Tumulto moralista contro Vogue America

Dall’inizio dell’invasione russa ai danni dello stato indipendente dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022, abbiamo assistito a diverse comparsate del presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj in molte situazioni “inusuali” per quella che fino ad ora abbiamo sempre considerato dovesse essere la comunicazione verso l’esterno di un popolo di fatto sottoposto a un’aggressione bellica. In principio la presenza di Zelenskyj in quelle che sembravano essere sedi tutto sommato abbastanza istituzionali non aveva particolarmente colpito “l’opinione pubblica”, i commenti erano perlopiù di solidarietà incondizionata. Nel giro di poco tempo però, l’inconfondibile volto del presidente con indosso la ormai mitica maglietta verde militare ha cominciato a “invadere” a sua volta sempre più spazi per lanciare appelli su ogni fronte possibile, ai fini di ottenere appoggio militare e non solo. Tuttavia da alcuni giorni la situazione di solidarietà più o meno “sentita” pare essersi completamente ribaltata a favore di una feroce critica nei confronti di tale operato, in particolare da quando il noto magazine di moda americano Vogue ha pubblicato un’intervista a Olena Zelenska, “first lady” dell’Ucraina con tanto di servizio fotografico a firma di Annie Liebovitz.

Abbiamo chiesto a Edward Rozzo, Academic Fellow all’Università Bocconi, che tiene anche corsi e workshop presso SDA Bocconi, Università Cattolica, PoliDesign e Milano Fashion Institute, di commentare la vicenda dal suo punto di vista.

 

La prima cosa che mi viene da dire è che questo tumulto, a volte emotivo, altre moralista, altre ancora etico, ha più a che fare con la società nel suo insieme piuttosto che con l’articolo e le foto pubblicati su Vogue. È come se questo articolo abbia fatto da catalizzatore socio-culturale innescando una sorta di esplosione di sentimenti, pensieri, ideologie e emozioni legati alla transizione in atto nel mondo, transizione epocale e non sempre del tutto compresa. 

Per chi non l’avesse ancora letta sto parlando dell’intervista rilasciata da Olena Zelenska, moglie dell’attuale Presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelenskyj, accompagnata dal servizio fotografico di Annie Liebovitz, commissionata da Vogue America.

Immediati i commenti, a volte pregni di rabbia e condanna, come ad esempio quello di Ian Bremmer (politologo americano citato su La Repubblica on-line) che esclama «Pessima idea», o come i titoli apparsi su Corriere.it: «Le polemiche: “C’è gente che soffre”. L’accusa: aver reso “glamour” e “affascinante” la guerra». Qua e là emergono però anche alcune voci favorevoli, come quella di Antonio Mancinelli su Amica «La relazione assai ravvicinata tra politica e moda, tra magazine da signore e mogli di Presidenti è molto lunga e stabile: non si capisce perché leggo, da molte fonti più o meno autorevoli, pareri scandalizzati sulla cover con la moglie di Zelenskyj, fotografata da Annie Liebovitz per l’edizione americana di Vogue in collaborazione con Vogue Ucraina». E ancora su Il Dubbio «Quell’indignazione da salotto per le foto di Zelenskyj su Vogue: “Osceno”, “disgustoso”, “abominevole”, “vergognoso”: gli aggettivi scorrono a ruota libera per bacchettare la scelta del presidente ucraino, reo di mancare di rispetto al suo popolo martellato dalle bombe…», scrive Daniele Zaccaria . 

Olena Zelenska, © Annie Liebovitz, 2022, per Vogue America
UNA DISSONANZA COGNITIVA: LA MODA PUÒ PERMETTERSI DI PARLARE DI ATTUALITÀ?

Ma la cosa veramente interessante, al di là di tutto, non è né l’articolo (informativo e un po’ ovvio nel raccontare una tragedia umana quanto politica che rivela, comunque, la fragilità della vita di Olena e della sua famiglia insieme alla paura costante di una guerra inaspettata) né le foto “belle” di Liebovitz. Interessante è il nervo scoperto del pubblico, come se fosse “fuori luogo” mischiare cultura, moda e attualità. 

Prima di tutto mettiamo in chiaro che Vogue America non è solo un magazine di moda, bensì un giornale di cultura. Infatti, raramente si trovano su una testata di moda titoli come: Phoebe Gates on the Global Stakes of the End of Roe vs. Wade, oppure: Will Rishi Sunak or Liz Truss Be Britain’s Next Prime Minister? O ancora: Actually, Maybe It’s Time for Democrats to Go Low. Solo per citare alcuni di quelli più recenti che si possono leggere sul sito vogue.com.

Nell’intervista in questione, la stessa giornalista Rachel Donadio, riflette: «È strano parlare di sterminio ucraino e di moda ucraina nella stessa conversazione, eppure questa è la dissonanza cognitiva dell’Ucraina di oggi, dove stilisti e professionisti di ogni tipo si stanno mobilitando in patria e all’estero per sostenere il proprio Paese. Questa dissonanza risulta evidente soprattutto a Kiev, dove si può sorseggiare un matcha in un caffè e poi guidare per un’ora fino a Bucha per visitare una fossa comune. È una situazione difficile da capire».

Infine, la storica dell’arte Desirée Maida così scrive su Artribune: «Nonostante le critiche, di natura più politica che artistica, gli scatti di Annie Leibovitz sono un magistrale connubio tra fotografia di guerra e fotografia di moda, per una estetica asciutta e allo stesso tempo poetica […] Provocazione? Un tentativo per rendere “esperibile” anche gli orrori della guerra?»

RAPPRESENTARE UN’EROE CONTEMPORANEO È GLAMOUR?

Come ha osservato Michele Smargiassi, ospite tra gli altri della trasmissione radiofonica Tutta la Città ne Parla di Rai Radio 3 del 29 luglio scorso, relativa proprio alle polemiche sorte sull’intervista e le foto alla Zalenska, la rappresentazione degli eroi fa parte della storia dell’arte. Anzi, personalmente direi che il bisogno e il ruolo degli eroi nella società è storicamente consolidato e studiato da secoli. Cosa sarebbe stato il pensiero greco senza gli eroi dell’Iliade o dell’Odissea? Cosa sarebbe stata la rivoluzione francese, quella cinese o qualsiasi altra guerra, senza i suoi eroi? Ovviamente, alla psiche umana servono gli eroi, per consolidare i valori di una società e dare a quei valori una rappresentazione. La glorificazione delle personalità, l’attribuzione agli eroi di forza, bellezza e poteri al di sopra della norma, la vediamo in tutta la storia dell’arte, dalle figure dell’antica Grecia a tutta la rappresentazione cristiana fino al realismo sovietico, cinese o americano. 

La glorificazione contemporanea con l’attribuzione agli eroi di forza, bellezza e poteri al di sopra della norma, si mischia oggi con un sistema di comunicazione che privilegia valori più superficiali e virtuali come quelli dello star-system dove i nostri eroi non sono più i generali della guerra, gli ideologi dell’Ottocento o i martiri religiosi, bensì i Tom Hanks, Denzel Washington o George Clooney di turno. Certo, il lettore, dirà: “ma io non sono così, ho dei valori più profondi da difendere” ed è qui che inizia a manifestarsi la crepa che divide molte opinioni.

In molti credono e sostengono ancora eroi religiosi e sociali di altre generazioni. Karl Marx, Antonio Gramsci, Gesù Cristo o Adam Smith che dir si voglia. Ci saranno sicuramente molti che forse si scandalizzeranno per questa mia insinuazione che confonde il valore metaforico di certi personaggi con il loro valore intellettuale, etico e morale. Dico subito che tutti i grandi pensatori del passato rimangono di grande attualità. Il loro pensiero fa parte del nostro vivere. Ricordiamoci però che la nostra morale non appartiene a una sola ideologia o religione, ma a diversi avvenimenti che ci vengono raccontati da più punti di vista per dare struttura etica alle nostre vite. Le nostre opinioni sono composte da parametri e da tante storie e fonti appresi nel corso della nostra vita. Quindi, quando ci capita di vedere un personaggio ritratto su una rivista a volte possiamo trovare incongruo quello che pensiamo di quella rivista in relazione a quel personaggio. Vale a dire che viviamo una dissonanza cognitiva.

Ho sempre trovato curioso come il fondamentalismo politico, di qualsiasi tendenza, assomigliasse al fondamentalismo religioso di qualsiasi confessione. Quello che accomuna tutti i fondamentalismi è il fervore di essere in possesso di una serie di verità non discutibili, essi sono assoluti nella loro visione completa della vita e, soprattutto, ritengono questa loro visione imprescindibile per ogni individuo. 

La critica alle immagini della Liebovitz, secondo la quale l’autrice rende glamour la realtà di una guerra feroce e disumana è quindi una diatriba antica e inevitabile. È l’incongruenza del mondo contemporaneo che ci disturba. 

IL FLUSSO DEL CAOS

Se c’è una cosa che ci insegna la vita, questa è che la storia e la maturità individuale sono il prodotto di una realtà composta da un flusso continuo di contraddizioni dentro il quale bisogna muoversi e, a volte, prendere posizione, nonostante accada che ogni presa di posizione possa trasformarsi a sua volta nel flusso degli eventi. Quindi non c’è da stupirsi se molte persone preferiscono la nostalgia al caos quotidiano, almeno lì le cose sembrano più chiare! E soprattutto non richiedono lo sforzo continuo di capire cosa sta succedendo mediante parole ed eventi nuovi. Meglio rimanere scioccati da un servizio fotografico che sembra disonorare la sofferenza altrui che acquiescere ad una morale melmosa che appiattisce i valori e la vita. Ammetto che l’idea sia onorevole, ma la realtà non è così semplice e non lo è nemmeno la presa di posizione etica dell’individuo. 

Immagine tratta da East 100th Street (1970), © Bruce Davidson
1970: UN ALTRO CASO DI DISSONANZA COGNITIVA NEL MONDO DELL’ARTE

Spesso ci si arrocca su un sistema di valori (per certi versi mi vien da dire “meno male”), ma altrettanto spesso si associa quel sistema a determinate condizioni che, ahimè, sono in continua evoluzione. E così la questione della moda, della fotografia, dell’arte e dell’immagine in generale è sempre in uno stato di flusso continuo. Cambiano i gusti, le tendenze, le ideologie ma le persone, invece, fanno molta fatica a cambiare la loro opinione. Spesso ci si appoggia a un sistema etico e morale che cerca di dare un senso positivo alla nostra vita. In realtà, però, quel sistema non è bi-dimensionale, si presenta piuttosto come una serie di questioni molto complesse che richiedono una continua e aperta riflessione da parte nostra. 

Nel 1970 Bruce Davidson, al termine di un progetto che lo portò a fotografare un’unica strada nello Spanish Harlem a New York, pubblicò un libro dal titolo East 100th Street. Proprio per non offenderne gli abitanti, Davidson visse quotidianamente, o quasi, nel quartiere, arrivando a conoscerli tutti, regalando loro ogni foto scattata. Inoltre, per non “rubare” momenti troppo privati, svolse tutto il lavoro con un banco ottico 20×25 e con un flash da studio. Il risultato fu una serie veramente straordinaria di ritratti dove il mezzo fotografico rese visivamente impattante ogni soggetto, immerso nel proprio disagio sociale e nella propria, estrema, povertà. 

Anche in quel caso, si levarono voci moraliste: «come si può rendere la povertà bella!», «Quale offesa maggiore usare la gente comune per scattare delle immagini bellissime?» A.D. Coleman, l’allora critico fotografico di The New York Times scrisse: «Devo chiarire perché credo che East 100th Street non può essere trattato, data la sua natura, come se le sue qualità estetiche fossero slegate dal suo significato “politico”, perché le due cose sono completamente interconnesse – non divisibili […] In altre parole, Davidson ha trasmutato una verità che non è per niente bella in un’arte che lo è. Se la realtà sulla quale si basa la bellezza di questo lavoro fosse trasmutata allo stesso modo, non avrei nulla da ridire, ma non è così perché per quelli che vivono ancora sulla East 100th Street, l’immondizia che offre a Davidson composizioni di una forza notevole continuerà a puzzare e a decomporsi e forse, addirittura, vivrà più a lungo delle stampe eccezionali di Davidson […] Tuttavia, se la fotografia deve contribuire a cambiare (e non solo a documentare) orrori come le condizioni di vita sulla East 100th Street, i fotografi dovranno abbandonare la loro preoccupazione per l’Arte e la Bellezza e iniziare a realizzare immagini scioccanti, brutte e addirittura ripugnanti – immagini talmente disgustose che nessuno sarà più capace di mangiare o dormire o andare ai musei finché saremo sicuri che tali orrori non esisteranno più».

Immagine tratta da East 100th Street (1970), © Bruce Davidson

Devo ammettere che non fui d’accordo quando lessi quell’articolo nel 1970 e non lo sono nemmeno oggi. Forse che, con tutte le fotografie crudeli di guerra che sono state pubblicate, è diminuito il numero delle vittime? Forse che, nonostante tutte le installazioni artistiche che riproducono situazione disgustose per elevare la nostra coscienza, abbiamo fatto di conseguenza scelte politiche più valide? Questa è, a mio parere, la logica che sta nella protesta scatenata dal lavoro di Annie Liebovitz su Vogue America. Non bisogna rendere belle delle persone durante una guerra dove la gente muore. Davvero? Durante una guerra la gente non deve più né sognare la propria libertà né dare un senso estetico alla propria vita? Allora, durante una guerra riviste come Vogue dovrebbero smettere di pubblicare articoli? 

È evidente, qui, la contraddizione tra il pensiero etico e morale e la complessità emotiva dell’identità personale. Trovo che il ruolo psicologico e sociale della moda viene spesso interpretato, nella nostra società, come elemento frivolo e prettamente consumistico. Certo, il fast fashion crea un consumismo smisurato, ma la moda, di per sé, è una componente vitale e fondamentale del senso del sé. Nascondendosi dietro l’illusione di non usufruire della moda, intesa come soggetto di siti e riviste, la maggioranza delle persone manifesta in realtà un’idea molto chiara su qual è la propria moda. La scelta di un certo tipo di occhiali da vista, di una certa pettinatura, di un certo modo di fumare una sigaretta o di appoggiarsi allo stipite di una porta mentre si sta parlando, è di fatto una scelta di moda: è life-style, anche per chi lo nega. Le riviste e i siti di moda offrono modi nuovi per interpretarsi, aiutando ognuno a trovare un senso del sé congruo al suo momento di crescita. Se eliminassimo la libertà espressiva individuale che offre la moda sarebbe come condannare ognuno di noi a vivere una vita monotona e frustrante. 

Gli individui non devono essere perennemente tristi per mostrare che capiscono gli orrori della guerra, non devono essere costantemente depressi per lo stato del mondo, del clima, e della politica per comprenderne l’importanza. Gli artisti, i fotografi, i film-maker non devono parlare solo di catastrofi per mostrare la loro aderenza e sensibilità ai valori etici e morali. Se così fosse diventeremmo tutti fondamentalisti, perennemente tristi, per sempre. Ben venga invece la bellezza, ben venga la complessità etico-morale di ognuno, ben vengano quei momenti leggeri anche durante momenti storici difficili. 

Immagine tratta da East 100th Street (1970), © Bruce Davidson

Molte donne ucraine sono orgogliose di ciò che ha fatto Olena Zelenska, di come si è comportata davanti all’obbiettivo della Liebovitz. Quelle stesse donne sanno molte, ma molte più cose sulle sofferenze di guerra di quasi tutti gli autori dei commenti indignati che si trovano sui social dove si parla di un’intervista tutto sommato onesta, pubblicata con delle foto che mostrano una donna bella e una coppia con un forte legame, immersa in una guerra insensata ma nella quale comunque vivono l’intensità del momento con coraggio e onestà. 

In un recente articolo apparso su Huffington Post, si trova il commento di Oleksandra Povoroznyk, giornalista e traduttrice di Kiev: «La maggioranza delle persone che parlano inglese su Internet hanno la fortuna di non avere nemmeno la minima idea di cosa sia veramente una guerra. La maggioranza delle persone con cui ho parlato ritengono che le fotografie e l’intervista rilasciate da Olena Zelenska su Vogue fanno parte di un suo sforzo importante per attirare l’attenzione sulla nostra situazione. In realtà molte donne ucraine sono contente che Olena Zelenska non sia stata ritratta come una delicata e timida donna che si nasconde dietro suo marito».

Per concludere, ritengo che se più pubblicazioni andassero oltre gli stereotipi di guerra – le vittime, la distruzione, gli orrori, gli stupri – forse avremmo le idee più chiare su come capire la mente umana e le tragiche conseguenze della tragedia in atto.