“Altre acque – itinerari non terrestri” è un’indagine tra le acque dolci salate e salmastre delle arti visive. Nello scorso – e primo – articolo spiegavo alcuni dei motivi per cui ho deciso di provare a fermarmi un po’ di più nel lavoro altrui, e di esplorare le ricerche di artiste e artisti che con l’elemento acqua si sono confrontate e confrontati. Mi chiedo che rapporto ci sia tra queste artiste e questi artisti e l’acqua, se c’è una relazione col luogo in cui sono nate e nati o vissute e vissuti, come cambia questo rapporto quando cambia la forma, lo stadio d’aggregazione e la salinità dell’elemento. Capita spesso che io cataloghi come acquatici anche lavori in cui l’acqua non si vede quasi mai, o – pur vedendosi spesso – non è in realtà soggetto. Mi piace questa ambiguità, il modo in cui in certi lavori mi sento immersa, il modo in cui mi fanno sentire a mio agio – come quando non vedi il mare ma sai che è oltre quel palazzo, o come quando basta il suono di un corso d’acqua a tranquillizzare gli animi.
Continuo, allora, con il Mediterraneo – interiore e salato – di Lidia Bianchi e con i riverberi acquatici – cheti e insieme cosmogonici – di Elisa Moro.
Nel lavoro di Lidia Bianchi il mare e l’acqua spesso non si vedono esplicitamente: in molta della sua ricerca visiva è predominante la terra, la roccia, la lava, l’etere – eppure tutto è costantemente acquatico, tutto riporta a una dimensione marina. È come quando si è in immersione: si è nel liquido, e per questo non ti accorgi dell’acqua. Raramente il mare è il soggetto esplicito delle sue fotografie, eppure resta immagine latente, permanenza, spettro. Per Lidia Bianchi il mare è da sempre nei suoi occhi, l’immagine che ha più guardato e visto nella vita, filtro immanente attraverso cui osserva le cose con fare geologico e filosofico. Risulta quindi come in sottofondo, come se dietro ogni immagine – di masso, di cespuglio, di nuvola – ci fosse, appena oltre, il Mediterraneo. Il Mediterraneo diventa la pietra angolare della sua ricerca visiva, l’orizzonte da cui guardare altrove, e l’acqua la patina leggera che riveste il suo sguardo.
In Indacoterra tutto è acqua. L’artista, attraverso esplorazioni nei luoghi di casa durante l’ora blu e l’uso archetipico della pietra, ci trasporta in un viaggio geografico, geologico e proiettivo, ci fa profondare in un viaggio melanconico e metafisico attraverso il mito, caricando il paesaggio di richiami e visioni altre. Accade lo stesso con Eea, in cui crea un archivio di ricordi, permeato di nostalgia e alterato dall’idealizzazione del ricordo.
“Qué le voy a hacer si yo nacì en el Mediterráneo”
Joan Manuel Serrat
Nata a San Felice Circeo nel 1992, si è formata tra Roma, Milano e Valencia. La sua pratica artistica, che comprende anche una densa ricerca teorica, prende appunto forma dalle intuizioni estetiche suscitate dal paesaggio e dalle sue istanze: Lidia Bianchi cerca l’arcaico nelle fenditure del contemporaneo e guarda al paesaggio come spazio estetico, luogo di immaginari che dalla contrapposizione dialettica configurano una narrazione visiva altra, incentrata sulle forze telluriche che lo animano. E anche dell’acqua le interessa la sua posizione nel nostro immaginario.
Chiara Arturo: Che rapporto hai con l’acqua?
Lidia Bianchi: L’acqua mi mette a mio agio, e mi spaventa. Il rapporto è dialettico. La sintesi sono io.
Da bambina mia mamma mi leggeva l’oroscopo del mio segno zodiacale, il cancro, tenendoci a farmi notare come io effettivamente rispecchiassi proprio le caratteristiche dell’animaletto d’acqua. Ci ho sempre sguazzato in quest’immagine di me, essere di acque basse e calme, con scogli e sabbie accoglienti tra cui nascondersi, all’occorrenza.
CA: Che relazione c’è tra il tuo rapporto con l’acqua e l’essere nata nel Circeo?
LB: Sono cresciuta così, alla spiaggetta libera dietro al porto del Circeo, al sicuro, tra scogli e brevi mezzelune di sabbia.
Gli spazi d’acqua del Promontorio, cioè le grotte, le cave di alabastro, le piscine naturali, le calette, sono stati per me specchio e insieme finestra. Ci sono cresciuta dentro, e insieme, con le ponziane e un paio di flegree -a cielo terso- davanti, a tracciare i confini del mio immaginario.
CA: Come cambia questo rapporto in base al fatto che l’acqua sia di Mar Mediterraneo, di lago, di fiume, allo stato liquido, solido o gassoso? Ci sono altri luoghi acquatici a cui ti senti particolarmente ancorata?
LB: Ti direi: tutto.
H2O è un elemento, mentre il mare, il mio, è l’orizzonte, il mio. È il segnale che mi dice dove mi trovo, e che quell’ovest piatto è lo stesso che ho sempre visto da casa mia.
Lo stagno invece è quel brodo fantasmagorico in cui riconosco le cose.
La foschia, la nebbia, la nuvola, è psicanalisi dell’aria (G. Bachelard, La psicanalisi dell’aria, ndr), e di me.
Riconosco e mi riconosco in tutti i sistemi d’acqua che incontro, mi ci ancoro come se li conoscessi da sempre e come se dovessi tenerli per sempre. Vi resto incagliata.
CA: Che ruolo ha per te il sale?
LB: Il sale è conservazione e rinnovamento: in esso si nascondono tutte le narrazioni del mondo. Proprio per questo mi interessa come elemento estetico, in tutte le sue manifestazioni: il sale riconduce ad un immaginario arcaico, in cui l’uomo è solo, davanti al rumore bianco dell’elemento muto e sordo, pietra angolare della sensibilità geologica umana, oggi sotto anestesia.
A dicembre 2019 furono ritrovate circa seimila anfore – ancora intatte – nei fondali al largo di Cefalonia. Le anfore avevano la forma dell’imbarcazione che le trasportava, eppure della barca non è rimasta traccia. Allo stesso modo nelle immagini di Lidia Bianchi io rivedo il Mediterraneo, la sua essenza, tutto quello che serve dirne – per evocarlo.
In antitesi, il lavoro di Elisa Moro, che di acqua e dall’acqua è continuamente permeato, attraverso la sua presenza e la sua forma parla di relazioni, connessioni, legami.
“There is no ‘I’ that exists outside of the diffraction
pattern, observing it, telling its story. In an important
sense, this story in its ongoing (re)patterning is (re)
(con)figuring me. ‘I’ am neither outside nor inside; ‘I’ am
of the diffraction pattern. Or rather, this ‘I’ that is
not ‘me’ alone and never was, that is always already
multiply dispersed and diffracted throughout
spacetime (mattering) including in this paper, in its
ongoing being-becoming is of the diffraction pattern.”
Karen Barad
Nel lavoro di Elisa Moro ricorrono spesso riverberi acquatici, l’acqua c’è frequentemente senza essere mai soggetto: qui diventa strumento dinamico che l’aiuta nell’indagine, sia attraverso l’imitazione del comportamento e delle proprietà all’interno del suo processo artistico, sia come metafora visiva. Tutto quello che fa è metaforicamente acquatico. La sua è una pratica circolare, che richiama un po’ il ciclo delle piogge: non va alla ricerca di luoghi specifici, ma segue un processo di continua rigenerazione di idee. Quello che esperisce lo processa emotivamente e diventa qualcosa che vuole poi esprimere in forma nuova e non verbale, attraverso una ricerca nel mondo degli elementi. Nel momento in cui crea un’immagine, il processo ricomincia perché l’esperienza della creazione instilla in lei nuove domande e di conseguenza nuove metafore da ricercare. L’acqua è anche mezzo di propagazione e connessione. Mi scrive: «Uno dei comportamenti che più mi affascina è quello delle onde di interferenza e dei pattern di diffrazione. Per capirci è quell’effetto che si crea quando lanciamo un sasso in un lago. Quando ne tiriamo due, si creano ovviamente due onde e quello che nasce è un effetto relazionale tra le due, per il quale l’una modifica l’altra o, a seconda della direzione si annullano reciprocamente o viceversa ne creano una più grande. Ciò che insegna il comportamento vibratorio dell’acqua è questa idea di essere immersi in continua connessione reciproca e di modificarsi reciprocamente ad ogni interazione. L’acqua ci mostra come si muove un corpo che vive “l’inganno” di essere corpo unico, che in realtà è una rete in continua riformulazione».
Nata a Palmanova (Udine) nel 1994, dopo la Laurea in Psicologia, ha frequentato il Master in Immagine Contemporanea della Fondazione Modena Arti Visive. Nella sua pratica artistica, che combina fotografia, disegni, materiali d’archivio, elementi di fisica e di ecologia, il processo creativo diventa strumento di guarigione terapeutica e di esplorazione emotiva della realtà e del suo significato. Seguendo una prospettiva postumanista, indaga concetti che vanno dalle costellazioni familiari, patrimonio di memorie e sofferenze psicologiche, agli intrecci impercettibili che risuonano tra corpi umani e non umani.
Chiara Arturo: Che rapporto hai con l’acqua?
Elisa Moro: Anche se crescendo ho integrato tutti gli elementi dentro di me, ho pensato fin da piccola che l’acqua fosse il mio elemento costitutivo, forse per la frequentazione continua tra il mio corpo con il suo. La prima volta che ho “nuotato” avevo quasi un anno, e mio padre mi ha portata al lago. Non ho ricordi lucidi dell’evento, ma ricordo molto bene la foto scattata da mia madre in cui stavo felicemente aggrappata al suo braccio al centro di questo laghetto. Lui è sempre stato sicuramente un essere acquatico e mi ha trasmesso la sua sintonia con l’elemento. Da bambina il mio sogno era quello di essere una tartaruga marina e vivere in quell’ambiente ovattato dove i movimenti sono lenti, sospesi e pensati e i suoni arrivano con lentezza e dolcezza e inspiegabilmente vivi la sensazione in cui tu stessa sei fatta di acqua e tutto sembra collegato con tutto. Sott’acqua il mondo ha sempre avuto la velocità e l’intensità e il legame che avrei voluto ritrovare fuori. Da ragazzina facevo nuoto agonistico, il problema è che per me non c’era sintonia tra il fatto che io con l’acqua volessi una relazione di accudimento e non di battaglia. Infatti ero davvero scarsa e lasciai l’agonismo per ritrovare l’acqua a mio modo: in una relazione di lenta scoperta.
CA: Ci sono luoghi acquatici a cui ti senti particolarmente ancorata?
EM: In realtà la mia relazione con l’acqua è totalmente diffusa. Non ci sono luoghi a cui sono ancorata, proprio perché l’acqua è forse la metafora più vicina alla filosofia che sto maturando dentro di me da qualche tempo: quella dell’idea ciclica e relazionale dell’esistenza. L’acqua porta con sé la metafora concreta del paradosso e la meraviglia di essere degli esseri (umani e non umani) in circolo e ricircolo continuo, in uno scambio perpetuo di trasformazioni mutaformi, ed è uno degli elementi che nel suo flusso dinamico, tiene in invisibile comunicazione continua ogni cosa.
CA: L’acqua è uno strumento.
EM: Di formazione sono una psicologa ma avrei sempre voluto essere una scienziata, di quelle che conoscono la natura in ogni suo minimo dettaglio chimico e fisico. Ho sempre pensato che lì, nella struttura e relazione delle cose non umane, si annidassero i moti propulsori delle domande più grandi. Poi la vita mi ha portata per temperamento, attitudine e – diciamolo – sovrastrutture sociali rispetto a donne e scienze “dure” – a seguire un altro flusso e ironicamente sono finita a occuparmi del solo “umano”. Con il tempo però ho capito che questo binarismo fosse insensato e me ne sono riappropriata in modo autonomo e forse con meno pressione di quella che avrei avuto se lo avessi fatto di professione. Il mio sguardo segue una prospettiva postumanista che implica la dissoluzione dei confini predefiniti tra entità, che siano esse fisiche (pensando all’entanglement quantistico o all’ecologia) o sociali (pensiamo alla psicologia sociale o ai queer studies). Tutti i miei lavori – che chiamo più ricerche – e in particolare l’ultimo in corso Existence is not an individual affair, sono collegati dallo stesso filo invisibile della progressiva messa in discussione dell’idea di identità come qualcosa di meramente personale, cristallizzata, confinata e visibilmente definibile/ita. Indagando concetti come le costellazioni familiari, l’eredità della memoria e delle sofferenze psicologiche, fino agli intrecci impercettibili che risuonano tra corpi umani e non umani, la mia ricerca tenta di ridefinire la questione di cosa significhi “essere” passando da un “chi” a un “perché” e “come”. E l’acqua per questo è uno strumento dinamico che mi aiuta nell’indagine sia attraverso l’imitazione del suo comportamento e delle sue proprietà all’interno del mio processo creativo, sia come metafora visiva.
CA: Mi racconti meglio questo legame tra la tua ricerca, la fisica, l’ecologia e il piano relazionale-psicologico?
EM: In psicologia come nel senso comune – soprattutto occidentale – c’è un’idea molto forte del concetto di identità (individuale, di gruppo, nazione). Progressivamente, più andavo avanti con i miei studi e le mie ricerche parallele e più questo concetto iniziava a vacillare sul piano prettamente ontologico. Aveva senso parlare di un “Io”? In un saggio molto provocatorio intitolato L’inganno dell’Io, Tom Oliver (ecologo) fa una disamina di come a livello evoluzionistico l’idea di percepirsi come un’unità integra e mono-prospettica sia stato in qualche modo un vantaggio ma anche un tranello. Pian piano ci ha resi inconsapevoli del dinamismo di ciò che ci compone (pensiamo alle cellule che si rigenerano nel nostro corpo in continuazione) nonché dei legami e delle interconnessioni invisibili che intercorrono tra elementi apparentemente distanti nello spazio e nel tempo. Una delle prove più schiaccianti di ciò è emerso con la fisica quantistica, in particolare con il fenomeno dell’entanglement (da cui prende nome uno dei miei primi lavori Disentangle) per il quale una particella, associata ad un’altra, “risponde” senza essere toccata direttamente quando l’altra viene perturbata. Questo ha ribaltato completamente la prospettiva di come le cose siano interconnesse tra loro, sia a livello subatomico che ecologico. Quindi dopo aver passato gran parte dei miei studi a occuparmi di mentale e culturale – concepiti come impalpabili e immateriali – ho sentito il bisogno di un ritorno alla materia nel riformulare e pensare l’esistenza. Il legame tra psicologico-fisico-ecologico può essere riassunto citando Karen Barad (fisica e filosofa della corrente del Nuovo Materialismo): «We are matter vibrating in the vacuum» . E quale elemento a metaforizzarlo se non l’acqua.
“For in truth, where there is human life there
is never anything but happening. Thus life is
not; it goes on.
Indeed, there is a certain absurdity in our
customary way of referring to ourselves as
human beings. For how can one go on being?
It is like asking us to move along and stand in
one place at the same time. Perhaps, then, we
should substitute the word ‘becoming’ for
‘being’. As instantiations of life-in-the-
making, should we not rather call ourselves
human becomings?”
Tim Ingold, The life of lines
“Altre acque – itinerari non terrestri” è un’indagine – spinta dalla corrente – tra le acque dolci salate e salmastre delle arti visive che continuerà, nei prossimi mesi, a cadenza irregolare.