La visione di Asteroid City, probabilmente, farà riaffiorare alla memoria di alcuni spettatori meno giovani la collana enciclopedica americana I Quindici – I libri del come e del perché (originariamente Childcraft: The how and why library, creata nel 1934 da W.F. Quarrie & Company e poi ristampata in diverse edizioni aggiornate, fino agli anni Settanta). Questa serie di volumi illustrati, rivolta inizialmente ai bambini, aveva la funzione di rendere piacevole l’apprendimento di vari ambiti della cultura e dell’istruzione. Ogni volume era monotematico e la collezione spaziava da argomenti umanistici (racconti e fiabe), antropologici (feste, costumi, personaggi da conoscere, pionieri e patrioti) e infine scientifici (scienziati, inventori, cosa fanno gli uomini e come funzionano le cose). Sostanzialmente, si trattava di un’opera divulgativa illustrata (anche molto bene, dal mio punto di vista di “ex” bambino).
Asteroid City condensa tutte le tematiche di questa enciclopedia in un film a vocazione elegiaca.
Asteroid City non esiste: è una “città invisibile” – ma molto visiva – costruita in un deserto simulato, parto fantasioso di un drammaturgo immaginario (Edward Norton) e introdotta da un anchorman televisivo anni Cinquanta (Brian Cranston). Sostanzialmente, una location che si configura unicamente come tale, neanche come idea realistica di un luogo preciso. Si tratta di un set, o dell’ipotesi di un set, dove il vero demiurgo – il regista Wes Anderson – sparpaglia una serie di personaggi, capitati lì per caso e ognuno per ragioni diverse. Anzi: molti personaggi si ritrovano in quel posto, senza nemmeno averne un’idea precisa.
È però certa l’epoca: siamo nel 1955. Ma non si tratta di un 1955 storicamente attendibile. Siamo in un mondo smontabile, elaborato, appunto, dalla fantasia un “ex” bambino; un individuo che tenta di ricavare la sintesi della sua poetica, spremendo insieme le suggestioni visive e nozionistiche di un sussidiario scolastico.
Per certi versi, e per stare nel contemporaneo (auspico in modo non forzato), Asteroid City potrebbe essere il prodotto di un’intelligenza artificiale che produce uomini che immaginano mondi.
Un gioco di scatole cinesi, dove un contesto entra nell’altro e il racconto si espande in modo quasi rizomatico.
Addirittura, si potrebbe sostenere che non esista una vera e propria narrazione; ma che gli eventi si susseguano come un collage orizzontale.
Fondamentalmente, il film appare come il prodotto di una mente che ha “subìto” troppe informazioni, senza essere in grado di elaborarle; un cervello che ha avuto un rigetto, come se fosse entrato un bug nel sistema centrale.
Asteroid City è, in definitiva, la creazione di un pensiero autistico.
Wes Anderson circoscrive uno spazio vuoto, immenso e azzurro come il fondale di un cartoon, nella restrizione di uno scenario dai confini invisibili, contro i quali si potrebbe letteralmente “andare a sbattere” (vedi The Truman Show, di Peter Weir). All’interno di questo ambiente, il regista condensa un distillato – paradossalmente ipertrofico – di visioni già esplorate, non solo cinematograficamente.
In questo senso, il film è un canto funebre (seppure certamente ironico); perché Asteroid City è una waste land di personaggi – non persone – in lutto o inconsapevolmente morte (in quanto personaggi). Costoro si ritrovano tutti insieme, nel “deserto del dismesso”, esattamente come se avessero subìto il richiamo subliminale degli UFO verso la “Torre del Diavolo” (Incontri ravvicinati del terzo tipo, di Steven Spielberg). Solo che l’alieno che atterra tra loro, rubando un asteroide di proprietà pubblica (reliquia funebre di una civiltà fatta di simboli vuoti, sempre più svuotati in divenire), è un goffo extraterrestre che sembra uscito da South Park (serie animata di Trey Parker e Matt Stone): essere bidimensionale, esattamente come la composizione filmica del cinema di Wes Anderson; un Godot che giunge senza essere atteso, germe di un caos prossimo venturo (anticipato dagli esperimenti atomici che ogni tanto scombussolano l’area circostante la cittadina).
Asteroid City diventa così il luogo dove mettere in sicurezza un immaginario, sia pure rielaborato dall’algoritmo andersoniano, prima di quella Babele che si chiamerà avvenire.
Per questa ragione il film inizia con un lutto e prosegue con il dilemma di dove riporre le ceneri di un personaggio defunto.
Personaggio, non persona.
Il film è una sorta di cinema al cubo: poiché narra di una drammaturgia che vorrebbe essere perfetta, ambientata in un mondo che corrisponde precisamente a un’epoca, dove i protagonisti danno l’impressione di conoscersi senza sapere nulla l’uno dell’altro; dove gli attori recitano la parte di attori che interpretano personaggi; e dove si replicano modelli su modelli, come in un viaggio onirico che s’infiltra nella Storia. Gli interpreti ripetono equazioni, nomi di personalità importanti; si rappresentano lezioni di astronomia, intervallate da canzoni country.
Asteroid City è il luogo del tempo perduto e mai più ritrovato; l’elegia del cinema e delle sue rappresentazioni più volte profanate; come un cadavere impresso in una fotografia irripetibile (tipo quelle che scatta Jason Schwartzman a Scarlett Johansson).
Il film di Anderson è come I quindici – I libri del come e del perché, in cui la fiaba si mescola con la scienza e quest’ultima con la Storia e i suoi personaggi.
Un’illustrazione fantasiosa.
Verso il finale però, come in molti film di questo autore visionario, entra di nuovo in scena la morte: elemento metafisico che ricongiunge lo spettatore al reale.
E, inevitabilmente, il set si smonta.
Asteroid City non è mai esistita.