Con Massimiliano Gatti ci conosciamo ormai da parecchi anni. Ricordo il nostro primo incontro nel mio studio, a Milano. Rimasi colpita dal suo lavoro In superficie, che aveva realizzato come fotografo al seguito del progetto PARTeN dell’Università di Udine, una missione archeologica. Si tratta di un progetto dedicato allo studio del paesaggio archeologico della terra di Ninive, una regione ubicata nell’entroterra dell’antica città che nel I millennio a.C. è diventata la capitale dell’impero neo-assiro. Attualmente quella città si trova nel nord dell’Iraq, terra di guerre.
Angela Madesani – Il tuo era un lavoro sulle tracce lasciate da millenni di civiltà: resti dell’epoca assira, ellenistica, persiana e ottomana. Ma tra gli oggetti che emergono in superficie ci sono anche reperti bellici. Sono foto molto belle, in cui la dimensione estetica pare, talvolta, nascondere la tragedia che sta dietro ad alcuni di questi oggetti. Possiamo considerare, Massimiliano, la tua una ricerca di matrice geopolitica?
Massimiliano Gatti – Dopo gli studi alla Bauer di Milano, ho iniziato la mia pratica artistica in Siria e sono entrato subito a contatto con la realtà del Medio Oriente, con le sue vicende e la sua storia antichissima. Il mio approccio è sempre stato quello di indagare le diverse sfaccettature di quella realtà e di avvicinarmi alle questioni politiche e sociali, imbastendo una ricerca di matrice geopolitica. La mia fotografia parte dall’osservazione di un territorio, non tanto attraverso una mera rappresentazione dei luoghi, ma soprattutto attraverso un’analisi attenta di aspetti sociali e storici. Nella mia ricerca artistica, faccio spesso uso della metafora o del simbolo come elemento comunicativo e cerco una semplicità visiva e formale che non è uno sguardo superficiale sulle cose, ma il risultato di una sintesi e di ragionamenti approfonditi, lascio che i miei progetti possano essere “scavati” nella loro stratificazione di significato. Questo è il caso di In superficie, un progetto che ho realizzato in Iraq durante un’indagine archeologica di superficie volta a individuare e a censire tutti i siti archeologici nell’area settentrionale del paese. Ho fatto una sorta di classificazione tassonomica di tutto quello che è stato trovato, scattando direttamente sul sito di ritrovamento. Di fatto, ho registrato quello che ha fatto la terra: porre sullo stesso piano, la superfice, una serie di reperti di provenienza molto eterogenea e di origini storiche molto lontane fra loro. Ci sono vasetti alessandrini e ralle antiche, avvicinate a reperti bellici dalla I guerra mondiale alle più recenti guerre che hanno insanguinato l’Iraq. Questa associazione che, visivamente, confonde gli oggetti tutti corrosi dalla sabbia dei deserti iracheni mette in chiaro le contraddizioni storiche e sociali che hanno originato le tensioni nell’area medio orientale e, nello stesso tempo, evidenzia la profondità storica di un’area in cui sono immerse le nostre radici culturali e religiose.
AM – Mi pare che In Superficie faccia da contraltare a un lavoro come Anche tu sei in collina, realizzato di recente in cui hai fissato la parte dei pali delle viti che si trovano conficcate nel terreno. Hai quindi stampato le immagini su carta che hai tenuto sepolta per un certo periodo sottoterra. Sono due facce della stessa medaglia?
MG – Io credo che il lavoro di un’artista sia in gran parte inconscio e radichi la propria origine in qualcosa che è insito e nascosto nell’animo. Per cui, senza mai pensarci concretamente, vedo che esiste una linea immaginaria che collega tutti i miei lavori. Nel corso della mia vita ho viaggiato tanto e quando, invece, sono rimasto forzatamente fermo durante il periodo della pandemia, ho iniziato a questionarmi sull’appartenenza alla mia terra e da questa riflessione è nato il lavoro Anche tu sei collina. Questo è un progetto intimo, ho rivolto lo sguardo dentro di me e non fuori da me, ma, di fatto, è una riflessione universale che, in qualche modo, riguarda tutti. Sono partito da un testo di Cesare Pavese che dice “Anche tu sei collina / e sentiero di sassi / e gioco nei canneti / e conosci la vigna / che di notte tace”, dei versi che hanno risvegliato in me i ricordi d’infanzia e qualcosa che porto dentro perché fa parte del mio trascorso, della mia persona. Per cui ho preso dei vecchi pali di castagno che servivano per sorreggere i filari delle viti e ho fotografato la punta che era immersa nella terra, come metafora di una specie di radice, di una provenienza, di un contatto con la terra che ne ha modificato i tratti. Le stesse stampe, realizzate in camera oscura con carta cotone, sono state sotterrate perché quella terra potesse, in modi diversi, modificare e lasciare la sua impronta sulla superficie fotografica.
Tutta la costruzione logica di questo lavoro riflette sulle mie origini, la mia radice che, ora ne sono certo, è ben piantata nelle mie terre, nei miei vigneti e nelle mie colline, per quanto rivolga lo sguardo verso il mondo, il mio punto di partenza è qui.
AM – È sempre sulla memoria il tuo lavoro Le Nuvole in cui il rimando è alla classicità, alla letteratura greca, ma anche all’architettura. In tutto questo non mancano i riferimenti all’oggi.
MG – Per anni ho lavorato nelle aree intorno a Palmira. A partire dal 2015, la città, nel cuore del deserto siriano, è stata bersaglio delle azioni iconoclaste dell’ISIS, che hanno portato alle distruzioni di grandi aree del sito archeologico, con l’obiettivo di cancellare le tracce di un passato importante e condiviso. Palmira è un simbolo forte, di integrazioni di culture orientali e occidentali, che ha visto la grande regina Zenobia battere gli eserciti romani e liberarsi dal loro giogo sino a creare, per un breve intervallo di tempo, un regno libero. La storia di questa città, nell’intento dell’ISIS, andava sotterrata nuovamente. Da lontano, ho vissuto da spettatore la distruzione di questo patrimonio e ho iniziato a lavorare sul progetto Le nuvole. Il progetto si struttura in dittici in cui le mie immagini della città di Palmira si accostano a still frames di video che ISIS pubblicava sui social network per documentare, in chiave propagandistica, la distruzione della città romana. I cumuli di polvere che si sollevano dalla devastazione del sito assomigliano a eteree nuvole, ma in realtà sono la traccia della negazione della storia e della memoria. Il titolo è mediato dalla commedia di Aristofane, in cui, le nuvole erano divinità leggiadre e ammalianti, ma molto pericolose in quanto latrici di devastazione, come, secondo il commediografo greco, le nuove idee filosofiche che stavano prendendo piede. Attualizzate al nostro tempo, le nuvole sono le idee che propugna l’ISIS, molto affascinanti, per alcuni, ma sicuramente molto pericolose perché tendono a negare la memoria e la storia che, nel loro percorso, hanno originato le nostre culture e le nostre religioni.
AM – Un tuo lavoro si intitola Questo è il giorno in cui la memoria si è dissolta. Mi interesserebbe parlarne.
MG – Questo è il giorno in cui la memoria si è dissolta è un progetto artistico che è nato quasi contestualmente a Le nuvole. Nel periodo in cui le forze dell’ISIS dominavano le regioni irachene e siriane e perpetuavano danni irrimediabili al patrimonio archeologico e storico di quelle aree. A differenza di Palmira, da cui arrivavano ai nostri occhi le immagini della distruzione, non si sapeva quasi nulla delle sorti di altre aree archeologiche. Quindi, ho voluto lavorare sull’idea di indeterminatezza di questa situazione, utilizzando alcune mie immagini che avevo scattato nelle aree intorno al Jabel Seiss al confine tra Siria e Iraq, nel deserto, dove, all’interno di un’immensa caldera di un vulcano si trovava un antico insediamento del quale non si poteva sapere nulla. La mia idea era di affiancare a ogni immagine, una sua versione molto sbiadita, come se avesse subito un processo di decolorazione nella memoria, una cancellazione graduale che avrebbe portato all’oblio.
AM – Di fronte a quanto successo a largo delle coste ioniche della Calabria, nei giorni scorsi, un lavoro come il tuo recente Firaq acquista, a maggior ragione, un senso più ampio. In arabo Firaq significa separazione. Il riferimento alla tragedia dei migranti è ovvio, il progetto si concentra sul racconto della condizione di chi abbandona tutto per cercare una vita migliore. Si tratta di uno sradicamento dalla propria terra, che hai rappresentato metaforicamente con una pianta e le sue radici, quelle citate da Omero nell’Odissea. Il viaggio del migrante è accostato al viaggio di Ulisse, le piante sono state scelte da persone che sono scappate forzatamente dalle regioni mediorientali. Vengono in mente le persone che lavorano ai cantieri di Dubai.
Un lavoro artistico, in cui la dimensione della bellezza è molto forte, può, dunque, alludere a uno dei drammi più potenti del nostro tempo storico?
MG – Firaq è un progetto che nasce nell’ambito della residenza artistica Return2Ithaca a cui ho preso parte nel mese di settembre, nell’isola di Itaca in Grecia. Il fulcro del lavoro s’incentra attorno al parallelismo tra la figura di Ulisse come viaggiatore forzato e l’esperienza del migrante. Ulisse, a differenza di come descritto da Dante, non è un esploratore impavido e avventuroso, un Cristoforo Colombo, è stato, invece, costretto a viaggiare lontano da Itaca dal fato avverso esattamente come i migranti che sono costretti ad allontanarsi dalla propria terra di origine per questioni sociali e politiche. Ho creato una metafora utilizzando le piante sradicate come è stato sradicato Ulisse da Itaca e i migranti dalle loro terre d’origine. Le piante mi sono state indicate da migranti che sono scappati dalle terre del Medio Oriente ma nello stesso tempo sono citate da Omero nell’Odissea. Le stampe poi sono state strappate e ricucite e nel punto della ferita è stata realizzata una superficie d’oro a indicare che il trauma dell’abbandono viene poi illuminato da una luce della speranza di poter trovare una terra migliore dove poter affondare nuovamente le proprie radici e crescere. Firaq è una parola araba che significa separazione, rottura con il proprio passato con la propria terra con le proprie origini e con le proprie radici. La vicenda dei migranti come la vicenda di Ulisse è costellata di tragedie come quella che è accaduta in questi giorni lungo le coste calabresi. Questa è una delle tragedie più potenti dell’epoca che stiamo vivendo ed è importante riflettere sul significato e sulle origini di questo fenomeno per poter capire il senso stesso della migrazione e di questi viaggi pericolosissimi altrimenti affronteremo sempre gli stessi drammi.
AM – Considerato il senso di buona parte della tua ricerca, pensi che lavori come i tuoi possano essere considerati di matrice sociale? Con un auspicabile superamento della fissità dei generi fotografici lavori di questo tipo propongono riflessioni di tipo sociale, politico, antropologico. Vogliamo parlarne.
MG – Io credo che i miei lavori originino dall’esigenza di mostrare il mondo in cui viviamo, traslando la mia esperienza personale e la mia prospettiva in un racconto che possa sollevare questioni di carattere politico e sociale. La fotografia è uno strumento molto potente, per sua stessa natura, fotografare è un gesto di prelievo della realtà, quando ti trovi in luoghi come la Siria e l’Iraq, il tuo gesto acquisisce valore documentario, in quanto sono territori dove oggi è in piedi un tempio e domani viene distrutto con delle bombe. Se a queste immagini si aggiunge una solida struttura concettuale possono avere valore artistico e staccarsi da una mera riproduzione di quello che vediamo per elevarsi a metafora e riflessione profonda sui nostri tempi. Vorrei lasciare sempre allo spettatore la libertà di interpretare il mio lavoro, scavando una fitta stratificazione di significati, che ognuno percepisce a modo suo, ma non sottolineo mai una tesi evidente, piuttosto sollevo dubbi a cui, ognuno, risponde a modo suo.