I personaggi dei film di Kaurismäki appaiono spesso come individui senza storia, senza passato (come, appunto, il protagonista del film L’uomo senza passato). Persone che si aggirano in un presente sospeso, trascinando con loro un quieto disorientamento. Alieni silenziosi che trovano il proprio habitat entro i confini di una dolente marginalità: urbanistica dell’anima che si configura all’esterno come la porzione di una metropoli perennemente notturna (Helsinki), appena rischiarata da leggere punteggiature di colore: fioche luci dal sapore hopperiano che definiscono prevalentemente ambienti modesti; piccole dimore, rigorosamente ordinate secondo un dècor dove nulla è lasciato al caso; luoghi in cui l’umiltà assume un’estetica precisa – geometrica ed elegante – inserendosi con grazia nella notte triste e silenziosa della tarda modernità.
Sono cani randagi i personaggi di Kaurismäki: “bohémien” a volte inconsapevoli, alla ricerca di un po’ d’ordine nel caos silente delle proprie esistenze.
Non fanno eccezione Hansa (lei) e Holappa (lui), i protagonisti di Foglie al vento, che grazie al caso s’incontrano, per colpa del caso si perdono, e poi s’incontrano di nuovo. In comune hanno un’evidente condizione proletaria, fatta di lavori faticosi, con paghe da fame e sempre in bilico sull’orlo di una sfinente instabilità (in modo particolare Holappa che rischia di compromettere qualsiasi aspetto della propria vita, a causa della sua propensione all’acool). Inoltre, i due condividono un reciproco, sottaciuto, desiderio di incontrare qualcuno che rappresenti un barlume di vita “vera” che possa fare da spartiacque nella loro quotidiana sopravvivenza (infatti, vanno insieme al cinema a vedere The dead don’t die, di Jim Jarmush: commedia horror su un’invasione zombi in una “morente” cittadina americana); insomma, qualcuno che sia come quei colori e quelle tinte capaci di lacerare la luce smorzata che permea tutto il film.
Il romanticismo di Kaurismaki si esprime sempre allo stesso modo: attraverso una composizione delicata di silenzi, sguardi che sembrano rubati, rivoli di pioggia che segnano volti apparentemente congelati in una perenne fissità. Eppure, nella ripetizione di elementi stilistici e tematici che ne evidenziano l’unicità, dai film di questo autore non emerge nessuna manierata ostentazione; nemmeno quando omaggia il cinema e la propria colta cinefilia. I due protagonisti frequentano una sala in cui si proiettano opere che appartengono alla storia del cinema e le cui locandine sono esibite; come se citare il cinema rappresentasse semplicemente una pausa onirica, capace di “infiltrarsi” dentro una cupa realtà che attende solo un referto di decesso (il titolo originale finlandese, Kuolleet lehdet, sarebbe letterariamente “foglie morte”; nonostante si sia sottolineato, per diverse ragioni, il riferimento al film Come le foglie al vento, di Douglas Sirk).
In sostanza, questa nuova opera del cinquantaseienne regista finlandese, rappresenta la summa (ulteriore…) della poetica kaurismäkiana: dialoghi e recitazione minimali (quasi bressoniani, nella loro asciuttezza), personaggi che esprimono la propria solitudine “senza storia” con pochi sguardi e qualche gesto. Infine, non da ultimi, i temi del lavoro e della precarietà (economica ed esistenziale), reiterati senza ridondanza. Nonostante ciò, in questo film all’insegna di una sottrazione sempre più estrema, si “aggiunge” un lavoro intenso e fantasioso sul versante musicale. Aspetto, in effetti, già presente nella filmografia di Kaurismäki. Si pensi, per esempio, a Leningrad Cowboys goes to America: pellicola del 1987 che consacrò il regista nel mondo del cinema internazionale. La colonna sonora di Foglie al vento spazia da strampalate canzoni rock in finlandese (pezzi eseguiti “live” in locali che rimandano ad atmosfere lynchiane, simili all’ultima stagione di Twin Peaks), ad accenni di Rachmaninov (Concerto n.2: forse per omaggiare il “melò” Breve incontro, di David Lean).
Non solo, ma con Foglie al vento il regista sottrae il presente imprecisato dalla sua bolla di sospensione, riconducendolo con chiarezza nel nostro tempo, mediante l’inserimento di espliciti rimandi alla guerra tra Russia e Ucraina (annunci che provengono dalla radio della protagonista Hansa). Certo, tutto è soffuso, l’atmosfera è comunque quella di una postmodernità perpetua; dopodiché subentrano le piccole cose, i dettagli, a trasportare l’opera nel “qui e ora” della nostra epoca avvizzita.
Il finale, aperto e votato all’ottimismo, fortunatamente strizza l’occhio allo spirito di Frank Capra (auspicio a un “New Deal” più umanistico che economico).
Così, Hansa e Holappa si avviereanno verso un futuro che sarà l’inizio di una nuova storia.
Anzi: l’inizio di una storia.
Quella che non hanno mai avuto prima.
Cagnolina annessa.