Annie Ernaux, Marc Marie: L’usage de la photo

Annie Ernaux e Marc Marie, L’usage de la photo, Edizioni Gallimard 2005.

Uno dei tratti peculiari dell’opera di Annie Ernaux, premio Nobel per la letteratura nel 2022, è quello di raccontare al di là della scrittura, tramite una giustapposizione con altri linguaggi, come la musica e la fotografia, perché, afferma la scrittrice, «si potrebbe raccontare una vita intera con solamente delle canzoni e delle foto», a fortiori se inserite, come in questo caso, in un libro di tipo journal intime. L’usage de la photo, testo originale francese edito da Gallimard nel 2005 e non ancora tradotto in italiano, è la testimonianza di un evento: l’incontro col fotografo Marc Marie. Con quest’ultimo, suo amante e coautore del libro, la Ernaux fissa le regole di un gioco nato da quel desiderio erotico che, come ricordato in esergo citando Georges Bataille, è approvazione della vita fin nella morte. E il rapporto eros/thanatos sarà il sottile filo rosso che percorrerà tutta l’opera: la possibilità del non esserci più che spinge a creare per far persistere, almeno, la traccia dell’aver amato.
Le regole sono semplici, gli autori devono fotografare gli indumenti prima dell’amore, gettati dove la passione e il caso hanno voluto, testimoni transitori dell’impeto dell’eros e rappresentazione materiale di quelle «spoglie di una festa ormai lontana» che bisognava fotografare perché votate alla sparizione. Anche le contraintes sono ben definite, nessuno deve toccare la composizione dei vestiti e degli indumenti, sia essa richiami una forma geometrica o un’immagine naturale; gli scatti, rigorosamente in analogico, devono essere sviluppati da Photoservice, e il post sviluppo deve seguire un rituale preciso, dal quale non si può prescindere:

  • è vietato per chi va a prendere le foto l’aprire la pochette che le contiene;
  • per la visione degli scatti, bisogna mettersi uno accanto all’altro sul divano, dinanzi un bicchiere e un disco in sottofondo;
  • le foto vanno tirate fuori dalla custodia una ad una e vanno guardate assieme.

A queste, andrà aggiunta una regola posticcia nata da una successiva riflessione sulla fotografia: ciascuno dei due amanti scriverà sulle quattordici immagini scelte senza però mai mostrare all’altro il proprio lavoro, né mai parlarne.

Annie Ernaux e Marc Marie, L’usage de la photo, Edizioni Gallimard 2005.

Il risultato è una serie di photos écrites, dove il dittico composto dalla fotografia e dal testo, secondo gli autori, conferisce maggiore consistenza a dei momenti di godimento fuggitivi, essendo queste un mezzo per «cogliere l’irrealtà del sesso nella realtà delle sue tracce». Affermazione, questa, che capovolge l’ordinaria nozione di traccia come segno parziale di un intero vero, facendo così assurgere le fotoscritte a unici testimoni probanti la verità dell’atto, definito irreale perché forse inesprimibile per gli altri. Tuttavia, aggiunge la scrittrice, queste loro foto/tracce potrebbero raggiungere il più alto grado di realtà, diventando quindi assolutamente vere, solo se trasformate nella e dalla personale memoria e immaginazione dei lettori, ovvero diventando altre da ciò che sono per loro e vere nella nostra esperienza. Effettivamente, tra le quattordici fotoscritte, nessuna mostra un amore tra corpi, ma sempre il prima e il dopo, quasi dovesse essere il lettore a vederci, nel mezzo, la realtà del suo amore.
Ne L’usage de la photo, Annie Ernaux interroga il medium stesso della fotografia, il suo uso e il suo paradosso, il suo essere metafisica, ovvero il suo dire oltre il visibile, indaga le possibilità costrittive dell’immagine che hanno richiesto l’aggiunta della regola della scrittura. Questo è avvenuto perché, anche se nelle prime intenzioni degli autori l’immagine fotografica doveva dare più realtà al loro amore, questa si è rivelata limitante perché, dice Annie Ernaux, «la foto mente sempre», non permette di «rendere la durata», essendo caratterizzata dalla «finitudine», dove il/la fine può essere inteso come punto finale e iniziale di un dire non verbalizzabile. L’immagine tradisce quindi chi pensa di darle un valore assoluto e atemporale, perché, come confessa la Ernaux, ogni foto si presta a un doppio sguardo: quello passato che ha spinto allo scatto e quello attuale che genera delusione perché «quello che vedo ora non è quello vedevo quel mattino». In più, variando il piano temporale ed emotivo, «non si è più nella realtà che ha suscitato quella emozione» e l’ha giustificata. Nel testo, la fotografia diventa un gioco le cui regole sfuggono a chi le ha poste, infatti, ammette la scrittrice parlando delle immagini: «non so cosa siano, so cosa incarnano, ma ignoro il loro uso». E il paradosso fotografico, titolo di un paragrafo del libro, inducendo la delusione prima accennata trasforma la foto positiva in un prodotto negativo dell’atto creativo che porta a «de-realizzare» il sentimento, ovvero a creare una non verità che non ha rapporto col reale perché ormai è l’immaginario che decifra la foto, non la memoria fino ad, addirittura, non far provare più nulla di vero agli amanti. Per i due autori, la fotografia mente perché racchiude un istante irripetibile che è già passato quando colto, ovvero è metafora di ciò che viene da loro definito «il sentimento tragico del tempo», sospensione emotiva di chi, in quanto è già, si sente altrove e può affermare in maniera lapidaria e ossimorica: je suis morte. A questa impossibilità dell’immagine di dire il vero, si tenta di porre sollievo con altri media che possano dilatare lo spazio-tempo, offrire una via di fuga, come la già ricordata musica, impalpabile matericità ed espansione nel passato, e la scrittura che, secondo l’autrice, potrebbe proiettare e prolungare l’atto da dire permettendo un appiglio privilegiato per dire qualcosa di reale.
Questa onnipresenza del reale e dell’irreale richiamano, inoltre, la situazione esistenziale in cui si trova Annie Ernaux quando scrive: la scrittrice ha un cancro al seno che la rende trasparente a causa della possibilità del non esserci o, meglio, per la possibilità anche di non potersi vedere più.
Malattia, questa, da lei definita paradossalmente romantica e buona perché significante una presenza la cui realtà è nelle tracce post-operatorie, nelle bruciature, nei cateteri, e visibile nelle fotografie mediche. Malattia assurdamente positiva perché, in dialogo con le fotografie dell’assenza, dei vestiti senza carne, permette di poter pensare la propria morte come vera e come corpo inesistente di cui gli indumenti dell’amore sono traccia rivelatrice dell’essere stato. Questa condizione doppia, presente/assente, permette ad Annie Ernaux di capire ora che «la sola cosa che possa giustificare tutte le ricerche scientifiche, filosofiche, l’arte, è il non sapere cosa è il nulla». E forse, per la stessa ragione, i due amanti fotografano e scrivono.

Cosa resta di questi indumenti? Cosa resta di questa fotoscrittura? Di queste assenze vere?
Un’immagine e un corpo altrove, come quello del Cristo del sepolcro nel Vangelo di Giovanni, citato dall’autrice, e la descrizione di due foto che aprono e chiudono il libro. Entrambe raccontate, ma non mostrate, quasi a dire il limite di ogni mezzo espressivo. La prima scattata al posto dell’amore, ma raccontata. La seconda non scattata né raccontata, di cui la Ernaux può solo dare il titolo: Naissance.