Un dialogo con Francesca Loprieno
Da oltre un anno sto viaggiando in un territorio incognito – mi sento al centro di una di quelle scritte che si trovavano sulle cartografie antiche, hic sunt dracones, terra incognita. Cerco sempre isole, luoghi rifugio, zone protette – dall’acqua, possibilmente, anche se acqua metaforica – e intanto provo a decifrare – mentre esploro con molta più attenzione di prima – questo Pianeta Terra. Il mio prossimo viaggio è già in corso, ed è un viaggio che ci riguarda tutti, un viaggio di maggiore consapevolezza verso gli scenari futuri.
Un anno fa, in piena pandemia, ho letto Chthulucene di Donna Haraway, un libro che mi ha illuminato rispetto a questo presente (infetto, citando l’autrice). Ci stavamo tutti confrontando da pochi giorni con il primo lockdown, qualcosa che non avevamo ancora mai vissuto, mai immaginato. Ricordo il terrore, quanto quella situazione mi ha bloccata, o forse anestetizzata. In un mondo (dell’arte, ma non solo) che parlava di tutto quel tempo regalato, da sfruttare, io di tempo ne ho perso moltissimo – stando ferma. A differenza dei più, non ho creato un bel niente. Ho letto a stento, auto-costretta, perdendo forze a ogni pagina. Ho letto molto, sì, ma non quanto avrei potuto, conoscendo i miei ritmi. Nemmeno una fotografia. Macchina fotografica ferma lì a guardarmi. Alcune fotografie con il cellulare – come se solo questo strumento, che oramai è quasi una nostra estensione, potesse registrare quei momenti di chiusura esistenziale ed emotiva oltre che fisica. Ho fotografato molti schermi. D’altronde non vedevamo altro – e non vediamo altro da più di un anno.
La fotografia mi serve per pensare, per mettere in chiaro i pensieri. Come lo scrivere. Per questo ti ringrazio per questo carteggio (e credo sia lo stesso per te, per il tuo lavoro, mi sembra che sia comune questo modo di pensare-con-l’-immagine).
Forse tutto quello che faccio ha a che vedere con ciò che non possiamo trovare nella realtà, almeno non se la guardiamo superficialmente. Il mio guardare è un lavoro di scavo. E quello che offro è tutto da decifrare. Sono una grande sostenitrice della fruizione senza condizionamenti, della “non interpretazione necessaria delle cose” appunto. Credo anch’io che l’arte sia un’esperienza da vivere attraverso lo sguardo, prima che attraverso lo studio, gli approfondimenti, le letture – che forse anche servono, ma ad altro. È una cosa che amo sperimentare in prima persona: entrare in una mostra e lasciarmi guidare dalle sensazioni, senza leggere fogli di sala, didascalie. D’altronde la cosa più bella è leggere del mio lavoro nei pensieri degli altri, come in questo tuo testo.
Tornando a Susan Sontag, nell’ultimo anno ho letto un paio di testi: diari, saggi. L’ultimo è Malattia come metafora (Edizioni Nottetempo, 2020) testo che c’entra moltissimo con il mio attuale viaggio. Incredibile come Susan Sontag abbia ancora molto da dirci, come sia attuale, quanto ancora abbiamo da imparare grazie alle sue riflessioni. È un saggio del 1978, parla a suo modo di paesaggio e di metafore, di trasfigurazione dei modi che troviamo per rendere qualcosa comprensibile. Assurdo come sia difficile dare il nome esatto alle cose. È forse colpa di tutte le immagini da cui siamo bombardati? Vedi, l’ho fatto io stessa: ho usato il verbo bombardare, come se la sovrapproduzione di immagini avesse a che fare col bellicoso. Non è assurdo, e a tratti patetico?
Riferendoti a Disarmonie – Esercizi di interruzione mi chiedi perché mi do delle regole.
Credo sia una naturale evoluzione della mia formazione. Ho studiato architettura e in architettura i vincoli sono il punto di partenza del progetto. Conoscerli e rispettarli fa sì che il progetto funzioni. Ti garantisce di non perderti. Credo che tutto il mio lavoro sia intriso della mia formazione da architetto. Oltre allo sguardo e al darmi regole, o vincoli, quando non ne ho, ho tenuto con me anche il metodo. Parto sempre dall’osservazione del territorio, poi lo studio, approfondisco con logica interdisciplinare. Non mi spaventa, anzi mi affascina, scardinare un luogo, capire come e cosa lo hanno portato all’oggi. La cartografia, la morfologia, la geologia, ma anche la biologia, le scienze naturali e l’archeologia, l’antropologia, l’alchimia, l’astrologia. Capire i meccanismi, le dinamiche. Credo aiuti a non perdersi, a creare legami e connessioni nel tempo e nello spazio. Faccio lo stesso con le persone, faccio lo stesso con la vita.
Scardino. Per rimanere ancorata.
Una volta una cara amica, e amata poetessa, Martina Germani Riccardi, mi ha scritto “il tuo talento è riflettere, e far parlare una terra”. Mi è sembrato una sorta di statement. Incredibile come servano sempre gli altri per fare luce sul proprio da farsi. Così anche in Lessinia tutto quello che ho fatto è stato riflettere, su delle sensazioni e su delle piccole scoperte. I tempi geologici mi affascinano tantissimo, le ere come le stagioni. Negli ultimi anni si è insediato fortissimo in me un bisogno di connessione, con il Mondo come con l’altro. Mi sforzo di essere empatica nei confronti di tutto, o forse non posso farne a meno. Sentire il mondo, l’altro. Ascoltare. Così si impara a nuotare senz’acqua.
Mentre scrivo mi vengono in mente varie cose, tra cui una: il mio maestro, Antonio Biasiucci, mi ha insegnato che nessuno si salva da solo. L’ha imparato a sua volta dal suo, di maestro, Antonio Neiwiller. Ed ecco che la connessione con tutto avviene ancora una volta attraverso le parole, la poesia:
«È tempo di mettersi in ascolto.
È tempo di fare silenzio dentro di sé.
È tempo di essere mobili e leggeri,
di alleggerirsi per mettersi in cammino.
È tempo di convivere con le macerie e l’orrore, per trovare un senso.
Tra non molto, anche i mediocri lo diranno. Ma io parlo di strade più impervie,
di impegni più rischiosi,
di atti meditati in solitudine.
L’unica morale possibile
è quella che puoi trovare, giorno per giorno, nel tuo luogo aperto-appartato.
Che senso ha se tu solo ti salvi. Bisogna poter contemplare,
ma essere anche in viaggio.
Bisogna essere attenti,
mobili,
spregiudicati e ispirati.
Un nomadismo,
una condizione, un’avventura,
un processo di liberazione,
una fatica,
un dolore,
per comunicare tra le macerie.
Bisogna usare tutti i mezzi disponibili,
per trovare la morale profonda
della propria arte.
Luoghi visibili
e luoghi invisibili,
luoghi reali
e luoghi immaginari
popoleranno il nostro cammino.
Ma la merce è merce,
e la sua legge sarà
sempre pronta a cancellare
il lavoro di chi ha trovato radici e
guarda lontano.
Il passato e il futuro
non esistono nell’eterno presente
del consumo.
Questo è uno degli orrori,
con il quale da tempo conviviamo
e al quale non abbiamo ancora
dato una risposta adeguata.
Bisogna liberarsi dall’oppressione
e riconciliarsi con il mistero.
Due sono le strade da percorrere,
due sono le forze da far coesistere.
La politica da sola è cieca.
Il mistero, che è muto,
da solo diventa sordo.
Un’arte clandestina
per mantenersi aperti,
essere in viaggio ma
lasciare tracce,
edificare luoghi,
unirsi a viaggiatori inquieti.
E se a qualcuno verrà in mente,
un giorno, di fare la mappa
di questo itinerario,
di ripercorrere i luoghi,
di esaminare le tracce,
mi auguro che sarà solo
per trovare un nuovo inizio.
È tempo che esca dal tempo astratto
del mercato, per ricostruire il tempo umano dell’espressione necessaria.
Bisogna inventare.
Una stalla può diventare
un tempio e restare magnificamente una stalla. Né un Dio </em
né un’idea,
potranno salvarci
ma solo una relazione vitale.
Ci vuole
un altro sguardo
per dare senso a ciò
che barbaramente muore ogni giorno omologandosi.
È come dice un maestro: “tutto ricordare e tutto dimenticare”».
(Antonio Neiwiller, 1983)
Questa connessione con il Mondo e con l’altro non è solo teorica. È una connessione reale, fisica, materiale come la mia e la tua fotografia.
E lo spazio è già finito. Non mi resta che augurarti una buona esplorazione degli abissi.