INTRODUZIONE. IL CINEMA «SINFONICO» DI FRANCO PIAVOLI
Nel contesto del cinema internazionale della seconda metà del Novecento l’opera di Franco Piavoli si pone come un episodio isolato ma di grande originalità e rilevanza artistica. L’idea di fondo che la contraddistingue, e che è rimasta immutata nel tempo, è che il cinema possa, come la musica strumentale, esprimersi facendo a meno del ruolo denotativo del linguaggio verbale, ovvero attraverso la forza espressiva ed evocativa delle immagini e dei suoni reciprocamente interagenti.
Coerentemente con tali premesse le opere di Piavoli si distinguono per un’estrema cura dei valori visivi, ma anche per una attenzione fuori dal comune rivolta al suono, la cui importanza non è inferiore a quella dell’immagine. Ed è proprio sul suono che qui ci concentreremo, con riferimento al primo lungometraggio, Il pianeta azzurro.
LA MACROSTRUTTURA DEL FILM
Presentato al festival del cinema di Venezia nel 1982, Il pianeta azzurro è la prima opera in cui Piavoli dispiega la sua poetica nella dimensione del lungometraggio e a tutt’oggi una delle sue più significative. Così lo descrive l’autore:
«Ho voluto (…) rivisitare tutti i momenti essenziali della vita vegetale e animale… e umana naturalmente; descrivere l’elementarità quotidiana dei comportamenti umani e animali nell’arco di un giorno partendo dall’alba per arrivare alla sera, alla notte e all’alba successiva. Nello stesso tempo però ho voluto inserire questo ciclo di ventiquattro ore in un arco temporale più ampio, quello dell’anno, delle quattro stagioni e poi ancora ho voluto dilatare il tempo per dare la sensazione, specialmente all’inizio, di partire da ere ancora più lontane, fino a riportarci alle origini con le prime inquadrature che descrivono i ghiacci e poi lo scioglimento dei ghiacci»1.
Abbiamo dunque tre diverse scale temporali cicliche compenetrate: quella diurna, quella annuale e infine quella cosmica che racchiude ogni altra e che dà al Pianeta azzurro lo spessore di una cosmogonia. L’alba è infatti non solo l’inizio del giorno, ma anche il risveglio primaverile della vita e l’inizio dell’evoluzione della vita sulla Terra, mentre il crepuscolo conclusivo è simultaneamente la fine del giorno, il ritorno dell’inverno e la fine del mondo umano, e forse dell’intero fenomeno della vita. Il ciclo diurno in particolare si ripete due volte secondo una cadenza temporale rigorosamente isoritmica. Il primo giorno occupa la prima metà del film, mentre la seconda è divisa a sua volta a metà fra la notte e la ripetizione del ciclo diurno, dall’alba al nebbioso crepuscolo conclusivo. Si completano intanto il ciclo annuale e il cosmico; l’annuale, con i colori caldi dell’autunno seguiti dalla desolazione di un inverno fitto di nebbie che spingono le immagini sul confine del bianco e nero; e infine il ciclo cosmico, che vede il rarefarsi sempre più accentuato della vita man mano che ci si avvicina a ciò che appare come l’estremo orizzonte del tempo: la percezione di una fine che per lunghi minuti sembra essere irreversibile ma che si dissolve nel ritorno allo scorrere delle acque delle ultime immagini evocanti l’inizio di un nuovo, ancora ignoto, ciclo.
Questa trama narrativa prende forma in una sorta di sinfonia audiovisiva in cinque movimenti (che chiameremo nel seguito sezioni), un prologo e un epilogo.
Il prologo è un breve brano da Continuo di Bruno Maderna, composizione elettronica del 1958 che udiamo durante i titoli di testa, su schermo nero. Il suono dunque precede l’immagine ed esprime, secondo le intenzioni di Piavoli, il caos primordiale, preesistente alla nascita del mondo. C’è tuttavia ben poco di caotico in questa musica, che conduce piuttosto a un’idea di ordine primigenio, ancora alieno dal mondo quale lo conosciamo, ma non per questo meno presente.
La prima sezione è la fine dell’inverno con il disgelo che conduce al libero scorrere delle acque, seguito dal vento e dalla pioggia. È la fase della “vita” inorganica (giova ricordare che nella visione di Piavoli tutto è vita).
La seconda sezione mostra l’ingresso, nel mondo, della vita animale, nei tre aspetti delle relazioni armoniche fra le forme viventi, della predazione, e dunque della morte violenta, e infine dell’amore.
Nella terza sezione l’attenzione si concentra sull’uomo, visto in due momenti: il lavoro dell’agricoltura meccanizzata e, sul finire del giorno, la vita nel paese fatta di immobilità e attesa.
La quarta sezione, la più lunga e articolata, è la notte, dal tramonto all’alba, durante la quale scorrono paralleli il microcosmo dell’uomo e il macrocosmo che lo circonda, nella biosfera e nel cosmo.
La quinta sezione è il secondo giorno, in cui l’attenzione si concentra nuovamente sull’uomo che appare questa volta anche nella sua componente violenta (un litigio fra due contadini) che prelude alla fine della sua presenza sulla Terra.
Nell’epilogo infine, dalle nebbie che dominano le ultime immagini emerge nuovamente lo scorrere delle acque da cui tutto ha avuto inizio.
Il Pianeta azzurro, di Franco Piavoli – Trailer

Il suono del Pianeta azzurro si presenta come una realizzazione spontanea del concetto di composizione del paesaggio sonoro, all’epoca ignoto a Piavoli, che pochi anni prima il compositore canadese R. Murray Schafer aveva enunciato per via teorica2. Piavoli si immerge in un utilizzo intensivo e altamente consapevole delle potenzialità del sonoro cinematografico che molti decenni prima Aleksandrov, Pudovkin ed Ejsenstein intravidero nel Manifesto dell’asincronismo, componendo una musica per suoni naturali che conferisce a ogni luogo e momento del film una precisa identità sonora, tutt’altro che limitata alla semplice “sonorizzazione” diegetica della dimensione visiva. Da un punto di vista astrattamente formale possiamo parlare di un alternarsi di crescendo e simmetria, di strutture sonore ordinate e caotiche, fortemente differenziate oppure amorfe, forme che però mai cadono nel puro estetismo, rimanendo piuttosto sempre legate a una precisa funzione espressiva, alla realtà del mondo vivente che è il soggetto molteplice del film. Non una autoreferenziale riflessione sulle possibilità del linguaggio cinematografico ma una trama sonora, potremmo dire, che è lo specchio della trama della vita.
Cominciamo ora a delineare la fisionomia di questi paesaggi, e dotiamoci innanzi tutto di un mezzo idoneo a poterla adeguatamente percepire. Ci sarà utile infatti avere la possibilità di guardare il suono e faremo uso a tale scopo di un metodo di raffigurazione della struttura sonora, quale è lo spettrogramma, di cui abbiamo un primo esempio in fig. 1, che mostra la struttura sonora dell’intero film. In uno spettrogramma abbiamo sull’asse orizzontale lo scorrere del tempo e su quello verticale l’altezza dei suoni, dai toni più gravi in basso a quelli più acuti in alto. L’intensità del suono è infine espressa attraverso diverse tonalità di colore, dal giallo per i suoni più forti fino all’arancio e al blu per i più deboli, mentre il nero è il silenzio. Il suono si trasforma così in immagine, il che ci consente di avere una visione sincronica del suo fluire nel tempo e del suo situarsi nel dominio delle altezze.
Nello spettrogramma complessivo de Il Pianeta azzurro (fig. 1) notiamo subito la presenza di tre zone principali dominate da suoni amorfi, che occupano gran parte dello spettro sonoro, situate nella prima, terza e quinta sezione; sono le zone in cui dominano suoni provenienti da entità inanimate, artificiali nella terza sezione (motori, prevalentemente di macchine agricole), naturali nelle altre (acqua corrente, vento, pioggia). Tali zone sono separate da altre più minutamente e variamente strutturate dove dominano al contrario suoni provenienti da entità viventi, zone che, come vedremo, mostrano anche una ben maggiore varietà di sorgenti sonore, un alto grado di “fonodiversità”, specchio filmico dell’alto grado di biodiversità che è l’oggetto della rappresentazione.
Guardiamo ora le figure seguenti (fig. da 2 a 6) che mostrano ciascuna delle cinque sezioni. Le sezioni 1, 2 e 4, in cui sono dominanti suoni di origine naturale3, presentano una prima fase di espansione in cui il suono, partendo dai toni gravi, si estende progressivamente fino alle zone alte dello spettro, seguita da una più prolungata fase che potremmo definire di saturazione o meglio di raggiunta stabilità caratterizzata da un certo grado di simmetria nel tempo.





La sezione 3 è costituita da due sequenze in cui dominano rispettivamente suoni meccanici e suoni naturali. La prima, imponente e dominata dal rumore amorfo di macchine agricole, presenta un andamento frastagliato, a “guglie gotiche”, simmetrico nella sua parte iniziale, cui segue una tendenza verso un lentissimo diminuendo. Nella seconda, preludio alla notte e dunque molto più rarefatta, ritroviamo invece su scala ridotta, insieme al ritorno dei suoni naturali, la già descritta evoluzione delle altre sezioni dai suoni gravi agli acuti seguita da una fase stazionaria.
La sezione 5 infine non presenta nessuna tendenza nei primi due terzi della sua durata, dominati da suoni di origine umana, mentre nella fase successiva assistiamo a un processo inverso rispetto ai crescendo delle sezioni precedenti, ovvero un progressivo ritrarsi dei suoni fino al confine del silenzio da cui emerge infine la seconda apparizione della musica, il Sanctus dalla Missa Ercole dux ferraris di Josquin Desprez.
Percorriamo ora in maniera più ravvicinata il cammino di ciascuna delle cinque sezioni.
SEZIONE 1. LA NASCITA
Dal momento in cui appaiono le prime immagini comincia una fase in crescendo che coinvolge in maniera molteplice entrambe le componenti visiva e sonora. Sono le immagini e i suoni dell’alba, del disgelo, dell’emergere del mondo dal nulla. Nella componente visiva uso il termine crescendo intendendo l’introduzione sempre più accentuata di elementi dinamici mentre nella componente sonora (fig. 7) intendo un processo di progressiva intensificazione della presenza del suono nelle due dimensioni del tempo e dell’altezza.


All’apparire delle immagini emerge lentamente dal silenzio un sommesso sibilare di vento che costituisce una sorta di tenor, o sfondo sonoro, una sottile materia fluida che comincia ben presto a essere incisa da un gocciolio rado e innaturale (il suono è elaborato elettronicamente), in un certo senso “alieno”, come appartenente a un mondo ancora incompiuto, raggelato. Si procede da questo avvio (fig. 8, 9 e 10) verso livelli successivi di naturalizzazione e di addensamento del suono (un gocciolio sempre più fitto), paralleli a ciò che nell’immagine è il processo di scioglimento dei ghiacci e la liberazione dell’acqua, preludio allo sviluppo della vita, fino a giungere al suono continuo dell’acqua corrente attraversando una fase che potremmo definire di suono punteggiato, termine con cui intendo uno stadio intermedio fra il suono impulsivo, quale è un singolo gocciolio, e quello continuo, quale è l’acqua corrente, in cui ogni impulso è ancora ben percepibile ma non rappresenta più un evento sonoro isolato; l’evento è, come nel suono continuo, l’insieme. È questo il primo crescendo del film.



L’ultimo passo (fig. 10), coincidente con il pieno liberarsi delle acque e, sul piano uditivo, col varcare pienamente la soglia del suono continuo, appare nella sua fase iniziale come una ulteriore tappa del crescendo. Ma allo stesso tempo dà l’avvio alla fase successiva di “equilibrio dinamico” (a destra in fig. 7) dove il suono dell’acqua corrente appare secondo alcune varianti il cui succedersi dà luogo a una prima struttura sonora simmetrica nel tempo corrispondente alla fase del compimento del disgelo, come dire uno stato di stabilità raggiunta. Ma questa struttura evolve ancora spostandosi dai toni gravi verso le zone medie e alte dello spettro; siamo dunque di fronte a una stabilità a sua volta dinamica e soggetta a ulteriore mutazione.
Possiamo dunque così riassumere l’evoluzione dell’acqua nel processo del disgelo: suoni isolati e puntiformi (gocciolii) si addensano e si saldano gli uni agli altri (crescendo) fino a formare un continuum monolitico strutturato in forma simmetrica su cui si innesta poi un’ulteriore mutazione preparatoria della fase successiva.
Il parziale svuotamento dello spettro acustico nella zona dei toni gravi non è casuale perché prepara il passaggio dall’acqua al vento lasciando libero proprio l’intervallo di altezze che andrà a occupare la massa del vento, (fig. 11) il cui ingresso è graduale e precede l’immagine corrispondente.

La mutevole intensità del vento è il solo protagonista sonoro di questa fase ed è essa che prepara il nuovo ingresso dell’acqua, questa volta in forma di pioggia, attraverso una brusca rottura del continuum. Rottura che avviene attraverso l’esplodere improvviso di due tuoni seguiti entrambi dal tema del glissando a campana del vento (fig. 12). Giunge infine la pioggia, che chiude la prima sezione e riapparirà nella quinta, un tema che ha nel film ruolo di preludio: qui alla nascita della vita, lì alla sua fine.

Anche la struttura di questa sequenza (fig. 13) è pressoché simmetrica: inizia e finisce con i tuoni e segue un andamento in crescendo di intensità a gradini seguito da una fase costante e da un diminuendo, questa volta a due voci, nuovamente il tuono sui toni gravi e parallelamente la pioggia sugli acuti, diminuendo che conclude la prima sezione e con essa la prima fase dell’evoluzione della Terra, quella della vita inorganica e vegetale.

SEZIONE 2. IL DISPIEGARSI DELLA VITA
Come già detto, con l’entrata in campo della vita animale non solo la natura del suono ma anche la sua organizzazione muta radicalmente. La monoliticità degli agenti inanimati lascia il posto a una molteplicità di sorgenti sonore viventi, a una organizzazione del paesaggio sonoro minutamente e variamente strutturata. Si succedono in questa sezione tre temi: la molteplicità della vita, la morte e l’amore.
Nel primo tema ritorna una struttura in crescendo, con un progressivo spostarsi della massa sonora verso le zone alte dello spettro. Non è tuttavia uno spostamento che avviene con continuità: la fig. 14 mostra quattro fasi in ciascuna delle quali la forma sonora si mantiene inalterata dall’inizio alla fine e in particolare si nota la struttura estremamente regolare e stabile della fase centrale, in cui il soggetto della rappresentazione è lo stato climax di un ecosistema. L’evoluzione da uno stadio all’altro avviene dunque per successione di stati stabili. Si inizia con una forma monodica, costituita da voci di vari animali, soprattutto uccelli, che si presentano in successione, monodicamente appunto. Poi la struttura si fa nettamente più complessa sfociando in una ben ordinata organizzazione polifonica in cui ogni voce occupa un intervallo di altezze ben definito e alquanto separato dagli altri. Non esiste una voce dominante, nulla che sia riconducibile a una struttura figura-sfondo. Questa fase prende avvio da una struttura sonora fortemente simmetrica (fig. 15) dove queste caratteristiche sono ben visibili.


La fase successiva presenta ancora un certo grado di polifonia ma questa volta è dominata da una “voce solista”, una sorta di “aria” costituita dal canto di un singolo uccello che si distende lungo tutta la sua durata con funzione “concertante”, mentre attorno a essa si alternano voci di almeno altre quattro specie di uccelli, mai sovrapponendosi fra loro, dunque di nuovo monodicamente, realizzando attorno alla voce solista una sorta di melodia di timbri, come nel passaggio riportato in fig. 16.


Infine la voce solista balza in primo piano dispiegando pienamente il suo canto in una melodia pura (fig. 17) mentre tutte le altre voci tacciono. Unica eccezione, il sovrapporsi, ripetuto due volte, di un “urlo”, affine a quello del pavone, che anticipa la sequenza successiva.

Ogni ordine, ogni regolarità strutturale viene meno nel secondo tema in cui assistiamo alla morte di una libellula imprigionata in una ragnatela. Introdotta dall’urlo del pavone, poi ripetuto, presenta una moltitudine estremamente varia di voci di uccelli secche e caotiche che si succedono freneticamente nel tempo e si accavallano disordinatamente nel dominio delle altezze (fig. 18). Da questa folla di suoni emerge una sorta di ostinato costituito da una voce stridula di uccello ripetuta ritmicamente con minime varianti; e, del tutto scorrelato da essa, un frinire corale intermittente. L’insieme di questi due suoni, ma il primo soprattutto (che, come l’urlo del pavone, interpreta, in senso uditivo, la sofferenza della libellula morente), diviene infine il suono dominante, tanto da poter dire che è esso a dare la cadenza mentre il mondo vivente che lo circonda, dopo il parossismo iniziale, progressivamente si ritrae.


Interessante notare che il passaggio dal tema della vita a quello della morte avviene in maniera piuttosto articolata, occupando un arco temporale di quasi mezzo minuto, tanto da suggerire un’idea di compenetrazione fra le due tematiche. L’introduzione del nuovo tema, determinata come già detto dall’incidere di due “urli”, affini a quello del pavone, sulla voce solista che conclude la sequenza precedente, intacca infatti un paesaggio, sonoro, e inizialmente anche visivo, ancora dominato dal tema del dispiegarsi armonioso della vita; il salto tematico avviene infatti nella componente visiva solo dopo il secondo “urlo” e si completa più oltre nella componente sonora col cessare del canto solista. Un passaggio così articolato fra le due tematiche, la loro così prolungata compenetrazione, allude palesemente alla inscindibilità fra due realtà apparentemente contrapposte ma che, nell’aspra economia della biosfera (di cui Piavoli è ben consapevole), sono “utilmente” complementari, quali la vita e la morte, l’armonia e il conflitto.
La sequenza si conclude con un breve epilogo in cui ritorna la suddivisione ordinata in fasce di altezze della sequenza precedente: una ritrovata calma, dominata dalla voce mesta e lentamente ritmata dell’allocco, che prelude al tema, opposto, della sequenza successiva.

Scomparsi i suoni del caos, l’epilogo della sequenza precedente sfocia in una quiete sommessa da cui emergono un frinire corale intermittente con struttura “a nuvola” e un lontano cinguettio anch’esso corale, i quali popolano le zone dei toni medi e medio alti. La zona dei toni gravi appare inizialmente vuota ma si popola ben presto anch’essa, a partire dal fruscio diegetico prodotto dallo scivolare di lumache su foglie secche. Diegetico ma non soltanto perché è amplificato fino a esser portato in primo piano al di là del limite del naturale. Ed appare, ancora fugacemente, un protagonista nuovo: l’uomo, la cui prima manifestazione è il breve emergere di voci di bambini che anticipano il tema principale della sequenza, ovvero l’erotismo, mostrato prima in varie specie animali per concentrarsi infine sul rapporto erotico fra due giovani umani, immersi anch’essi in un contesto totalmente naturale.

Sequenza dal film Il Pianeta azzurro di Franco Piavoli
Siamo tornati a un ordine polifonico (fig. 19); un nuovo ordine in cui, come accadrà più avanti, nelle sequenze della notte, lo spazio delle altezze risulta diviso in due zone nettamente distinte: quella dei suoni umani in basso e quella del mondo non umano in alto con funzione di tenor, con la zona intermedia punteggiata da ulteriori interventi di voci “sole”, sempre canti di uccelli, che incidono lo sfondo. Sono suoni che appaiono come una sorta di mediazione fra i due estremi, come, in fig. 20, la voce di un uccello in glissando (l’unica con questa caratteristica) che accompagna il momento dell’orgasmo.

SEZIONE 3. IL MONDO UMANO
La presenza umana, introdotta in levità nell’ultima sequenza, irrompe adesso in modo esclusivo e in una delle sue forme più invasive, quella del lavoro meccanizzato. Al mutamento tematico corrisponde un nuovo mutamento di paesaggio sonoro, dominato ora dai rumori delle macchine agricole industriali che occupano interamente lo spazio acustico. Il suono qui segue l’immagine non solo perché la fonte è in campo, ma spesso anche con riferimento agli stacchi fra le inquadrature visive che segnano simultaneamente un mutamento nel suono stesso. Si tratta comunque di varianti di un unico suono, tanto che la caratteristica dominante del paesaggio sonoro di questa sequenza è, insieme all’invasività, la monotonia. Questa è la parte del film in cui Piavoli sembra più avvicinarsi a un uso convenzionale del suono; anche in questo caso tuttavia non viene meno in esso la funzione di definire un preciso paesaggio sonoro, e dunque di essere portatore di senso.
Sul finire del giorno, ridotto il rumore delle macchine agricole a un tenue suono punteggiato, ritorna, sia pure in tono minore, la molteplicità acustica della sezione precedente, ma più rarefatta e pressoché totalmente monodica. È una sorta di breve interludio (un minuto appena) tra il frastuono delle attività umane diurne e la rarefazione della notte, in cui si riapre gradualmente lo spazio ai suoni naturali, qui quelli domestici, e dunque ancora legati al mondo umano, degli animali da cortile, che evocano il coesistere con l’industrializzazione di un più arcaico mondo contadino il cui essere situato proprio qui, sul confine della notte, allude verosimilmente alla sua progressiva estinzione.
SEZIONE 4. LA NOTTE
Siamo giunti sulla soglia della notte, cuore del film, costruita come un contrappunto fra il mondo umano e nuovamente la natura extraumana che nella componente visiva si apre qui perfino verso una dimensione cosmica.
La sequenza iniziale, il tramonto, (fig. 21) dapprima riprende la rarefazione che aveva concluso la sezione precedente con una successione monodica di voci di animali in gran parte selvatici, dominati dalla voce ripetuta del cuculo che imprime una cadenza lenta e isoritmica. E riappare anche, fra un suono e l’altro, il silenzio già udito sulle immagini della terra ghiacciata, come a suggerire l’idea di un nuovo inizio. Ma la levità di questo preludio viene cancellata da un suono che non potrebbe venire da un mondo più distante: il rombo in crescendo e poi in diminuendo di un aereo a reazione.

Le tre sequenze successive sviluppano questo contrasto trasferendolo nella dimensione delle altezze, che vede nuovamente il procedere parallelo di suoni non umani nella zona alta dello spettro e di suoni umani in quella bassa, separati da una zona intermedia che progressivamente si svuota e si dilata sempre più con l’avanzare della notte.
Nella prima di tali sequenze (fig. 22) questi suoni sono rispettivamente un fitto gracidio e un rumore di motori (di macchine agricole, poi di motociclette, che si muovono adesso nel buio) situato il primo nella zona dei toni medi, confinato il secondo nella zona dei toni più gravi. Dopo una fase in cui assistiamo a un crescere di densità dei suoni naturali, l’entrata in scena dei rumori meccanici segna un’inversione di tendenza ovvero un progressivo amplificarsi dell’intensità di questi ultimi e un decrescere dei primi che scompaiono totalmente per riapparire solo frammentariamente, ridotti a voce sola, sovrastati dai ben più intensi e aggressivi rumori delle macchine da cui sono infine totalmente sopraffatti. La sequenza si conclude con una breve inquadratura, simultaneamente sonora e visiva, in cui udiamo e vediamo delle mosche ronzare attorno a una lampadina elettrica, metafora del progressivo crescere della dominanza dell’umano sul non umano che abbiamo udito in precedenza (le mosche, entità non umane, soggiogate dalla luce della lampadina, prodotto umano).

La sequenza successiva (fig. 23) radicalizza la separazione umano – non umano espandendo il vuoto, inteso come spazio delle altezze, fra i due mondi: i suoni umani (voci incomprensibili) ancora una volta nella zona dei toni più gravi e in alto quelli naturali, dominati da un ancor debole e lontano frinire di grilli, ideale espressione questi ultimi anche del cosmo, che entra in scena nella componente visiva. Coincidente visivamente con i due piani sequenza del dopo cena nella cascina e del lento mutare della luce lunare su di essa, mostra, al contrario della precedente, il progressivo ritrarsi del mondo umano di fronte all’avanzare della notte e parallelamente il progressivo intensificarsi dei suoni naturali nella lunga fase di compenetrazione con l’inizio della sequenza successiva in cui domina adesso in primo piano, il frinire dei grilli visibile, in alto, nella parte destra di fig. 23.

Compenetrazione a proposito della quale notiamo il fatto che il suono assume la struttura che sarà tipica della sequenza successiva quando ancora il tema visivo è quello della notte cosmica (la Luna sulla cascina). A questo proposito, il lungo persistere dell’immagine “cosmica” della Luna dopo l’ingresso del frinire dei grilli dà a questi il ruolo di allusione non solo al mondo non umano, che qui essi sono chiamati a rappresentare durante tutto lo scorrere della parte più profonda della notte, ma anche a una dimensione più vasta, cosmica appunto. Perfino quando, nell’ultima sequenza notturna, le immagini si concentreranno negli interni delle abitazioni umane, la costante presenza di questo suono in primo piano, richiamerà la presenza del mondo esterno nella sua totalità.

L’ultima sequenza notturna (fig. 24), eccezion fatta per il punto di frattura costituito dal rombo di un reattore che incombe sul sonno degli uomini invadendo per lunghi istanti tutto lo spettro sonoro, mostra una totale continuità strutturale con la conclusione della sequenza precedente, tanto che le due sequenze sono in realtà, come già detto, compenetrate per una durata di quasi mezzo minuto. Le due zone dello spettro, quella umana e quella “cosmica”, già ben distanziate, lo diventano ancora di più parallelamente a un netto aumento dell’intensità e della densità del frinire, e a un rarefarsi dei suoni umani. È adesso che comincia la notte per gli uomini. Ma nonostante le immagini ci conducano per la prima volta all’interno delle abitazioni umane, non udiamo nei suoni quasi altro mutamento che nella parte bassa dello spettro dove, un’inquadratura sonora dopo l’altra, assistiamo a un succedersi, sempre monodico e strettamente diegetico, di voci e suoni umani connessi al sonno o alla veglia notturna mentre nella parte alta continua immutato e senza soluzione di continuità il frinire, modulato in varie gradazioni di intensità e densità.

Ancora a proposito dei suoni di origine umana, meccanici o vocali che siano, notiamo che, benché la massa sonora sia concentrata nella parte bassa dello spettro, essi si estendono sempre fino alle zone più alte. C’è dunque una sottile componente di invasività della presenza umana che permane anche nel corso della notte, una componente inespressa in maniera esplicita ma probabilmente percepibile in forma subliminale.
Giunge infine l’alba (fig. 25) con la voce ritmata e ancora notturna dell’assiolo, cui si sovrappone un cinguettio solo che si accentua sia per intensità che per un maggior grado di articolazione dei “vocalizzi” fino a sfociare, scomparsa la voce dell’assiolo, in un cinguettio corale continuo che sposta totalmente la massa sonora nella zona medio-alta dello spettro; un crescendo finale in altezza, peculiare di questa sezione, che accompagna il sopraggiungere della nuova alba.

Figura 25 – La notte si dissolve nell’alba
SEZIONE 5. LA FINE DI UN CICLO
Il passaggio dalla quarta sezione alla quinta (fig. 26) non potrebbe essere più brusco: dalla luce al buio nelle immagini, dalle zone più alte dello spettro alle più basse nei suoni. Dopo l’alba sulla natura, la prima sequenza del nuovo giorno ci riconduce al mondo del lavoro umano precipitando nell’interno di una stalla. I suoni, preceduti dall’aprirsi imperioso di una saracinesca che fa emergere l’ambiente dall’oscurità totale, sono quelli, strettamente diegetici, delle voci dei bovini che vi sono rinchiusi e del loro tramestio. Una massa sonora piuttosto amorfa concentrata nella zona più grave dello spettro, ma le cui propaggini si estendono, come le voci umane, per una consistente parte della sua ampiezza. È un inizio cupo, che evoca l’idea di un mondo sotterraneo e senza luce, quasi un presagio della fine ormai non lontana.

La successiva sequenza vede uno dei pochi momenti in cui la voce umana, un giornale radio la cui fonte non viene mai inquadrata, è perfettamente intellegibile anche nel suo valore denotativo. E udiamo cronache di conflitti sociali e del mondo della finanza sovrapposte a ben più quiete sonorità (e paesaggi) del mondo rurale, dominate da lenti rintocchi di campane. Tutto ciò viene sostituito da voci gioiose di bambini che spostano brevemente la massa sonora verso l’alto giungendo fino alle zone più acute, ma (e questo è un momento in cui l’immagine va presa obbligatoriamente in considerazione perché interviene a modificare il senso del suono) di essi vediamo solo le ombre, primo segno dell’uscita di scena dell’uomo.
Sequenza dal film Il Pianeta azzurro di Franco Piavoli

Un ritorno al tema del rombo dell’aereo, e dunque una ricaduta nelle zone più gravi dello spettro, prelude al ritorno del tema narrativo della violenza, questa volta nell’uomo. La luminosità dei giochi infantili appare dunque preceduta e seguita nei suoni, accompagnata nelle immagini, dal buio, rispettivamente dei toni gravi e delle ombre; e appare fragile, effimera. Al rombo dell’aereo si sovrappongono la voce sola di un allocco poi, ancora lontane, voci umane concitate, sempre sui toni gravi. Assistiamo al litigio fra due contadini per una banale questione di confine. Le voci balzano in primo piano invadendo tutto lo spettro sonoro, ed è il secondo momento in cui la voce umana viene usata anche in senso denotativo. Nelle voci dei contadini, benché prevalga la componente di urlo scomposto, sono a tratti riconoscibili insulti, minacce, imprecazioni mentre su di esse emerge, chiaramente intellegibile, la voce del geometra che per due volte ripete, inascoltato, il risultato delle sue misure. Nessun altro suono è presente. È il contraltare umano alla violenza della natura, che avevamo visto e udito nella sequenza della ragnatela, situata simmetricamente rispetto a questa nell’insieme delle sezioni dalla seconda alla quinta, ovvero rispetto al momento dell’apparizione della vita animale. E risulta subito evidente una grande differenza fra i due paesaggi sonori. Nella sequenza della ragnatela abbiamo una grande ricchezza di diversità sonora, più alta perfino di quella della sequenza che la precede (il cui soggetto, ricordiamolo, era l’armonioso coesistere della molteplicità della vita), mentre in questa non vi è altro suono che le voci umane. Abbiamo dunque un estremo grado di presenza partecipe dell’intero mondo vivente non umano di fronte al manifestarsi della morte violenta al suo interno (tutti i suoni sono voci di esseri viventi) mentre l’esplodere dell’aggressività nell’uomo avviene in uno stato di assoluto isolamento.
Le voci, tenute costantemente in primo piano per tutta la durata della sequenza, si fanno ora lontane mentre la macchina da presa abbandona gli uomini sempre più infervorati e si concentra sulla vegetazione autunnale, su cui comincia a cadere la pioggia. Parallelamente all’intensificarsi, forse al degenerare del litigio, il volume sonoro delle voci diminuisce mentre aumenta quello, diegetico e amorfo, della pioggia, fino a sovrastarle totalmente. E riappare, questa volta in primo piano sonoro, la voce dell’allocco, una voce che a orecchie umane suona mesta, come il paesaggio che stiamo guardando. È pertinente notare a questo punto che l’allocco è un rapace notturno mentre la scena che stiamo guardando è diurna; il suono che stiamo udendo dunque è narrativamente fuori luogo, come la libellula che “urla” con la voce del pavone. Questo uso di suoni fuori contesto dunque ha un ruolo che possiamo assimilare all’extradiegetico, quello cioè di generare una stimmung che orienti in una certa direzione l’espressività dell’insieme immagine-suono. Ed è anche pertinente ricordare che abbiamo già udito in precedenza la voce dell’allocco, proprio al termine dell’altra sequenza che ha come tema la violenza, la libellula nella ragnatela, e ancora una volta durante il tramonto, subito prima del rombo del reattore, presenza sonora cupa e incombente, evocatrice di minaccia, e che questi sono gli unici tre momenti del film in cui udiamo l’allocco, la cui voce pertanto svolge anche un ruolo di leitmotiv connesso a questo tema.
Il suono amorfo della pioggia aumenta sempre più d’intensità e diviene ben presto l’unico. E tale rimane per il resto della sequenza, mutando di timbro quando si passa dalla vegetazione a una tettoia metallica e decrescendo progressivamente di intensità fino a evolvere in un fitto, poi rado gocciolio e infine verso il silenzio che darà inizio alla sequenza successiva.
Un silenzio solcato da un sibilo sommesso (fig. 27); un silenzio che non è più l’effimero intervallo di sospensione fra un prima e un dopo che interviene nei momenti di transizione fra uno stato e l’altro, come durante il tramonto, ma diventa una presenza compatta e irreversibile. Singole voci di esseri viventi, solitarie e lontane, lo incidono a intervalli sempre più ampi e ritraendosi sempre di più verso le zone basse dello spettro. Mentre le immagini si irrigidiscono in un ritorno del gelo invernale e i colori si riducono a un succedersi di tonalità di grigio e azzurro crepuscolare, appare così una struttura sonora nuova per le voci degli esseri viventi: il decrescendo. Prima di adesso l’abbiamo incontrata solo per i suoni meccanici come il rombo dell’aereo, o per quelli di fenomeni naturali come il tuono o la pioggia. Ma il fenomeno della vita animale aveva fino ad ora conosciuto solo le forme del crescendo e della stabilità. Non adesso che il ciclo della vita è prossimo a concludersi.


Non è tuttavia il silenzio che chiude Il Pianeta azzurro. Mentre nelle immagini il gelo si scioglie in dense nebbie che velano il paesaggio lasciando spazio a un sommesso accenno al ritorno dei colori, dal silenzio emerge (fig. 27) la musica del Sanctus dalla Missa Ercole dux ferraris di Josquin Desprez. Come abbiamo visto ci sono solo due momenti in cui Piavoli usa la musica ne Il Pianeta azzurro, essendo tutto il resto del materiale sonoro costituito da suoni registrati sul campo. Ma il brano di Desprez ha qui un senso molto diverso da quello che ha avuto all’inizio il Continuo di Maderna, che aveva anch’esso, sia pur fittiziamente, una funzione di suono naturale, come espressione, ricordiamolo, del caos primordiale, del suono primigenio, facente dunque parte anch’esso di quel molteplice risuonare del mondo che è il paesaggio sonoro del film. La musica di Desprez al contrario è qualcosa che proviene dall’esterno, è strettamente extradiegetica. Come le immagini del mondo che riemerge dalla nebbia, impregnate di nuova, mesta bellezza, essa trasfigura la desolazione in composta, elegiaca solennità esprimendo con ciò una presa di posizione poetica, se non vogliamo dire etica, dell’autore. Ed è infine dalla musica di Desprez che emerge, come Epilogo (fig. 27), un nuovo suono di acqua corrente, quell’acqua da cui tutto ha avuto e avrà ancora inizio.
NOTE
1 Dall’intervista allegata all’edizione italiana in DVD, Edizioni L’Immagine.
2 Raymond Murray Schafer, The tuning of world, Knopf, New York, 1977. Ed. italiana: Il paesaggio sonoro, Edizioni Ricordi Lim, Milano, 2022.
3 Coerentemente con gli intenti più volte espressi da Piavoli dobbiamo intendere come tale anche la voce umana usata in senso non denotativo.