Leggendo l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, Annientare (2022), non uno dei suoi migliori romanzi, almeno a parer mio ma poco importa, si coglie l’urgenza di parlare di qualcosa che obiettivamente pare tutt’altro che banale. Quella che io definirei “la fine della vecchiaia”: la malattia, la morte, la segregazione degli anziani nel tempo presente nel nostro mondo progredito.
Houellebecq indaga e racconta le peripezie di chi perde il controllo sul proprio corpo e sulla propria mente, il padre del protagonista del libro, e più in generale la medicalizzazione segregante. Più volte, nel corso del romanzo, secondo il suo stile diretto e certo non indulgente ci pone di fronte alla condizione dell’anziano nella nostra società. Mai è stato così destituito di ogni valore diventare vecchi. In nessuna società prima della nostra agli anziani è stata destinata la condizione che oggi invece li vede radicalmente marginalizzati, privi di ogni rispetto e autentica cura, separati da ogni contesto vitale, specie nelle ultime fasi della vita. La condizione degli anziani soli, e tutti prima o poi si resta solialmeno nel nostro mondo, tranne i fortunati che riescono a morire contemporaneamente al coniuge, sempre che ne abbiano uno e sempre che quella sia poi una condizione invidiabile, appare drammatica.
La solitudine aumenta e a tarda età diventa un fardello insopportabile. Poter morire a casa, nella casa dove si è vissuto, è un privilegio di pochissimi (i ricchi, che possono pagarsi una infermiera a domicilio, sempre parlando di vecchi in gravi condizioni, oppure, finché si è in condizioni, una badante). La maggior parte finisce abbandonata nelle residenze per anziani, spesso dei veri e propri lager dove i vecchi giacciono in uno stato di desolazione e di abbandono. La peripezia, narrata da Houellebecq, di prelevare illegalmente il padre dalla residenza dove la burocrazia lo ha condotto e dei movimenti tradizionalisti che eseguono l’operazione ci pone di fronte a un problema reale, troppo taciuto se non da qualche voce controcorrente.
La teoria svedese dell’amore, regia di Erik Gandini (2015) — Trailer ufficiale
Produzione Erik Gandini, Juan Pablo Libossa, Fasad AB, Distribuzione Lab 80 film
Penso a due film fondamentali, che personalmente farei proiettare una volta alla settimana sulle reti nazionali e a scuola. Per quanto mi riguarda cerco di mostrarli almeno nei miei corsi.
Uno è La teoria svedese dell’amore di Erik Gandini (2015). Si tratta di un documentario che ci parla della vita in Svezia, il paese che dovrebbe incarnare una delle democrazie più avanzate per molti e soprattutto uno dei paesi con i servizi sociali più efficienti e diffusi. Il documentario esordisce mostrandoci come negli anni 80 in questo paese i governi socialdemocratici abbiano promosso una campagna di promozione dell’ideologia dell’indipendenza e dell’autonomia garantita appunto dai servizi. Ognuno, secondo tale ideologia, deve poter scegliere come vivere e deve potergli essere garantito il supporto dello Stato a questo fine. Risultato? La Svezia è il paese dove statisticamente c’è il maggior numero di donne che scelgono l’inseminazione artificiale per avere un figlio (un’operazione che si esegue in casa da sole, con l’iniettamentodello sperma prescelto magari agevolandolo con una masturbazione che favorisce l’inseminazione). In generale la solitudine è la condizione prevalente, garantita da servizi efficientissimi, il suicidio ha tassi altissimi, la morte in casa di molti anziani soli che, pur di non dover dipendere da nessuno, si sono per tempo organizzati in modo da avere tutto senza dover ricorrere a figli, parenti, amici.
Gli anziani muoiono in casa semplicemente perché non c’è nessuno che se ne accorga e vengono ritrovati solo dopo settimane o addirittura mesi tanto che in Svezia hanno un servizio apposito che si occupa poi di smantellarne le abitazioni e di distruggere le suppellettili che nessuno reclama. I rapporti umani sono così sfilacciati che anche i residui parenti si accorgono della mancanza dopo molto tempo perché il ritmo dei contatti è bassissimo.
La Svezia è un paese efficientissimo ma la condizione umana che ne emerge è a dir poco raccapricciante. Gandini mostra un grafico nel quale sono rappresentati sulla mappa del mondo i paesi più brillanti sotto questo profilo, garantire l’indipendenza e l’autonomia del cittadino (e dunque la sua solitudine): la Svezia ovviamente sta in cima e subito dietro ci sono i paesi scandinavi. Più sotto quelli occidentali (va detto che l’Italia, forse a causa del suo meridione “arretrato”, è tra le ultime in Europa). In fondo alla graduatoria poi ci sono i paesi africani. All’ultimo posto paesi come l’Etiopia o il Niger.
Il documentario di Gandini ci mostra alla fine un medico svedese che si è trasferito in Etiopia, dove lavora in condizioni di grave indigenza, anche se appare molto inventivo nel trasformare strumenti di uso quotidiano in ottimi strumenti per la medicina e che appare molto felice a stretto contatto con una popolazione che vive perlopiù in capanne e che si muove su strade di fango ma che mostra sentimenti di vicinanza ormai sconosciuti nel suo paese di origine: «Qui nessuno è mai solo: se stai male la gente non sta lontano, ma viene a trovarti, se stai morendo viene a tenerti compagnia e, dopo che sei morto, ti piangono», commenta.
La teoria svedese dell’amore, regia di Erik Gandini (2015) — Clip Zygmunt Bauman
Alla fine del documentario Gandini propone poi un’intervista con il filosofo Bauman, recentemente scomparso. Il suo commento, prevedibile, resta un monito importante: “La felicità non viene da una vita senza problemi, ma dal superamento delle difficoltà. L’indipendenza non è la felicità; alla fine porta ad una completa, assoluta, inimmaginabile noia”. Temo che, purtroppo, il termine giusto non sia noia ma disperazione.
Infine non posso fare a meno di citare l’altro film, questa volta di fiction, di Ulrich Seidl, Import Export (2007).
Il film narra le vicissitudini di una giovane donna ucraina, Olga, che parte per l’Austria in cerca di lavoro. Inversamente segue anche le vicende di Paul, un austriaco che invece dall’Austria va in Ucraina ad installare videogame. Import Export appunto. Senza entrare nel merito ora della radicalità di questo film che solo qualche critico totalmente assuefatto ad un mondo dove il massimo di durezza cinematografica è quella del Sundance Festival può giudicare troppo estremo, è sull’ultima parte che suggerisco di concentrarsi.
Olga finirà a lavorare in un istituto geriatrico austriaco (certo il regista ha in mente alcuni scandali che colpirono appunto dei reparti di geriatria austriaci in quel periodo). Le scene che si susseguono in merito (oltre alla descrizione delle tristissime condizioni di lavoro di Olga) dovrebbero essere parte del nostro patrimonio di consapevolezza quotidiana. Potrebbe capitare ad ognuno di noi e dei nostri cari (sempre che ne abbiamo ancora).
Pregasi ascoltare il concerto di rantoli dell’ultima sequenza, in una sala dormitorio dell’istituto, mentre la luce si affievolisce.