Cara Laura1
ti scrivo dal treno, ho passato il Natale in Italia con la mia famiglia e ora sto tornando a casa, a Lucerna. Ti avevo promesso che ti avrei raccontato del mio ultimo libro, ed eccomi qui. Parte di questo testo coincide con l’introduzione del libro ma la versione originale è in inglese.
Mi piace iniziare dicendo che If I was born Rosa, cultivating care as an anti-capitalist strategy, è il mio primo libro di cucina, non – solo per cucinare – infatti non può essere inteso come un classico ricettario, ma come una raccolta di scambi e conoscenze. Contiene i miei appunti e le mie riflessioni sulla cucina come luogo di esperienza dei beni comuni e vuole essere un manuale di pratiche del prendersi cura.
In questo libro d’artista ho raccolto immagini, riflessioni, disegni e ricette relative alla ricerca condotta durante i miei anni di studio nell’ambito del programma di Master of Arts presso l’Università di Scienze e Arti Applicate di Lucerna, in Svizzera. Può essere quindi inteso come un archivio delle azioni, degli eventi, del lavoro e degli esperimenti condotti tra la mia cucina privata, la cucina presente nel dipartimento del programma del Master e il progetto Orto 745, un orto urbano creato in collaborazione con l’artista australiana Hannah Beilharz, anch’esso collocato nel campus dell’Università.
La cucina e l’orto sono, per me, spazi strettamente interconnessi e di fondamentale importanza culturale, in quanto luoghi in cui si possono/devono trasmettere competenze, conoscenze ed esperienze vissute. Le attività in cucina, così come nell’orto, che sono sempre state sottovalutate o addirittura ignorate nella società capitalistica, non sono limitate a un periodo o a un tempo specifico, ma implicano un lavoro, una pianificazione e un impegno continui durante tutto l’anno. Integrando queste attività nella mia pratica artistica, ho voluto dare una risposta all’urgente necessità sociale di prendersi cura, degli altri, del mondo che ci circonda, della natura, di noi stessi. Promuovere e coltivare una filosofia rivolta al prendersi cura è una strategia che può essere collegata alla critica femminista del lavoro riproduttivo, sistematicamente svalutato nel capitalismo. In effetti, non mi sono posta simbolicamente nella cucina o nell’orto, ma ho pulito, riordinato, seminato, coltivato… ho messo le mani nella terra.

Per farti capire meglio la necessità di questo libro devo fare un passo indietro, al momento in cui ho preso la decisione di lasciare l’Italia per trasferirmi in Svizzera e vivere insieme al mio compagno. Mesi prima del mio trasferimento, avvenuto nell’estate 2021, ho iniziato un processo di decluttering che mi ha portato a buttare, regalare e vendere oggetti che non ritenevo più importanti. In poco tempo avevo liberato lo studio e la casa e mi sentivo pronta ad accogliere la mia nuova vita e i nuovi oggetti che avrei incontrato, ma, pochi giorni prima del trasloco definitivo, mia madre mi ha consegnato alcune scatole contenenti varie stoviglie, un set di ventiquattro pentole e padelle, uno di piatti e bicchieri per dodici persone, cinque set da bagno e dieci diversi set di lenzuola matrimoniali. Era la dote che mia nonna aveva amorevolmente confezionato per me trent’anni prima, nella speranza che diventassi moglie e madre.
Ricevere questo importante dono ha creato in me una serie di emozioni contrastanti: il profondo amore e il senso di gratitudine verso mia nonna si scontravano con il rifiuto misto a orgoglio di ciò che significa avere una dote.
Era questo il mio valore come donna? Quali erano le aspettative della mia famiglia nei miei confronti?

Mia nonna Rosa, nata nel 1921, era una di quelle donne vissute nel tardo periodo fascista, in cui il regime promuoveva la vita in campagna incoraggiandole ad assumere il ruolo di contadine. Le casalinghe di campagna non solo preparavano i pasti, pulivano la casa e il bucato, cucivano e rammendavano, ma si occupavano anche degli animali domestici e dei bachi da seta, coltivavano l’orto e producevano piccoli oggetti come i cesti da mercato. Ricordo che una mattina di Natale, mentre preparava i maccheroni per il pranzo, le chiesi perché avesse sposato mio nonno e la sua risposta fu ferma ma prevedibile: «Perché era un buon lavoratore». E quando le chiesi quali fossero i requisiti per essere una buona moglie, rispose che una buona moglie «deve saper fare i lavori di casa».
L’espressione sul volto di mia nonna era dura come quella di Martha Rosler in Semiotic of the Kitchen, ma con la differenza che mia nonna aveva assunto il suo ruolo di casalinga (non pagato) con dedizione, senza mostrare frustrazione, senza contemplare la possibilità di una vita diversa. Anche perché la possibilità di fare un altro lavoro, essendo nata donna, le sarebbe stata comunque negata.
Ma il senso di frustrazione era chiaramente visibile nella generazione successiva, negli occhi di mia madre, la quale, a differenza di Rosa, ha sempre avuto una grande passione per la cucina, probabilmente perché cucinare e organizzare grandi pasti era per lei un modo di socializzare, di aprirsi al mondo esterno, di stabilire contatti, di stringere nuove relazioni. Mia madre, a differenza di mia nonna, il lavoro non retribuito di madre e casalinga non lo voleva ma le fu imposto in quanto mio padre era un carabiniere. A mia madre non fu concesso di lavorare fino al 2001, all’età di 40 anni. Un anno prima della morte di mio padre (giusto in tempo, verrebbe da dire).
Per non cadere nel senso di oppressione vissuto da mia madre in casa e per riscattare l’isolamento subito dalla generazione precedente, ho deciso di vivere lo spazio domestico come un ambiente aperto, un luogo di scambio, un laboratorio in cui sperimentare incontri, soluzioni e fallimenti. Scegliendo la cucina, sia nel contesto privato che in quello pubblico, come terreno per risolvere questo conflitto interiore. Ho invitato a casa persone appena conosciute o estranee preparando per loro cene e aperitivi, utilizzando la dote, ricevuta da mia nonna, tutti i giorni.

In questi anni di ricerca ho approfondito le mie conoscenze nel campo dell’arte come questione sociale, trovando inspirazione nella pratica partecipativa di Rirkrit Tiravanija, negli happening di artisti Fluxus come Alison Knowles, nell’attivismo delle opere di Martha Rosler e di collettivi come Prinzessinnengärten Berlin, AAA Ecobox Paris, Inland. Fondamentali per il mio approccio e il mio modo di pensare sono i testi di Silvia Federici e Nicole Cox, Counter-Planning from the Kitchen, George Caffentzis e Silvia Federici Commons against and beyond capitalism, Donna Haraway Staying with the Trouble, Making Kin in the Chthulucene, The care collective The Care Manifesto: The Politics of Interdependence, Bruno Latour What Is to Be Done? Political Ecology!
Il libro d’artista If I was Born Rosa, non è solo la mia tesi di Master ma è un libro il cui focus è sul lavoro e sulla pratica in quanto la mia pratica artistica si basa su azioni, “partiture” che trovano il loro punto di partenza nel mio vivere la vita quotidiana come artista.


Se fossi nata Rosa? è la domanda che mi ha accompagnata in questi anni e che può avere diversi livelli di lettura: e se fossi stata come mia nonna? Se fossi nata Rosa e quindi avessi aderito al ruolo di donna/casalinga/madre che riempie le aspettative della società strettamente patriarcale e maschilista in cui non solo mia nonna e mia madre, ma anche io sono nata e cresciuta?
Prendendomi cura di una cucina condivisa e di un orto pubblico, posso dire di aver in qualche modo assunto il ruolo di nonna Rosa, di aver utilizzato l’eredità delle conoscenze acquisite da mia madre e da mia nonna ma di averlo fatto al di fuori della cerchia familiare, estendendo il significato stesso di famiglia, riconoscendomi come essere interdipendente ad altre forme di vita, umane e non umane.


Non è stato sempre facile e senza fatica, in quanto entrambi questi luoghi si trovano all’interno di un’istituzione e implicano continui scambi, discussioni, importanti mediazioni e spesso compromessi. Inoltre, trovo importante specificare che il lavoro che ho svolto sia nella cucina del Master sia in Orto 745 è stato un lavoro ufficialmente riconosciuto e retribuito.
Questi anni di ricerca mi hanno permesso di mettere in discussione i confini tra lavoro retribuito, lavoro domestico e il prendersi cura (non retribuito). Il mio libro non può quindi essere letto solo come un ricettario ma vuole essere un punto di riflessione per una prospettiva sull’economia post-capitalista. Un’economia in cui il lavoro e il prendersi cura vengono riconosciuti di pari importanza e pari livello.
NOTE
1 L’artista scrive il suo testo sotto forma di lettera inviata a Laura Davì, curatrice di questa sezione della rivista.
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Il sito di Daniela Ardiri
