Eccoci qui, dopo decenni, a parlare ancora dei distinguo tra una fotografia significativa e una fotografia qualsiasi. Da più parti spesso ci si chiede se il fotografo è un artista oppure no. Che differenza c’è tra un’immagine pubblicata su Flickr e Instagram e un’immagine di importanza culturale? Sono domande, ormai, non solo retoriche ma, direi, banali e sconcertanti. Per chiarire questioni simili, si devono approfondire i significati reali delle parole che utilizziamo per parlare della nostra cultura: arte, artista, fotografo, autore, creativo, designer eccetera.
Lasciatemi dire: tutta la questione è una diatriba inutile quanto stupida nella sua pretesa d’essere interessante. In realtà, è come se ognuno cercasse di denigrare il lavoro di alcuni oppure elevare quello di pochi eletti rispetto a ciò che potrebbe fare qualsiasi comune mortale. In altre parole, è un bel pasticcio camuffato da questione di importanza culturale: un discorso degno di una rivista di gossip. Ma allora? Perché ne parlo ancora?
Confesso che mi ritrovo a parlarne perché senza idee chiare su parole come arte, cultura, fotografia d’autore e simili, si entra in un mondo che potremmo paragonare a quello dell’attuale informazione, un mondo parallelo, dove ognuno ha la sua verità e nessuno ha ragione, dove tutto vale e chiunque può fare arte (anche con il proprio smart phone) mentre al contempo altri, che hanno in mano strumenti di comunicazione di massa, si cimentano in distinguo tra immagini di valore e immagini irrilevanti. Contemporaneamente, le tradizioni artistiche vengono sbeffeggiate dagli usi e dai consumi divoranti della nostra cultura consumistica. Se vogliamo, in questo discorso, possiamo far entrare anche l’ideologia: il capitalismo classico (per i nostalgici marxisti) o il capitalismo della sorveglianza alla Soshanna Zubhoff per i più aggiornati. Permettetemi però di affermare che siamo comunque e sempre nella sfera di un gossip ideologico rivestito di una qualche presunta valenza intellettuale.
Mi odiate, lo so. Vi dico però che se non accettiamo nemmeno le antiche sacre scritture come verità incondizionata, perché non possiamo discutere il valore dell’immagine con lo stesso approccio ermeneutico e antropologico?
Qualche anno fa, un blogger americano molto conosciuto nei contesti delle discussioni sulla fotografia, Joerg Colberg, scrisse un articolo intitolato “Is the Internet Killing Socially Awkward Artists?”. Già il titolo è un volo pindarico. Nello stesso periodo un altro articolo, sempre di un blogger americano, Colin Pantall, titolava significativamente “Art that sells is the destructive 1%” . Si tratta di esempi provocatori che – prendendo spunto dal quesito “Mi stavo chiedendo se le gallerie d’arte, i blog e le riviste presto si riempiranno solo di artisti socialmente estroversi e orientati al marketing che partecipano anche a concorsi” posto da Aaron Hobson, fotografo statunitense – riflettono su chi può essere considerato fotografo e sui meccanismi che stabiliscono chi debba emergere e chi no. In realtà entrambi stanno cercando di argomentare una appartenenza a un valore storico riconosciuto, come quello dell’artista.
Alcuni ritengono “veri” fotografi solo coloro che guadagnano praticando la fotografia, come se Mario Giacomelli, per esempio, dilettante per eccellenza, fosse da considerarsi fuori dalla schiera dei fotografi veri. In fondo, è una questione di identità, di appartenenza, appunto, di stima di se stessi. Credo che tutti questi dubbi derivino dalla paura che ciò che si sta facendo non abbia un valore significativo e, di conseguenza, nemmeno l’autore ne ha. Questa è la base su cui spesso si fonda un giudizio errato come anche la paura di essere giudicati e la convinzione che il mercato, quello professionale e quello dell’arte, non sia un buon giudice rispetto alla definizione del valore di un’opera e quindi di coloro che la realizzano.
Ovviamente, la risposta a questo dubbio spesso è: sì, è vero, il mercato, i critici, le gallerie, gli storici, non rappresentano il giudizio definitivo o quello meritevole, ci sono molti altri elementi che definiscono il giudizio di questi e di altri individui che non posseggono queste “competenze”.
Quando il social network Instagram fu acquistato da Facebook mi capitò di leggere alcuni commenti piuttosto violenti di colleghi seguaci di Instagram. Le persone erano preoccupate per cosa stava diventando la fotografia o per i criteri che avrebbero definito chi avrebbe potuto diventare famoso e chi no, chi si stava solo mettendo in mostra condividendo semplici fotografie. Allora: torniamo sulla Terra. Parliamone!
Una fotografia è un’espressione visiva, come può esserlo la parola o il disegno oppure un oggetto. Che valore hanno? Hanno il valore che noi, la collettività sociale, decidiamo di dare loro. Tradizionalmente questo valore è sempre stato stabilito da un gruppo di esperti: storici della fotografia, dell’arte, del design, della letteratura, critici, amanti dell’arte ed esperti dei vari linguaggi visivi. Oltre a queste opinioni, basate su studi e tradizioni, ci sono poi tutti gli elementi della semiotica, della cultura generale, i momenti storici di riferimento e il vissuto collettivo: tutto questo portato influisce sui significati di ciò che vediamo. Tutti questi elementi contribuiscono a creare i cosiddetti valori condivisi che determinano chi può emergere e chi no.
Ovviamente si tratta di punti di vista e possono cambiare da una generazione con l’altra e persino tra persone colte diverse tra loro. Ciò che è considerata arte per una generazione – per fare un esempio concreto usare un termine come ombrello, che assume significati vari a seconda di chi lo dice, in quale contesto e perché – può diventare trash per quella successiva. E non solo: ciò che è significativo per un gruppo dominante può essere totalmente capovolto quando, per esempio, cambiano i ruoli di potere. Basti pensare alla pittura in voga alla fine dell’Ottocento e all’arte apprezzata di lì a poco (l’arco di una generazione, appunto) in seguito all’instaurarsi del regime comunista in Unione Sovietica.
Cosa ci dice tutto ciò? Che in tutti i periodi storici e in tutte le società, le “ragioni” che agiscono su una rilevazione di valore sono determinate da un costante flusso di eventi. Possiamo quindi affermare che non esiste nulla che si possa classificare come eterna bellezza o perfetta composizione, nulla che si possa definire come linguaggio o “valore universale”. Quasi tutti i significati sono culturali e appartengono alla società che riconosce in certe espressioni visive, una serie di valori e codici. Questo è ciò che crea l’identità culturale.
A questo punto ci siamo davvero. Per tornare all’immagine fotografica: tutte le questioni inerenti la validità di uno stile, di una tecnica o della capacità di utilizzare il media fotografico sono, di fatto, appelli a trovare valore in immagini in cui gli autori hanno rappresentato la propria espressività associata, a volte, al loro punto di vista su un evento.
Molte persone confondono l’arte con l’espressività. Tutti possiamo essere creativamente espressivi. Infatti ognuno lo è, a suo modo. Solo alcune persone sono però visivamente creative, altre lo sono emotivamente e altre ancora sono creative in modo più formale e strutturato. Essere creativo quindi non deve essere confuso con cosa la società ha stabilito essere “arte”. Arte, in una società, non è un valore fisso, è un valore culturale che ha a che fare con quei significati sui quali convergono le opinioni della maggior parte dei membri della società stessa e in cui ciò che per alcuni è arte per altri è irrilevante. Quella che per qualcuno è un’operazione commerciale, per altri è un’operazione artistica di merito. Questo è il banale meccanismo che disciplina l’attribuzione del valore sociale e culturale di una immagine, un meccanismo che si basa sulla percezione di se stessi. Perciò, prima di saltare sul carro della critica rivolta alla nostra società e ai suoi valori, dovremmo essere un po’ più capaci di distinguere tra valori espressi collettivamente e bisogni personali di affermazione individuale. La ricerca del proprio valore non va confusa con la definizione di quei valori culturali che magari non condividiamo. È la nostra personale interpretazione del mondo in cui viviamo che ci permette di individuare la nostra identità, tuttavia questo non necessariamente combacia con ciò che determina, per la collettività, cosa sia o non sia arte.