Nel 1790 la Critica di giudizio di Immanuel Kant definì l’esperienza estetica
in termini di gradevole, bello, sublime e buono.
A internet manca ancora una prospettiva filosofica comparabile.
Forse un sistema categorico simile potrebbe essere diviso in
immediato, sociale, attivista e liked.
(David Carrier)
Il flusso continuo di informazioni, nel sistema di comunicazione contemporaneo, crea sempre più difficoltà di comprensione nell’individuo che voglia distinguere un prodotto tra commerciale e culturale. Almeno così sembrerebbe. Questo tipo di ambiguità nell’attribuire un significato a quello che vediamo, ha tormentato generazioni di artisti, critici, storici e intellettuali. Movimenti artistici sono succeduti a movimenti di ribellione culturale, giudizi di stile a critiche generazionali e giocose prese in giro. La storia dell’arte è colma di questi conflitti perché il valore di un’opera non è mai definitivo in quanto intrinsecamente legato a giudizi storici, politici, teologici, estetici, sociali e, infine, personali.
Bisogna però riconoscere che esiste, almeno tra qualche curatore italiano, una altrettanto ambigua resistenza intellettuale nell’accettare l’assunto che tutte le manifestazioni espressive siano forme di cultura e, di conseguenza espressioni dell’arte. Un video, o un breve film, esprime e comunica tutta una serie di valori intrinseci sia nel linguaggio utilizzato, quello dell’immagine, sia nella testa di chi lo ha creato. Anche il Fashion Film non si sottrae a questo processo in quanto deriva dalla storia del cinema e utilizza il linguaggio cinematografico per esprimersi. Eppure qualcuno crede che il Fashion Film, come la fotografia di moda, sia un mero prodotto commerciale, come se l’applicazione commerciale dell’immagine la escludesse a priori da considerazioni di tipo culturale o artistico. Qualcuno ha forse mai pensato di escludere Michelangelo Buonarroti della Storia dell’Arte perché ha lavorato su commissione?
Che l’uso del video abbia soppiantato quello dell’immagine fissa nel comunicare un prodotto non può sorprendere, soprattutto da quando la carta stampata ha decisamente ceduto il passo ai piccoli schermi. Questa transizione segue l’evoluzione altrettanto rapida che ha condotto le persone dall’acquisto di merci in un negozio fisico a quello in uno spazio virtuale. In questo processo rientra la trasformazione della comunicazione che utilizza sempre di più il video il quale si avvia a divenire il mezzo dominante in questo ambito e poiché tutte le azioni dell’uomo, come animale sociale, sono radicate nella comunicazione, la comunicazione può essere considerata a tutti gli effetti cultura.
Qualcuno potrebbe farmi notare che vi è una grande differenza tra cultura e arte! A questi mi sentirei di rispondere attraverso i concetti di Ananda Coomaraswamy, (1877-1947), considerato uno dei massimi esperti di arte indiana e curatore di Arte Asiatica per il Museum of Fine Arts di Boston agli inizi del XX secolo, il quale sosteneva che la differenza tra arte e cultura visiva sta esclusivamente nel come quest’ultima viene espressa. Dal flusso di cultura visiva, di ogni epoca, ciascuna società sceglie ciò che ritiene essere significativo a rappresentarla. In sintesi cultura è tutto ciò che gli uomini fanno per esprimersi, arte è la scelta tra quelle cose che possiedono il maggiore significato atto a rappresentare la cultura predominante. Secondo Coomaraswamy, dunque, non c’è distinzione tra artigianato e arte, perché l’arte non è un oggetto, ci dice piuttosto come si fanno le cose ed è questo il motivo per cui, nella lingua italiana, per esempio, si usa l’idioma “fare le cose a regola d’arte”. L’arte sta dunque nel fare le cose, non nelle cose stesse. Quindi una fotografia, un quadro, un tessuto o un pezzo di ceramica possono essere tutti oggetti d’arte. È la cultura predominante che poi decide cosa deve stare in un museo o in una galleria. Non dipende più dall’oggetto in sé, ma dal valore che la società gli attribuisce.
Stabilito questo contesto, l’unico nel quale è possibile fare delle reali valutazioni afferenti al valore di un’opera, possiamo affrontare quel mezzo di comunicazione sempre più diffuso nel mondo della moda rappresentato dal cortometraggio: il Fashion Film.
La sinergia tra moda, identità, società e media rappresenta ormai un rapporto fluido. Un elemento segue l’altro e la direzione di queste influenze si inverte spesso e volentieri. Non sembra possibile stabilire quanto la moda influisca su come ognuno di noi si percepisce o, viceversa, quanto il comportamento di ognuno influisca sulla creazione della moda stessa. È, come abbiamo detto, una questione di reciprocità.
La comunicazione, tra persone o tra aziende e consumatori, è sempre mediata. Da un primo stadio puramente linguistico, essa oggi avviene sempre di più attraverso l’utilizzo dei media. Questa transizione modifica non solo il modo in cui riceviamo l’informazione, ma anche quello con cui la creiamo. Influisce su questioni di fondo come l’epistemologia, l’ontologia e l’ermeneutica. Vale a dire su cosa pensiamo della vita, se ci sentiamo sicuri, come percepiamo e come attribuiamo i significati. Questo perché ciò che ci circonda è sempre di più una rappresentazione del mondo, dei valori e delle idee.
Quindi, come propone David Carrier nel suo testo citato all’inizio di questo articolo, se Kant oggi fosse qui con noi, quali categorie attribuirebbe all’esperienza estetica basata sulla rappresentazione? La moda è una rappresentazione e il Fashion Film, negli esempi migliori, è rappresentazione di significati. Il Fashion Film fa parte del mondo espressivo che ci circonda. Quindi, forse possiamo ipotizzare che tali categorie potrebbero essere: immediata, sociale, attivista e liked.
In questo contesto, tra semiotica e società, tra pensiero sociale e costruzione della propria identità, vorrei provare a individuare dei significati; un senso non legato al giudizio estetico dei vestiti o degli accessori, ma più profondo, culturale, che riconosco in ognuno dei video che abbiamo selezionato per parlare di questo tema. Significati espressivi e culturalmente importanti, si potrebbe dire “artistici”, che per poter essere apprezzati vanno analizzati.
Siamo nel campo del cinema, del video clip musicale, della narrativa visiva. Questa considerazione ci porta a un livello più complesso di valutazione rispetto all’immagine fissa. L’analisi qui non può riferirsi ad una sola lettura semiotica dell’immagine, ma deve prevedere una valutazione narrativa, una analisi dei codici della cinematografia, uno sguardo alle interpretazioni, insomma: per poter effettuare una valutazione significativa occorre guardare il Fashion Film come si guarda un prodotto che contiene significati sociali, economici, storici, politici e tecnologici e non solo “abiti” o “accessori”.
Iniziamo questo percorso partendo da un video di Balenciaga diretto da Quentin Deronzier, Balenciaga Clones Spring 22 Collection.
Balenciaga Clones Spring 2022, diretto da Quentin Deronzie per Balenciaga, 2021
Questo video fa molta fatica a staccarsi dal luogo e dal format classico della sfilata divenendo un tentativo poco interessante per la comunicazione non soltanto del brand in sé ma anche di una qualsivoglia intenzione di farne un contenitore di idee. Anzi, perde l’occasione per comunicarci molto più di un semplice “catalogo di abiti” come invece avviene. La clip inizia con una serie di frasi che suonano profondamente provocatorie. L’intenzione pare essere quella di farci meditare su alcuni dei cambiamenti epocali in atto. Le frasi utilizzate in apertura dovrebbero indurci a riflettere sulla realtà del tempo presente. Facciamo un esempio: una frase sullo schermo dice «Between unedited and altered, genuine and counterfeit, tangible and conceptual, fact and fiction, fake and deepfake», appare qui evidente come il concetto verta sostanzialmente sull’ambiguità tra finzione e realtà, un tema molto trattato nella contemporaneità intellettuale in riferimento sia alla cultura sia all’informazione e non solo. Si tratta di un testo già ampiamente denso che, in teoria, premette una analoga riflessione visiva altrettanto densa sulle questioni poste.
Ciò che invece ci viene proposto sono delle riprese di una collezione di moda in passarella, con un pubblico di persone in studio, evidentemente “finto”, vestite tutte allo stesso modo (omologazione impersonale). Una voce femminile fuori campo recita un testo in francese che dovrebbe essere pertinente all’idea di identità individuale e alla sua fragilità: «c’est lui pour moi, e moi pour lui dans la vie. Il me l’a dit, l’a juré pour la vie…». Sono parole tratte dal famoso brano La vie en rose, recitate in modo spersonalizzato, con una colonna sonora seriosa.
Il linguaggio visivo, invece, è relegato a un ambito quasi documentario, un contesto che potremmo definire pseudo teatrale (la passarella di per sé rappresenta un palcoscenico) in cui ci viene presentata una sfilata senza particolare narrazione e senza alcun tentativo di raccontare visivamente quanto preannunciato, se non attraverso la sfilata stessa. Assistiamo a movimenti della macchina da presa ingiustificati, accompagnati da un commento sonoro di suspence masenza aver creato alcuna aspettativa visiva o narrativa. Insomma, un vorrei ma non so come fare.
Passiamo invece ora a un video che con la sperimentazione teatrale ha molto più a che fare e per di più utilizza la danza. Si tratta Night Train, diretto da Jean-Paul Goude per la collezione uomo Fall Winter 2021 della Fashion House Yves Saint Laurent.
Night Train, diretto da Jean-Paul Goude per Yves Saint Laurent, 2021
Qui cominciamo a vedere una ricerca più creativa dove Goude, anziché impostare una narrazione, cioè una piccola storia breve, sceglie di mettere in scena la danza moderna con accenti divertenti e ironici, come in un musical.
La clip inizia con i suoni di un treno a vapore, mentre una fila senza fine di uomini (i ballerini), tutti vestiti in modo diverso (la collezione di Saint Laurent), inscenano una sorta di treno danzante mentre esplode una versione contemporanea del brano Night Train di Jimmy Forrest (1952) resa celebre ad un più vasto pubblico da James Brown nel 1961, La scena viene interrotta dal volto di un ipotetico capotreno, o arbitro, che fischia, come per dare inizio a una partita, dando il via a una serie di riprese molto efficaci dove i ballerini interpretano il ritmo del brano musicale sia in gruppo sia singolarmente.
È vero che in questo Fashion Film vediamo principalmente la danza ma la combinazione con lo sfondo neutro che soltanto in brevi momenti prende le sembianze di un paesaggio attraversato dal trenino umano, permette di osservare non solo i movimenti ma anche gli abiti indossati dai modelli/ballerini che attraverso questa modalità di espressione interpretano i desideri ritmati del pubblico più di quanto non avvenga durante una riproduzione di ambito teatrale.
Un altro esempio che vogliamo citare, anche se non è possibile farlo qui in maniera esaustiva, è quello della Fashion House americana Coach che ha addirittura creato il Coach Shanghai Show.
#CoachShanghaiShow, l’ultima stagione di Coach TV, in diretta da Shanghai, trasmesso in live streaming il 3 giugno 2021
Il Coach Shanghai Show si presenta come un programma TV, anzi un intero palinsesto, che utilizza tutti i format della televisione tradizionale per parodiare e ridicolizzare i valori dello status quo. Persino la qualità del video richiama i programmi televisivi degli anni Settanta, in bassa qualità NTSC (Standard Televisivo Terrestre Analogico). Di per sé questo, nell’ambito della moda, potrebbe essere classificato come video sperimentale anche se si rifà a noti contesti visuali tipicamente americani che strizzano l’occhio ai videoclip musicali e a tutto un retroterra visuale amatoriale. Inoltre, resta abbastanza ambigua la comprensione delle diverse immagini che lo spettatore non distingue immediatamente se appartenere a riprese televisive dell’epoca oppure se rappresentare la contemporanea assurdità del consumo.
Ma torniamo a Balenciaga e alla sua narrativa tra distopia e immaginario futuristico messa in scena per la campagna Autunno/Inverno 2021 sullo streetwear, dove la chiave della collezione si rivela nell’atto dell’abbraccio amoroso che chiude il viaggio del protagonista nel video. Ci troviamo anche qui, dinanzi a una narrativa classica il cui fulcro è la perdita della libertà e l’aumento della persecuzione in un ipotetico futuro distopico con tanto di lotta individuale per ritrovare un affetto che si colma nell’abbraccio della scena finale.
Balenciaga Fall 2021 Campaign, di Quantic Dream
con la coreografia di Ryan Heffington
La transizione tra pubblicità pura e fashion narrative ha vissuto vari momenti storici e evolutivi, a cominciare della clip Valentina, diretta da Johan Renck nel 2011 per il profumo della Fashion House Valentino un vero e proprio Fashion Film con tanto di storia, plot e produzione da Cinecittà e l’accattivante commento musicale di Paolo Conte. Allo stesso modo, con un investimento coraggioso messo in campo per il progetto Women’s Tales creato da Miuccia Prada l’anno seguente per Miu Miu, troviamo l’intenzione di dare spazio alla voce femminile nel raccontare la realtà mediante l’uso di piccoli film completi. Suo anche il corto A Therapy diretto da Roman Polanski, con Helena Bonham Carter e Ben Kingsley come protagonisti, che esplora elementi di identità transitoria rivelando desideri inaspettati.
Women’s Tales #8 – Somebody, diretto da Miranda July per Miu Miu – Prada, 2014
A Therapy, di Roman Polanski per Prada, 2013
In un format più tradizionale, ma non per questo meno efficace, una Fashion Clip pubblicitaria per il marchio Burberry, vediamo l’attenzione costante rivolta all’esplorazione dell’identità concentrata in un mini capolavoro prodotto dal nuovo direttore creativo Riccardo Tisci. Nella breve clip Introducing Evolution diretta da Inez & Vinoodh, in meno di un minuto ci viene mostrato il rapporto emotivo tra la fluidità del genere, gli affetti multiculturali, l’aggressività animale, la rappresentazione coloniale e la sensualità femminile.
Tisci, con la sua costante e intelligente attenzione, continua a porre l’accento sui cambiamenti sociali, riflettendoli nelle sue collezioni e nella comunicazione.
Introducing Evolution, Campagna Burberry Primavera/Estate 2020
Ma tutto ciò è solo la punta dell’iceberg. La rappresentazione della moda è, per molti versi, più interessante di tanti progetti artistici che portano alla contemplazione concettuale mentre, nel mondo, tra società, economia e individui, è in atto una trasformazione culturale di livello epocale. Dagli anni Settanta la nostra società, le persone stesse, vive una continua evoluzione dettata dalle emergenze: finanziaria, politica, petrolifera, sociale, nazionale, lavorativa, sessuale, personale e via discorrendo.
È la transizione che molti chiamano, semplicemente, post-modernismo. Senza divagare troppo, diciamo che ogni espressione culturale mostra tracce di questa transizione e la moda non è immune a questo processo. È per questo che vale la pena osservare i Fashion Film: non per seguire il trend della stagione bensì per motivi culturali.
Una lettura semiotica, dei significati degli stili più importanti nel mondo globale, ci indica in modo spesso spettacolare, i traumi che stiamo subendo. In tal senso la moda è arte, è cultura, in diretto contatto con ciascuno di noi nella nostra personale ricerca di un’identità idonea a rappresentarci nei confronti degli altri.
Come spesso accade, il processo identitario, nel quale la moda gioca un ruolo fondamentale, si basa su scelte di stile, di consumi, di atteggiamenti, di come scegliamo di vestirci e con quali accessori decidiamo di rappresentarci.
Osservando il neo-manager bocconiano, vestito con giacca e cravatta come se fosse l’unico modo per garantire la sua preparazione professionale, o i giovani cinesi di Shanghai o Beijing che si vestono streetwear chic ostentandolo su TikTok seguiti come esempio da milioni di giovani in tutto il mondo, ci si chiede dove stia la qualità o la cultura in tutto questo. Siamo ancora nel mondo dell’economista e sociologo statunitense Thorstein Veblen e la sua conspicuous consumption di fine Ottocento, oppure nel mondo regimentato e strumentalizzato, a nostra insaputa, di Foucault? Oppure ancora forse siamo nel mondo zuboffiano della surveillance capitalism?
Come già osservato da Michel Foucault ne L’archéologie du Savoir, quale strato di cultura deve essere isolato dagli altri? Quali criteri dovrebbero essere adottati per ciascuno? Quale sistema di rapporto – gerarchia, dominanza, stratificazione, determinazione univoca, causalità circolare – andrebbe adottato tra essi? E in quale cronologia di grande scala possiamo distinguere e determinare gli eventi culturali?
Si può vedere e studiare questa transizione culturale attraverso una lettura intelligente dei Fashion Film che parte dalle radici della fotografia e del cinema per arrivare a toccare le corde più profonde della nostra esistenza post-moderna. Si tratta di arte? Di cultura? Direi proprio di sì e chi lo ignora, nascondendosi dietro i format tradizionali dell’immagine d’autore, rischia di passare la vita sognando le gallerie e i musei con i muri bianchi e il loro potere sulla cultura del passato, mentre la vera battaglia culturale è capire il presente.