Quale significato possiamo attribuire oggi alle radici? Possiamo affermare che non corrispondono più a un luogo esclusivamente fisico? Possiamo dire che attraverso le rotte del mare, ma anche quelle della terra, ogni individuo porta le proprie con sé come fosse una sorta di bagaglio interiore irrinunciabile che trova rifugio in una profondità sì personale ma, al tempo stesso, universale? Quanto ha a che fare l’elemento memoria con il concetto di radice in una dimensione del mondo dove le popolazioni si muovono da un continente all’altro alla ricerca di un altrove in cui invasare un pezzetto della propria pianta affinché possa radicarvisi?
Nel libro Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa il sociologo Paolo Jedlowski affronta il tema del raccontare di sé (e del proprio luogo d’origine) riferendosi all’intraducibile termine tedesco “Heimat” che si può identificare con tutto ciò che costituisce lo spirito, le radici, l’identità di un popolo. Il riferimento prende spunto dall’omonima opera omnia del regista Edgar Reitz, ambientata nell’immaginario paese di Schabbach, nello Hunsrück. La trilogia di Reitz narra la storia di una famiglia dai primi anni del Novecento fino alla caduta del muro di Berlino, momento storico in cui un confine eretto per dividere viene abbattuto per ri-unire un popolo. «La parola “Heimat”– dice Reitz – […] non descrive soltanto il luogo della propria infanzia, ma anche la particolare sensazione che colleghiamo alle nostre origini, la sicurezza e la felicità correlate al senso di identificazione, e nello stesso tempo, la percezione di aver perso tale appartenenza».
Trailer Heimat [DE 1981-1984] / Heimat II [DE 1988-1992]/ Heimat 3 [DE/GB 2002-2004])
Titolo originale: Heimat / Die zweite Heimat / Heimat 3 – Chronik einer Zeitwende
Regia: Edgar Reitz – Produzione: Edgar Reitz Filmproduktions GmbH (Monaco)
Distributore: Edgar Reitz Filmproduktion (Monaco) / Kinowelt Filmverleih GmbH (Lipsia)
© Edgar Reitz / Kinowelt
È quindi ancora il luogo d’origine (l’Heimat) l’espressione più autentica delle nostre radici? Già attraverso i titoli delle due opere poste in dialogo – Future Roots di Gianfranco Basso e ἀνεμόεις (mobile come il vento) di Francesca Loprieno, presentate nello spazio milanese di Red Lab Gallery – i due artisti danno vita a una possibile rappresentazione delle riflessioni che qui abbiamo condiviso. In essi sono presenti alcuni di questi concetti, ispirati dal lavoro congiunto che entrambi hanno svolto la scorsa estate durante la loro residenza salentina, URBILD, promossa da Red Lab Gallery Lecce e curata da Carmelo Cipriani. Un primo filo viene dunque ad essere teso con evidenza tra il sud e il nord di questa lunga striscia di terra che è la penisola italiana. Entrambi autori pugliesi approdati in altri luoghi, essi stessi hanno tessuto altri fili che, dalla loro terra, li hanno portati in altri luoghi fino a giungere qui e ora, insieme.
Il filo teso prosegue poi il suo cammino svolgendosi attraverso l’opera di Francesca Loprieno, ἀνεμόεις (mobile come il vento). Una video installazione mostra la “fioritura” immaginale scaturente dalla mobilità dell’acqua del mare, un muoversi morbido, che ricorda l’alito del vento ma che è anche origine di segni diversi e al contempo ripetitivi che con il loro costante ipnotico fluttuare ci attraggono facendoci quasi perdere il senso del reale. Mobilità che si esprime a volte impercettibilmente altre vigorosamente, ma che in ogni caso ci “trasporta” in un altrove. Questa atmosfera ci induce a pensare che la “visione” prodotta da un’opera d’arte può e deve essere lasciata libera di auto-sperimentarsi, libera di seguire il filo dell’immaginazione che si interseca e si annoda ad altri fili immediatamente d’appresso, appartenenti a chi osserva in cui l’autore non solo dialoga con le percezioni prodotte in chi guarda ma finanche con il luogo che circonda l’opera stessa.
Ed è ancora un filo che si incontra in questo fluire senza confini o limiti, quello che Gianfranco Basso tende tra il cerchio e il blocco di pietra in Future Roots dove gli elementi sono chiaramente “stabili” ma non per questo immobili. Il cerchio, il quadrato e il filo teso, pur nella loro apparente staticità, generano una condizione di rinascita fortemente legata a un’idea di memoria nella sua condizione più completa, vale a dire quella che innesca nuova vita, «[…] fa riferimento – scrive l’autore – alle radici degli ulivi, il legame che gli alberi hanno avuto con la terra di Puglia, ma è anche un monito di speranza rivolto alla nascita di nuove radici che determineranno una nuova era per tutta la Puglia, e non solo».
Con Future Roots Gianfranco Basso si immerge in una dimensione primigenia prendendo a prestito elementi naturali quali la pietra e il legno d’ulivo, simbolo quest’ultimo di un’altra rinascita legata alla strage compiuta dal “virus” della xylella che si è abbattuto sulle antiche piante del Salento e che tante radici profonde ha spezzato. La pietra quadrata accoglie l’innesto delle “piccole” piante che possono così radicarsi nuovamente. I giovani arbusti nascono dal gesto/filo con il quale l’artista unisce il cerchio, simbolo della fertilità divina al quadrato simbolo della terra come grembo che accoglie nuova vita.
Elementi ancestrali entrano in relazione viaggiando tra una dimensione fortemente radicata al suolo e un’altra altamente proiettata verso l’altrove. Queste due opere che si parlano da un’apparente distanza, in realtà esprimono il desiderio di camminare insieme tracciando un nuovo filo tra passato e futuro, tra terra e mare come approdo e fonte di vita.
Seppure in manifesta “diversità” tali elementi annodati gli uni agli altri comporranno in ogni caso un nuovo intero. In virtù di questa semplice osservazione possiamo affermare, in ultima analisi, che le due opere contribuiscono a creare una nuova origine che fa vibrare la più spessa corda (l’ultimo filo) di quell’immaginario necessario a sopravvivere racchiuso nell’intima profondità di ciascuno di noi.