Alain comme Georges
Viaggio nel cupo immaginario francese

L’Evaso (La veuve Couderc), diretto da Pierre Garnier-Deferre, Francia-Italia 1971. Liberamente trasposto dall’omonimo romanzo di Georgers Simenon, 1942. Interpreti Simon Signoret, Alain Delon, Ottavia Piccolo

 «… ma trovo che il suo libro si spinga molto oltre, pur senza averne l’aria, e quasi inavvertitamente, il che coincide con il livello più alto dell’arte».
Albert Camus

Così scrive Albert Camus in una lettera inviata a Georges Simenon all’uscita, nel 1942, del romanzo di quest’ultimo La veuve Couderc (La vedova Couderc, tr. it.). Camus, che lo stesso anno pubblica Lo Straniero, è a questo libro che fa riferimento nella missiva da cui è tratta la citazione.
Siamo nel 1934 e la trama è tipicamente simenoniana. C’è la provincia francese molto amata e avidamente sezionata da Simenon in tantissimi dei suoi libri. Chi conosce questo autore sa quanto egli fosse prolifico e come fosse in grado di tratteggiare in pochissimi istanti i caratteri dei suoi personaggi.

Georges Simenon, La vedova Couderc , traduzione italiana 1993 per i tipi di Adelphi. A destra una foto dello scrittore belga

Nel romanzo in questione, attraverso rapide allusioni e concise descrizioni, viene magistralmente posto sotto la lente di ingrandimento il microcosmo di un luogo ristretto che si muove tra la casa di campagna della vedova Couderc e la chiusa sul canale che ne delimita il confine con “il fuori” compresa la casa dei parenti del defunto marito, oltre la chiusa stessa, come a sottolineare una sorta di nucleo, vulnerabile e protettivo al contempo. Un giovane e affascinante uomo, uscito di prigione (o evaso), compare improvvisamente in questo piccolo mondo con tutto il suo portato personale che lo definisce immediatamente per ciò che è: un assassino. Che abbia scontato o meno la sua pena non è determinante quanto il carattere dannato e perduto che lo veste e che non gli permetterà di sopravvivergli. Per la vedova Couderc rappresenta una fiamma luminosa che quasi la riscatta da una vita di “privazioni” intese come “mancanze”. In modo molto più edulcorato e romantico possiamo pensare all’incontro altrettanto accidentale tra Francesca e Robert in I ponti di Madison County (1995), l’improvviso erotismo qui introduce all’amore con la A maiuscola, quello cercato per tutta la vita e mai arrivato. In La vedova Couderc pure c’è quell’erotismo ma molto più conturbante e peccaminoso, senza alcun amore perché nella vita di questi personaggi non è previsto. Il luogo reale e claustrofobico risiede all’interno dei corpi dei personaggi, la passione è la stessa ma narrata da due punti di vista differenti.

Alain Delon e Ottavia Piccolo in bicicletta sul set de L’evaso (1971) mentre, tra i fotografi, attraversano il ponte sulla chiusa
Il ponte di Roseman, nella contea di Madison, oggetto del servizio fotografico di Robert Kincaid (Clint Eastwood) qui con Francesca (Meryl Streep) in I ponti di Madison County diretto da Eastwood stesso nel 1995

Il destino, niente affatto fatale, è determinato dalle scelte dei personaggi che, in entrambi i casi, condurranno a un epilogo dettato dalle diverse umanità che permeano le due vicende. In ogni caso e in piena responsabilità di ciascuno, essi lo vivranno fino in fondo. Così come accade in un altro film, in un’altra storia, La prima notte di quiete di Valerio Zurlini (1972), in cui è la provincia italiana a manifestare i propri malesseri, i propri rancori pronta ad additare il “diverso” che in questo caso è un professore supplente e anarchico nei suoi metodi molto poco provinciali.

La prima notte di quiete, trailer ufficiale. Regia di Valerio Zurlini. Italia, 1972

 

Georges Simenon, sempre considerato, a torto, un narratore di storie poliziesche, possedeva in realtà una rara capacità di descrivere la meschinità del mondo con tutto il suo portato di paure, dubbi, sfrontatezze, accanimenti, ossessioni di cui l’uomo comune è pervaso. La sua scrittura era in grado di cogliere, senza divagazioni e inutili abbellimenti, gli aspetti più profondi della psiche umana, mettendoli a nudo e ponendo i protagonisti davanti al proprio inevitabile destino.
Nelle centinaia di trame uscite dalla sua penna Simenon non ha mai deviato da questo preciso profilo narrativo in cui i protagonisti si trovano sempre a dover fare i conti con se stessi, siano essi personaggi “minori” posti ai margini della società o ricchi cittadini del tutto insospettabili nella loro caparbia appartenenza alla agiata borghesia (il ceto sociale non ha importanza poiché l’uomo è uguale, sempre e comunque, nei sentimenti). Tutti costoro sono accomunati da un demone strisciante che si insinua a un certo punto nelle loro vite per deformarne la realtà così ben costruita.

«Quanti mesi, quanti anni ci vogliono perché un bambino diventi un ragazzo, e un ragazzo un uomo? Quando si può affermare che la transizione è avvenuta? Non esiste, come per la fine degli studi, una proclamazione solenne, una cerimonia ufficiale, un diploma. Alain Pointaud, a trentadue anni, impiegò poche ore, forse pochi minuti, per cessare di essere l’uomo che era stato fino a quel momento e diventare un altro».

Questo è l’incipit di un romanzo “a caso” di Simenon, La prison (1968). Andando avanti nella lettura si arriva abbastanza velocemente a scoprire che la moglie del protagonista, un potente editore di Parigi che pubblica la famosa rivista Toi, letta da centinaia di migliaia di persone, in particolare donne, ha ucciso la sorella che è stata sua amante ma che egli non frequenta più da oltre un anno. Da queste prime poche righe si intuisce già il percorso psicologico che l’autore intende farci attraversare nei meandri più oscuri della mente di Pointaud. L’autore si interroga fin da subito su quando scatta quel momento in cui “le cose cambiano” facendo precipitare il proprio destino in un universo completamente differente eppure sempre celato nel profondo, molto più aderente alla propria esistenza di quanto non sia la normale vita sino a quel momento condotta.

Frame dal film L’Evaso (La veuve Couderc), diretto da Pierre Garnier-Deferre, Francia-Italia 1971. Interpreti Simon Signoret, Alain Delon, Ottavia Piccolo

E chissà se Simenon ha fatto proprio lo spirito narrativo di Dostoevskij adattandolo alle sue conturbanti e morbose storie. Il sospetto ci viene se dello scrittore russo, per esempio, leggiamo l’incipit de La mite. Racconto fantastico:

«… Finché lei è qui va ancora tutto bene: mi avvicino ogni minuto e la guardo; ma domani la porteranno via – come farò a restare solo? Ora è lì, nella sala, sul tavolo, cioè due tavolini da gioco accostati, la bara arriverà domani, tutta bianca, in gros de Naples bianco, ma non è di questo che volevo parlare…».

Vediamo anche qui un inizio che attraverso pochissimi elementi ci mostra immediatamente un ambiente, un evento che, capiamo, ha cambiato per sempre la vita di un uomo che si accinge a narrare l’accaduto attraverso un lungo flusso di coscienza. La moglie si è suicidata poche ora prima gettandosi dalla finestra. L’uomo, attraverso un delirante e sconnesso soliloquio, trasporta il lettore nei cunicoli più intricati della sua mente alla ricerca di una “spiegazione” che non può arrivare se non ammettendo le proprie responsabilità in un gesto apparentemente inspiegabile. Ma quali sono tali responsabilità e perché si deve attraversarle anche a costo di perdere la mente o, peggio ancora, la vita?

Alain Delon in una scena iniziale de La piscina, con Romy Schneider, diretto da Jacques Deray, 1969

Il 18 agosto scorso è stata diffusa dalla famiglia la notizia della morte di Alain Delon, attore francese che anche i sassi conoscono e che non avrebbe bisogno di presentazioni. Tuttavia, o forse proprio per questa eclatante fama, la sua figura è sempre apparsa come quella di un interprete bravo, diligente ma non eccelso. Sopra ogni cosa è sempre stata osannata (e molto invidiata) la sua inarrivabile bellezza che, assieme al gossip sulla vita privata, ha spesso oscurato la dedizione che l’attore ha invece posto nel recitare e, aggiungiamo, mai in pellicole banali. Perché diciamo questo? Il romanzo di Simenon con il quale abbiamo aperto questo articolo – interpretato sul grande schermo proprio da Alain Delon – è la chiave per arrivare a ciò che realmente, a nostro avviso, rappresenta Delon, nella vita come nella professione: il cupo immaginario francese.

Un momento della cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Parigi 2024, ideati da Thomas Jolly

Questo immaginario cupo è emerso recentemente anche nella cerimonia di apertura dei giochi olimpici di Parigi concepita da Thomas Jolly e che certuni osservatori (opinionisti o meno) hanno definito woke. Ma non è questo il punto: il punto è che questa zona oscura è stata portata alla luce su un palcoscenico internazionale lanciando, secondo alcuni, chiari messaggi di catastrofe verso la quale il mondo si starebbe dirigendo. Molto meno catastroficamente a noi interessa porre l’accento su quello che riteniamo essere l’emersione di un mondo da sempre ricacciato nel profondo ogni qualvolta qualcuno cerca di porlo all’attenzione. La materia è decisamente densa e vischiosa. Lungi da noi voler virare su un terreno che ci porterebbe a divagare troppo. L’esempio vuole solo offrire una sponda interpretativa di questo oscuro immaginario che la cultura francese nasconde molto meno di altri Paesi, non solo europei. Tale immaginario sembra infatti voler essere tenuto sotto traccia, relegato nelle periferie cittadine come nelle provincie addormentate ma, proprio per la trama vischiosa dei vissuti di chi le abita, mostra quella realtà che non vogliamo vedere, non vogliamo accettare, che allontaniamo come si allontana da sé tutto ciò che scava in profondità nelle nostre vite. Alain Delon è stato l’incarnazione perfetta di questo immaginario. Faccia d’angelo, come Frank Costello nel film di Melville, con il quale non si può non schierarsi perché “bello” ma “dannato”, fin dalle prime battute delle storie interpretate. Una condizione che per certi versi, nel mondo della malavita milanese degli anni Settanta, rimanda a Renato Vallanzasca. Nato fuori dal matrimonio, nel 1950, criminale pluriomicida condannato a 295 anni di carcere, evaso diverse volte, violento oltre misura: il bel Renè.

Una scena tratta da La prima notte di quiete, regia di Valerio Zurlini

Nel già citato La prima notte di quiete, (una storia che avrebbe potuto tranquillamente essere una trama di Simenon) Daniele Dominici (Alain Delon) arriva al liceo classico di Rimini in una giornata uggiosa d’autunno. Fin dalle prime battute emerge un personaggio ai limiti dell’esistenza, al quale non importa nulla di ciò che gli accade, nulla più accende la sua voglia di vivere. Di lui si sa poco, solo che viaggia con una compagna altrettanto sofferente (Lea Massari) che senza aspettarsi nulla ancora lo segue pur sapendo che la trascinerà in un pozzo profondo di cui non può vedere la fine. Il mal di vivere traspare evidente e a nulla serve il coinvolgimento da parte di un gruppo di giovani scapestrati che, proprio perché tali e senza destino, non possono offrire nulla a un uomo già perduto. Ma, come avviene nei romanzi di Simenon, la luce si accende, inaspettatamente, quando una studentessa, Vanina Abati (Sonia Petrova), coglie qualcosa che nemmeno lui sa vedere, non più. L’amore sembra avere ancora una speranza di sopravvivenza in un ambiente votato all’appagamento spicciolo di un desiderio crudo. I due cominciano a frequentarsi suscitando le gelosie di Gerardo (Adalberto Maria Merli) fidanzato di Vanina, il quale arriverà a minacciarlo pesantemente. Ma il professore è ormai oltre la linea di non ritorno e tutto quel che farà da quel momento in poi lo condurrà verso la fine tragica che inesorabilmente lo attende.
Tornando al parallelo Delon-Simenon, un attento osservatore noterà una certa somiglianza nei due caratteri. Si può dire che Alain Delon è il perfetto interprete per le storie di Simenon, la sua filmografia lo dimostra anche se l’unico film trasposto effettivamente da un suo romanzo è giustappunto La veuve Couderc. Tuttavia molti registi lo hanno scelto per recitare in pellicole non sempre e non solo poliziesche (come spesso sono stati definiti i romanzi di Simenon pur non essendolo) e anche in questi casi i tratti psicologici del personaggio interpretato possono di buon grado entrare nella narrativa simenoniana. Pensiamo per esempio a Plein Soleil di René Clément (1960) in cui un giovanissimo Delon interpreta quel Tom Ripley dal talentuoso mistero descritto nel romanzo di Patricia Highsmith in cui il protagonista, dopo alcune vicende, assume l’identità dell’uomo che avrebbe dovuto riportare dall’Italia negli Stati Uniti, secondo un accordo con il padre, deciso invece a prendersi tutto. Oppure il Mr. Klein di Losey, prodotto dallo stesso Delon che sposa il progetto, sul quale occorrerebbe scrivere separatamente per entrare appieno nel meccanismo in cui ancora una volta si manifesta un “doppio” che, in questo caso, diventa quasi impossibile capire quanto reale o meno. Il film non avrà nelle sale il successo sperato, il tema complesso della deportazione degli ebrei nei campi di concentramento durante il secondo conflitto mondiale è legato a una fase storica non ancora elaborata. L’aspetto kafkiano che il regista decide di mettere in luce (la condizione ambigua dell’umano esistere) non procura gli effetti sperati. Alla competizione di Cannes quell’anno la palma va a Taxi Driver di Martin Scorsese con un De Niro protagonista di una delle sue migliori interpretazioni. Mr. Klein invece, è molto vicino alle trame europee più cupe, quelle che Georges Simenon ha accuratamente descritto centinaia di volte nei suoi romanzi.

Trailer originale di Mr. Klein, diretto da  Joseph Losey, 1976

Alain Delon potrebbe oltremodo essere facilmente paragonato al narratore Georges Simenon anche nel privato, con la sua vita amorosa piuttosto movimentata. Simenon ha dichiarato di aver avuto 10.000 donne,  si è sposato tre volte, ha avuto quattro figli tra cui la tanto amata Marie-Jo (come per Delon è stata Anouchka) alla quale nelle sue Memorie intime dedica oltre duecento pagine (“Il libro di Marie-Jo”) nel tentativo di riappacificarsi con il rimorso per la sua prematura morte avvenuta per suicidio (come per Delon è stata la dolorosa perdita di Romy Schneider, suo primo grande amore). Entrambi hanno trovato nell’ultima compagna – per Simenon la sua segretaria, per Delon quella che è stata definita la sua badante – la persona che li ha accompagnati verso la fine.
Come Georges, Alain è “voce e corpo narrante” degli umori bassi, viscerali e al contempo candidi dell’umano. Lo vediamo in Rocco e i suoi fratelli di Visconti (1960) dove il regista, ispirandosi a scrittori epici quali Thomas Mann e, giustappunto, Dostoevskij, imbastisce la storia di una famiglia del Sud Italia emigrata a Milano, attratta dal sogno di una vita migliore, che finisce per scontarsi violentemente con quei caratteri ancestrali incancellabili che la faranno scivolare nell’oblio.

Un’edizione integrale di Rocco e i suoi fratelli diretto da Luchino Visconti è uscita nelle sale a luglio in occasione dei 120 anni della casa di produzione Titanus

O come ne La piscina in cui Jean-Paul, scrittore fallito, trova nelle parole rivelatrici della giovane figlia (Jean Birkin) di Harry (Maurice Ronet), quello che credeva essere un amico – amante precedente della sua compagna e ancora interessato a lei –, la molla che fa scattare la messa in scena di una storia mai scritta (alla Simenon) e che forse gli sarebbe valsa la fama, annegando, per gelosia di “vivere”, l’amico nella piscina della casa in cui si trova in vacanza a Saint Tropez, durante “l’ultima notte” prima della sua partenza. Lo svolgersi successivo delle indagini, che lo lascerà impunito, è degno del finale di un romanzo di Simenon.
Ogni film interpretato dall’attore francese, così come ogni romanzo scritto da Simenon, mostra il lato in ombra di questa medaglia (il testa o croce di Borsalino che è un destino scelto) partendo da un incipit a volte insospettabile. Il suo volto modella senza finzione la maschera della sofferenza interiore in cui in molti si identificano nonostante l’atroce bellezza che lo contraddistingue.
Anche nei suoi ruoli più positivi, quale ad esempio quello di Tancredi ne Il Gattopardo sempre di Luchino Visconti, il lato cupo, geloso sale su quel volto quando impotente osserva il ballo tra la sua amata Angelica (Claudia Cardinale) e lo “zione” principe di Salina (Burt Lancaster) al quale non può rifiutare nulla, percependo quanto il principe non sia affatto insensibile alla bellezza della ragazza. Tancredi “concede” il ballo sapendo che sempre ci sarà qualcosa che si interporrà tra la sua agognata felicità e la condizione reale del vivere. Qualunque sia il ceto sociale al quale si appartiene. “Bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale”, dice nel film rivolgendosi proprio allo zio. Tancredi rappresenta il cambiamento, lo zio il passato e lo spettatore si chiede quale mondo sia quello giusto giungendo alla conclusione che entrambi non sono poi così differenti.

Claudia Cardinale, Alain Delon e Burt Lancaster in una scena del film Il Gattopardo diretto da Luchino Visconti, 1963

La gelosia, il risentimento per un torto subito, il senso di inadeguatezza verso chi crediamo sia migliore di noi, l’incapacità di comunicare, il bisogno disperato di amore nonostante la solitudine interiore in cui spesso ci si rifugia. Tutti sentimenti molto umani che nel contemporaneo si cerca di annullare andando incontro a falsi valori promessi da quello sviluppo che Pier Paolo Pasolini aborriva, e che molto bene descrive negli anni Settanta  ma che continuano a mietere vittime sia da un punto di vista fisico sia psichico. Essi rappresentano, in queste narrazioni di esistenze personali che si mescolano con quelle sullo schermo, un nodo cruciale del vissuto di ogni individuo. Una realtà con la quale ciascuno di noi è costretto, prima o dopo, a fare i conti. Alain e Georges, tra gli altri, ce lo ricordano attraverso le storie che ci hanno lasciato affinché ci si possa specchiare e, possibilmente, trovare quelle risposte che ci neghiamo, a volte, per tutta la vita.