guerriera, che impugna una lancia, a vegliare indignata la scena di un amplesso. Una bambola gonfiabile e un set di vestiti da indossare fanno pensare ad una riduzione in comico del rito della vestizione dell’armatura.
L’immagine pornografica è sempre evocata, ma mai esibita. Dentro una stanza che ricorda un salotto un uomo nudo tiene in mano il pene. Sul lato destro della fotografia una donna osserva la scena. Il suo corpo in controluce è scuro e in contrasto con una luce calda e gialla che avvolge la stanza. Il gesto dell’uomo è intimo, non pensa ci sia qualcuno che lo stia osservando. La donna invece osserva senza essere vista. Attende. Cosa? Ci si chiede. Che lui sia pronto per iniziare la scena.
Le fotografie non descrivono e nemmeno raccontano, ma eludono, o più spesso alludono. Non vi sono corpi levigati che si muovono fra paradisi edenici o lussuose residenze californiane colme di specchi e piscine dalle acque blu. Non compare alcuna delle delizie di Bosch. Ciò che le immagini racchiudono e significano è volutamente rimandato a un dopo, quasi come se la funzione di queste foto fosse quella di proteggere nello spazio i corpi degli attori, e rimandare nel tempo le loro azioni. Lo sguardo del fotografo si sofferma spesso su ciò che non appare, che non ci si aspetta di vedere.
È l’immagine di un tempo in cui non accade nulla. Il tempo dell’attesa, della pausa, del vuoto. Un tempo fra parentesi, che sta tra una scena e l’altra ed equivale a ciò che è marginale, a qualcosa che di solito non si vede. De Luigi ama ampliare i confini della realtà che osserva, sia in senso spaziale, poiché c’è sempre uno spazio “altro” accanto a quello che si dovrebbe vedere, sia in senso temporale, poiché evita la concezione quantitativa del tempo e la sua visione in termini di pura efficacia. Per questo fotografa un tempo privo di ogni valore: tre donne chiacchierano fra di loro in una sala con un tavolo da riunioni, forse in attesa di un colloquio, un’attrice, sdraiata su un letto, si copre il corpo con un grande telo che si tira sul volto e con cui sembra pulirsi la bocca, un’attrice riceve da un uomo della carta da un rotolo, molto probabilmente per pulire il suo corpo da residui organici dopo aver girato una scena.
Lo sguardo del fotografo tende ad essere lirico, in bilico tra una bellezza sublimata e una realtà squallida. Ne è un esempio l’immagine di un attore ripreso da dietro che si abbraccia la nuca con le mani seduto a bordo di una piscina, quasi un pensatore di Rodin rassegnato, forse disperato, mentre lì accanto una collega sembra ignorarlo, persa nel vuoto dei propri pensieri. Le fotografie di De Luigi riportano in superficie ciò che di solito si annida nel profondo di ciascun individuo: sogni, desideri, paure. Degli attori appare l’anima prima dei corpi. L’attrice nuda con in braccio il figlio a cui sta porgendo un biberon torna ad essere una madre premurosa e la giovane donna raggomitolata in posizione fetale al centro di una stanza circolare, non è più un’attrice porno, ma una ragazzina addormentata dopo una festa. Una marionetta appesa sulla testata del letto ci dice la verità sull’ombra maschile e sul piacere incollato al volto femminile sotto di lui.
De Luigi fotografa con l’occhio di chi è vicino alle persone che incontra. Ciò che veramente ci sorprende è il bisogno di illuminare queste esistenze, di colorare a tinte vive non tanto ciò che è straordinario o sensazionale, ma la loro perfetta “normalità”.
Con la tecnica del cross processing il fotografo ottiene delle tonalità che virano verso il giallo, il verde e l’azzurro e donano alle cose una sfumatura onirica, sulle immagini sembra essere passato un pennello, per cui alcune sembrano acquerelli, altre quadri a olio. Si percepisce che il fotografo è dentro quello che racconta. Dà visibilità e corpo a un sentimento, rende materica la sua pietas. Come accade al volto di un’attrice, accostata all’immagine di una Madonna con bambino, che si scorge su un quadro appeso alla parete.