Angela Madesani – Ormai da tempo guardo con interesse al lavoro di Lamberto Teotino, pur non avendo ancora collaborato con lui. La sua ricerca non può essere etichettata, collocata negli inutili quanto spiazzanti, cassettini di gruppi e tendenze e forse è proprio questa sua libertà di sguardo e operativa che lo rende particolarmente affascinante ai miei occhi. Per entrare nel suo operato gli ho chiesto di parlarci della sua formazione.
Lamberto Teotino – Fin da piccolo ho sempre avuto curiosità e interesse per il disegno, ne conservo ancora oggi alcuni realizzati durante l’infanzia. Quest’attitudine, negli anni, mi ha portato a frequentare prima il liceo artistico e poi l’Accademia di Belle Arti, direi che la mia formazione si può definire ortodossa. Ricordo ancora l’emozione del primo giorno in Accademia, sono rimasto circa mezz’ora davanti al portone d’ingresso prima di entrare, era un sogno che avevo fin da bambino e finalmente lo stavo realizzando.
A.M, – Nella presentazione sul tuo sito scrivi che ti interessa la disseminazione del senso, del paradosso, le condizioni di alterazione percettiva e di un nuovo disegno concettuale, come una sorta di spostamento metafisico, una deviazione. Posso chiederti di spiegarci cosa intendi con tutto questo?
L.T. – In realtà il mio focus si concentra sulle reazioni fisico-mentali che il fruitore può avere trovandosi di fronte all’opera. L’aspetto principale è notare ciò che suscita l’opera attraverso il concetto, la tecnica realizzativa e la componente estetica. Il mio piacere è quello di suscitare attrattiva mediante le fasi di lettura di queste componenti. Mi interessa far riflettere lo spettatore che, inizialmente, deve essere colpito dall’insieme di ciò che vede, senza però comprendere subito cosa stia succedendo e che, solo in un secondo momento, dovrà soffermarsi sui dettagli, quando comincia a percepire che sta avvenendo qualcosa di non comprensibile e di deviante. È qui che mi interessa che si instauri una sorta di rapporto mentale e personale tra l’opera e chi la osserva. Per spiegare le mie opere uso spesso l’esempio della magia, è proprio quello che cerco, l’attenzione che lo spettatore ha nei confronti del mago cercando di capire dov’è il trucco.
A.M. – Sin dalle prime volte che mi sono avvicinata al tuo lavoro ho immediatamente pensato a certa arte delle avanguardie storiche, al Dadaismo, alla fotografia del Bauhaus, ma anche ad alcuni aspetti del Surrealismo. Mi sto sbagliando?
L.T. – No, non ti stai sbagliando, sono tutte correnti artistiche che ho amato in modalità differenti e pertanto fanno parte di ciò che nel tempo ho assimilato e sedimentato dentro di me. Cito tre artisti e le loro opere che sono state di ispirazione per me: l’installazione Étant donnés di Marcel Duchamp, la foto Oskar Schlemmer, teatro Bauhaus di Erich Consemüller e il dipinto L’Europa dopo la pioggia II di Max Ernst.
A.M. – Un aspetto portante e assai interessante del tuo lavoro è il rapporto con gli archivi. Nel corso degli anni hai dato vita a tre serie di opere dedicate a questo complesso tema, tre capitoli che hai chiamato “trilogia dell’archivio”. Per tali lavori hai utilizzato immagini già esistenti sulle quali hai lavorato. Inutile dire che il concetto di ready made ci riporta a Duchamp. Costituisce un’importante analisi di matrice linguistica che mi interessa particolarmente e che trovo in controtendenza con la folle produzione di miliardi di immagini, propria del nostro tempo.
L.T. – Purtroppo ritengo che la fotografia sia diventata troppo di massa, se consideriamo che ognuno di noi ha una fotocamera nel proprio smartphone, da un lato, questo aspetto facilmente accessibile nei confronti dello strumento, a rigor di logica, dovrebbe proiettare l’immagine verso un suo perfezionamento (solo sulla carta), ma dall’altro non possiamo esimerci dal prendere atto che l’utilizzo che ne viene fatto è ludico per non definirlo stupido, se pensiamo ai milioni di selfie che vengono realizzati ogni giorno, quindi ciò che viene a mancare fondamentalmente è lo studio, la ricerca. Pagheremo caro questo abuso di immagini ma soprattutto l’esibizionismo che ne viene fatto, mi immagino un futuro lontano dove ognuno di noi conserverà gelosamente le poche immagini rimaste sul pianeta. Personalmente ho utilizzato la fotografia più per esigenze linguistiche che per altro, perché in realtà non la amo particolarmente, non mi sento un fotografo e non mi sono nemmeno molto simpatici i fotografi, perché troppo chiusi all’interno di griglie mentali. Siamo d’accordo che uno scatto ingloba un determinato momento indelebile, unico, magico e poetico, ma ritengo la fotografia più vicina alla decorazione e alla grafica che all’arte, perché vive dell’incontro che avviene tra la luce e il buio in cui sali d’argento o pixel, che siano, generano illustrazioni ornamentali in forma di immagine. Nel tempo mi ha annoiato così ho iniziato a provare interesse per il preesistente, che ha fatto scaturire in me un forte impulso per il concetto di archivio. Inizialmente ho indagato la fotografia in bianco e nero, poi sono passato a recuperare immagini di dipinti presenti negli archivi dei musei e infine ho analizzato il video tra i vari archivi del web e del dark web.
A.M. – In The image of what we are prevails over what we are dai vita a un’installazione con una pallina da tennis posta davanti all’immagine. Che significato dobbiamo dare a tale operazione?
L.T. – Con The image of what we are prevails over what we are ho analizzato il tema del doppio, come ambiguità e alterità, attraverso l’indagine dell’atleta e del suo sdoppiamento identitario. La realtà di un campione sportivo mi ricorda l’immaginario triste in cui vive il supereroe dei fumetti, perennemente incompreso e solo con se stesso. Per molti campioni la propria identità sportiva supera quella umana. L’opera è progettata in maniera installattiva, in essa l’immagine dialoga con una pallina da tennis utilizzata come pennello, con la quale ho dipinto di acrilico bianco il volto dell’uomo ritratto, annullandone così ogni tratto distintivo, lasciando visibile l’identità solo in quanto atleta.
A.M. – Puoi spiegarci qual è la corretta lettura del tuo progetto sistema di riferimento monodimensionale, che prende il titolo da un teorema ideato da René Descartes?
L.T. – Per gli addetti ai lavori questo è il mio progetto più riuscito, io sono particolarmente legato a sistema di riferimento monodimensionale con il quale ho vinto premi e ricevuto importanti pubblicazioni internazionali. Nasce casualmente dopo aver ritrovato nella tasca posteriore dei miei Levi’s una foto cartolina piegata in due, aprendola mi sono reso conto che il tempo aveva creato una linea bianca verticale, causata dalla piega, questa linea che tagliava in due la scena mi disturbava e allora ho deciso di restaurarla digitalmente sovrapponendo le due porzioni dell’immagine attigue alla linea per farla sparire. Fatto questo, ho notato che la porzione della scena scomparsa aveva dato all’immagine un aspetto “altro”, generando così un sapore ambiguo ma funzionante, come una sorta di glitch che aveva causato un’interruzione anomala, un guasto, un difetto. La zona sparita, come per magia, aveva prodotto un’apertura compositiva all’interno della scena, una sorta di cunicolo gravitazionale, stavo assistendo a una nuova dimensione e così ho cominciato ad approfondire gli studi dimensionali cartesiani.
A.M. – È di una decina di anni fa il lavoro L’ultimo Dio, un’indagine sottile dell’animo umano. Certi lavori di questa serie rimandano a John Heartfield, alla sua AIZ. Ogni tuo lavoro è come il capo di un filo che ci riporta a molto altro. Mi piacerebbe che ci parlassi di questa serie di lavori e della scelta del titolo.
L.T. – Se vogliamo trovare degli elementi in comune direi che il mio lavoro ha l’impatto e la fisicità di Heartfield, ma non ne incarna il messaggio dato che il suo è politico e io non condivido l’utilizzo della politica nell’arte, non apprezzo gli autori che usufruiscono della propria arte per farne propaganda politica, ma ognuno fa delle scelte e la mia non è questa. L’ultimo Dio è un’analisi mentale dell’individuo e riflette la parte interiore toccando aspetti quali la coscienza e l’esistenzialismo attraverso una matrice. Il titolo nasce dall’amore che nutro nei confronti della musica che spesso fa parte della mia ricerca, non a caso anni fa realizzai una personale intitolata EP (Extended Play), che è usato in discografia per definire un mini-album da cui ho tratto le modalità compositive. Tra i miei gruppi musicali preferiti ne esiste uno che si chiama Massimo Volume che seguo fin dai loro esordi nei primi anni Novanta, fanno un genere definito spoken word in cui il cantante recita e non canta, un loro brano era intitolato così e mi rimase in testa per anni finché decisi di prenderlo in prestito per il mio progetto.
A.M. – Ti ricordi Prohaska e di quando lo chiamavano Schneckerl? è un lavoro sulla memoria e sulla sua perdita, in cui hai lavorato sul rapporto tra analogico e digitale, servendoti infine di un composto chimico che ha avviato un processo di consunzione. Mi verrebbe da definirlo un lavoro che rimanda alla malattia, alla sparizione.
L.T. – L’immagine mangiata da una cellula neoplastica, forse il lavoro inconsciamente è nato dopo che ho avuto un melanoma, ma non ne sono sicuro. Herbert Prohaska è un ex calciatore austriaco che all’inizio degli anni Ottanta ha giocato nella Roma, era soprannominato Schneckerl per i suoi capelli ricci che ricordavano delle lumachine, la massa nera che divora la scena mi ricordava la folta capigliatura di Prohaska.
A.M. – Per la tua ricerca utilizzi numerosi media, mi affascina il tuo rapporto con la pittura, in particolare con quella dal XV al XIX secolo. Definisci la pittura “arte maggiore” è un atteggiamento sorprendente da parte di un artista che lavora principalmente con la fotografia.
L.T. – In realtà io nasco come pittore ma non ero soddisfatto di ciò che realizzavo, seppur con abilità la mia ricerca non andava da nessuna parte, non aveva nessuno spunto interessante, diciamo che era inutile, a quel punto ho avuto la lucidità di farmi da parte, perché le tematiche che stavo indagando non si sposavano con le tecniche pittoriche ma si prestavano più per i mass media. Spero, nella mia vita, di riuscire a realizzare un dipinto importante, mi accontenterei di uno solo, per il momento studio quelli dei grandi maestri della storia per riproporli con una lettura contemporanea.
Il sito di Lamberto Teotino