La strada si inerpica in un bosco fitto. L’auto arranca, l’impressione è quella di essere inghiottita dalla natura e la percezione del tempo si fa ovattata. Solo una breve attesa mi separa dalla casa, ma basta ad immergermi in una dimensione fiabesca. Dal giardino sbuca una cagnolina che scodinzolando fa da guida verso l’ingresso. Appena dentro, mi si schiude un mondo incantato. In un ordine apparentemente casuale sono disseminate ovunque piccole sculture, bambole, animali in miniatura. Dinosauri e lucertole di plastica qui hanno il diritto di coabitare, e sembrano in procinto di prendere vita e movimento. Anche sui mobili ci sono oggetti di ogni tipo, un piccolo cane in terracotta, un coccodrillo dall’espressione perplessa, due sirene che si abbracciano. Su un altro ripiano cinque Mao, tre Lenin e due Marx, ciascuno in posa e stile diversi, fanno un Pantheon in miniatura degli dei del comunismo. Ombre uscite da uno spazio e da un tempo ormai distanti e remoti. Sembra la casa abitata da una bambina che non vuole smettere di inventare storie, che ha scelto di vivere in una Wunderkammer popolata di oggetti inusuali e strani, che immagina che ognuno di questi abbia un’anima. E poi, nel mezzo di questo stralunato accumulo di cose, quasi detriti spiaggiati dalla risacca, un’apparizione inaspettata che sembra giungere dal futuro: al centro di un grande tavolo, come un monolite proveniente da un’altra dimensione, si erge un computer con uno schermo enorme, una tastiera e una tavoletta grafica. Potrebbe essere la postazione di lavoro di un ingegnere o di un architetto, di qualcuno che di mestiere deve organizzare razionalmente lo spazio, di un uomo vitruviano costretto a confrontarsi con uno spazio perfetto. E invece è quello della fotografa Maria Vittoria Backhaus. Sul tavolo ci sono fogli, appunti, libri aperti. Le chiedo di raccontarmi qualcosa della sua vita. So che ha iniziato come fotoreporter, come quasi tutti i fotografi della sua generazione. Ha girato per fabbriche, ha seguito i congressi dei partiti, ma anche i concerti dei Beatles e le esibizioni di Carla Fracci. Anche lei, come Ugo Mulas, pensava che fotografo fosse sinonimo di fotoreporter. Il Sessantotto non poteva che attrarre fatalmente chiunque decidesse di intraprendere quella carriera. Ne sapevano qualcosa Tano D’Amico, Carla Cerati, Paola Agosti, Uliano Lucas, Paola Mattioli, Lisetta Carmi. Il cambiamento coinvolgeva ogni settore della società e doveva essere testimoniato. Ma con il reportage era molto difficile mantenersi, e quindi la sua carriera prende un’altra strada. «Avevo un grande amico, Guido Vergani, con cui ho coperto temi di costume ma anche il banditismo in Sardegna e era un lavoro che mi piaceva tantissimo. A un certo punto non mi hanno più mandato, ma la ragione era stupida: non pagavano due diverse camere d’albergo per il fotografo e il giornalista […]. Frequentando il Bar Jamaica, c’era Flavio Lucchini che mi ha chiamato a L’Uomo Vogue e Casa Vogue. Io gli ho detto: cosa vengo a fare? non sono capace. Fotografavo delle cose esistenti, invece lì si doveva costruire una fotografia».
Se il Jamaica era stato fondamentale per la sua formazione di fotoreporter, gli studi all’Accademia di Brera si riveleranno fondamentali per diventare una fotografa di moda. Approntare un set fotografico significava costruire e dare forma a un mondo nuovo. Lo sfondo bianco dello studio, come la tela di un pittore, era lo spazio dove tutto poteva essere rappresentato, e in modo assolutamente libero. Se con il reportage dire la verità era un dovere morale, con la fotografia di moda ciò che contava era creare un immaginario capace di suscitare emozioni. La fotocamera, che nella retorica del reporter alla Weegee era un’arma con cui catturare gli eventi, nelle mani della Backhaus è il gioco da cui far uscire una nuova realtà.
Una scatola magica con cui giocare e sentirsi artefici, non solo testimoni. Proprio come si legge nel biglietto che Ettore Sottsass le scrive:
Cara Mariavittoria,
che bella macchinetta mi hai regalato!!!
Sei stata proprio gentile!!
Sono contentissimo!!
Con questa macchinetta sarò bravissimo.
Farò le più belle fotografie che non sono mai
riuscito a fare…
Grazie, grazie…
Ettore. (21.11.98)
Ma anche il grande computer sul tavolo è una scatola magica. Maria Vittoria mi mostra alcune fanzines che ha realizzato con le sue fotografie. Gesticola, parla velocemente, si accalora. All’improvviso mi rendo conto che non sto ascoltando una fotografa di ottant’anni, che ha lavorato come una matta per almeno sessanta, ma con una punk dai capelli bianchi e la frangetta dritta che le taglia la fronte. «Questa si intitola L’armadio del fotografo, lo avevo esposto anche in mostra. Ti ricordi?». E come si può dimenticare, penso fra me e me. Sulla copertina della fanzine si vede un fotomontaggio composto da un armadio rosa colmo di fotocamere di tutti i tipi. Anziché le scarpe e gli abiti di Barbie, Maria Vittoria ci ha messo le sue macchine fotografiche. Sembrano creature con un’anima. Tra la sua prima fotocamera, una Nikon F, con cui ha fotografato i Beatles, e la Deardoff, la grande macchina in legno che è andata a prendere appositamente a New York, ci sono un’infinità di fotocamere: l’Hasselblad, la Pentax, il banco ottico Sinar, la Mamya, la Lomography. E le Polaroid che dapprima usava per controllare luci e inquadrature, talvolta le incollava sui quaderni di lavoro, come fossero appunti visivi, e in seguito le teneva come scatti definitivi. Piramidi di obiettivi, macchine, cavalletti, come i mattoncini Lego, formano composizioni che ricordano dei robot, giocattoli smontabili e ricomponibili in maniera quasi illimitata a formare nuovi personaggi con nuovi corpi e nuovi poteri. In pratica il potere della fotografia di rimodellare se stessa e di suggerire nuovi scenari e realtà. La leggerezza rosea e bambinesca di un armadietto dei giochi che incredibilmente contiene e sostiene il peso oscuro del metallo e i vetri magici degli obiettivi: questa, mi son detta, è ancora Maria Vittoria, che con la sua creatività riesce a far da contrappeso alla pur necessaria téchne.
«Tu intercetti molto velocemente il cambiamento e lo fissi nella fotografia». È stata una delle domande che le ho rivolto durante un recente colloquio a casa sua. In quella occasione, curiosando tra gli oggetti disseminati nei posti più diversi della sua casa, mi è capitato di imbattermi più volte in un animale che mi è sembrato un coccodrillo, un simbolo di tempismo e pazienza. In effetti, proprio il coccodrillo potrebbe essere il suo animale totemico, data la sua innata capacità di “fiutare” i fenomeni sociali e di costume prima ancora che si manifestino compiutamente e di fissarli nelle sue foto. Questa capacità, come nel coccodrillo, si accompagna all’attesa, a uno studio lungo, paziente e metodico, come insegnano le scenografie manufatte in miniatura per le sue sessioni di moda. Ma mi ha ricordato anche il camaleonte con la sua capacità di adattamento, l’astuzia, la propensione a trasformarsi e la voglia di giocare e trasformare anche il soggetto da fotografare. La fanzine intitolata Dell’isola. è ambientata a Filicudi e prende spunto dalla considerazione che, con il cellulare, oggi tutti possono essere fotografi. La cosa negativa, però, è che la mancanza di una buona cultura del vacanziere medio spinge a fotografare gli abitanti del luogo con la supponenza del ricco consumatore, evidenziando la povertà e il degrado, in pratica una brutta copia di Sander. «A me la cosa dava fastidio, perché se fotografi l’avvocato a Milano, non lo riprendi in mutande. Allora l’idea è stata: io provo a vestirli, a dire: vestiti come quando vai a una festa. Poi ho allargato un po’ la cosa, quindi è diventato un racconto sull’isola che cambia per come tu la guardi».
Stefano “Ciclone” Cappadona è vestito elegantemente; giacca, cravatta e scarpe nere di vernice, placidamente adagiato su una poltrona coperta da un telo dello stesso tono del vestito, si trova nel mezzo di un prato, circondato da relitti di macchine per l’edilizia, tra cui una betoniera e una gru; Leonardo Cappadona, invece, è un adolescente con giubbotto di pelle e jeans regolamentari strappati, capelli irsuti e gelatinati. È seduto su uno sgabello nel bel mezzo di un cimitero, letteralmente appoggiato alla lapide di una tomba. Dario Sarpi lo ha fotografato sul ciglio di un tornante, dal basso verso l’alto, con un completo a righe sottili, di quelli che richiamano “uomini di rispetto”, in sella a un cavallo bianco. Ai piedi del destriero un piccolo cane, e sullo sfondo il mare di Filicudi. Adesso non sono fauna locale, semplici abitanti di Filicudi, ma un rampante imprenditore edile, un poeta dark e un capitano di ventura, forse un broker, di quelli che si possono incontrare a Milano o vedere nelle serie di Netflix. Grazie a un semplice cambio d’abito, parodiando il sistema della moda di cui conosce perfettamente gli ingranaggi, la Backaus ci offre una lezione di camouflage, ci invita a riflettere sull’idea di verità e sullo scambio tra realtà e parodia. A volte il cambio d’abito non è necessario, i personaggi possono rimanere gli stessi, come archetipi di storie eterne. È il caso del suo incontro con i presepi.
«Tutto è cominciato per gioco nel 1999, quando i miei due nipoti-amici mi hanno regalato un uovo Kinder da cui è uscito un piccolo presepio: Maria, Giuseppe e il Bambino. Mi sono chiesta: se oggi il Natale è una festa per tutti, anche laica, perché allora ognuno non si fa il suo presepio? Così, vicino alle figurine Kinder ho cominciato a mettere un Buddha, il Piccolo Principe, un dinosauro un’automobile. Negli anni, poi, ho cercato di raccontare con i presepi anche fatti di attualità e di vita». Ecco i titoli: 1999 Kinder presepio, 2000 Tecnologia e sentimento, 2001 Guerra in Afghanistan Festa berlusconiana, 2002 Natale degli insetti, 2003 Nani, Elfi & Friends… Cosa si può dire? La cornice del presepe, l’immutabilità dei ruoli, l’armonia di un mondo in miniatura che resta uguale a se stesso da millenni fa da cornice al caos della vita, alla sua mutevolezza. Per la Backaus il presepe è, assieme, una scena e un canovaccio dove si recita, da sempre, l’eterna commedia umana della comunità e della rinascita. La sua attenzione, come quella di una bambina abituata a spiare le mosse e le posizioni dei personaggi, si sposta sul significato che l’insieme assume, nel tentativo di renderlo attuale e conservare, in questo modo, il suo significato originario. La Backaus cerca il senso di un ordine cosmico dentro il caos, soprattutto quello inflazionato delle immagini, e non teme di immergervisi con le sue arti di contaminazione, sovrapposizione, sostituzione, con le sue tecniche professionali e la sua illimitata curiosità.
Di tutt’altra natura è la fanzine, I luoghi del confino a Lipari. Il progetto è quello di ridare voce e sguardo ai confinati nell’Isola. Vi sono figure assolutamente ignote e altre che, invece, figurano nei libri di storia, come Emilio Lussu. Sembra che, raggiunta ormai un’età matura, Maria Vittoria Backaus voglia pareggiare i conti con un’esperienza di vita nella quale l’impegno politico l’ha vista sia come fotoreporter che come presenza inquieta nel movimento studentesco internazionale, ma che ha dovuto presto abbandonare per motivi professionali. Adesso che i riconoscimenti e gli apprezzamenti non le sono più necessari, finalmente è arrivato il momento per affrontare il saldo con una partita che volutamente o no, ha dovuto accantonare. E forse non è un caso che tra i pochi desideri espressi nel corso delle nostre conversazioni, quello più urgente e pressante è stato il dare vita a una pubblicazione che possa finalmente restituire lo sguardo e la dignità a persone che hanno sofferto per la nostra libertà e che, diversamente, cadrebbero nell’oblio.
Accanto alla casa c’è il suo archivio, ricavato dal vecchio fienile. Gli armadi bianchi sono colmi di scatole con i titoli dei servizi che la Backhaus ha realizzato per prestigiose riviste di moda fra cui Vogue, Uomo Vogue, Io Donna. Ne apre alcune, sparge sui tavoli immagini e provini, ricorda le molte ore di lavoro in studio, i viaggi, gli spostamenti. Forse quella enorme formica vicino al computer non è che uno dei suoi alter ego, quello di una donna instancabile, che accumula e archivia ricordi e fotografie. Lei dice che una fotografa è come un’archivista, perché mette in ordine e registra immagini. «È come archiviare i fatti della vita, della moda, delle cose. Io mi vedo un po’ come un’archivista». Ma accanto a quest’anima da formica instancabile c’è anche la sua vena da cicala canterina. La mostra in corso alla galleria di Alessia Paladini a Milano è invece un inno all’anima allegra ed eclettica della Backhaus, al suo modo di stare al mondo in punta di piedi. Ripercorre in modo antologico le fasi più innovative del suo percorso professionale e artistico, dalle provocazioni sulle borse traboccanti di cibo, alle badanti dell’Est vestite Prada, alle Madonne di Filicudi, tra iconografia cattolica e sincretismo orientale, sature di un colore che è figlio della pittura fiamminga molto più che delle codifiche coloristiche commerciali.
La mostra si intitola Invidio quelli che ballano: «Cosa avrei voluto fare? Ballare! Invidio quelli che ballano. Sono invidiosissima di quelli che sanno ballare! Ci sono tante altre cose che vorrei fare perché naturalmente io voglio fare tutto: voglio disegnare, ricamare, cucinare, qualsiasi cosa e mi disperdo in queste 500 cose da fare».