Abbiamo chiesto all’artista Silvia Bigi di parlarci del suo ultimo lavoro Are you nobody too? e di raccontarcene l’evoluzione continua sfociata in una performance che è stata recentemente proposta a Paris Photo nella sezione Curiosa curata da Anna Planas.
Giovanna Gammarota – Dal Premio Fabbri a Paris Photo, per te un anno intenso che è ruotato attorno al progetto Are you nobody too? cominciato con un video e un polittico di immagini a cui si sono aggiunte, via via, altre declinazioni. Puoi raccontarci la genesi di questo lavoro?
Silvia Bigi – Sì, un anno davvero intenso, non solo per la fortuna di Are you nobody too?, ma anche per i nuovi progetti ai quali sto lavorando grazie a importanti riconoscimenti (Italian Council e Strategia Fotografia, entrambi sostenuti dal Ministero Italiano della Cultura). Are you nobody too? nasce da una fotografia ritrovata, un ritratto sfocato e sfuggente in una grana imperfetta: si tratta dell’unica immagine di Irma, mia prozia, per tutta la sua vita tenuta lontana – a causa della sua condizione mentale – dallo sguardo pubblico così come dall’ufficialità di ogni genealogia familiare. A partire dalla sua identità negata, l’immagine si fa soglia attraverso cui decostruire il labile concetto di sanità mentale. Le varie componenti del lavoro – e in particolare il video – fanno luce sui tabù che da sempre accompagnano ogni disagio psichico, con particolare riferimento alla donna, che, nel corso della storia, è stata spesso bersaglio di pratiche di addomesticamento e assoggettamento a cui la mente si è ribellata. Attraverso una app che promette di far parlare il volto immobile di una fotografia, Irma prende finalmente parola. La sua voce è artificiale, generata grazie a un programma text-to-speech, una vocalizzazione interattiva che simula quella umana ma che non ne restituisce la naturale spontaneità e inflessione. E così, Irma intona un monologo di alcuni minuti prendendo a prestito le parole di poetesse e scrittrici del Novecento – a loro volta vittime di disturbi come bipolarismo, depressione, schizofrenia, istinti suicidi – parole che si sfilano dal loro impianto narrativo per rintrecciarsi in una nuova trama. Il suo corpo diventa così uno spazio di redenzione, un anti-corpo che ospita una moltitudine, sfidando ogni forma di normatività, regolazione, gestione e controllo. Una dispersione del sé che si fa forza generativa attraverso l’alleanza della tecnologia.
La mia pratica è multidisciplinare e profondamente ancorata alla ricerca, ed è naturale per me costruire costellazioni di opere che ruotano attorno a un determinato discorso: fotografie, serigrafia su vetro e specchio, sculture, installazioni e performance, incorporano e traducono in modi differenti le tematiche affiorate dal ritrovamento dell’immagine e possono essere concepite come parti autonome e insieme frammenti di un discorso più ampio e complesso.
G.G. – Per questo lavoro hai attinto al tuo vissuto personale che lo ha mutuato verso un approdo universale e, direi, politico. C’è inoltre una precisa volontà di mettere a nudo aspetti sociali che, a mio parere, vanno oltre il tema di ‘genere’ tanto dibattuto e che forse rischia di essere sfruttato indebitamente. È un rischio, a tuo parere, quello di alimentare il dibattito plurale, che l’arte oggi affronta e si assume pienamente? Cosa significa per te fare arte?
S.B. – Il personale è sempre politico, specialmente quello di una donna. Non sono d’accordo, o perlomeno non lo sono in questa cornice di senso, che il discorso di genere debba essere messo tra parentesi o contestualizzato per il rischio di essere ‘sfruttato indebitamente’. Come spiega efficacemente la teoria femminista intersezionale, ogni sfera della nostra esistenza è intimamente connessa e così lo sono i legami (intersezioni) tra le soggettività colpite. Sessismo, classismo, razzismo e – mi sento di aggiungere – specismo, non sono compartimentali, ma agiscono con violenza strategica, sinergica e sistemica a un unico fine comune: il mantenimento di forme di privilegio consolidate a discapito di altre individualità. È un discorso estremamente complesso che andrebbe articolato e contestualizzato altrove. Ad ogni modo sono convinta che lo ‘sfruttamento’ o mercificazione di alcune questioni vitali della nostra contemporaneità come la questione di genere o la crisi climatica non debbano distogliere l’attenzione dall’urgenza delle stesse di generare dibattito in ogni contesto, specialmente quando le narrazioni sono attivate dalle stesse soggettività colpite.
G.G. – A tale proposito recentemente l’intero comitato di selezione della sedicesima edizione di documenta, una delle più importanti manifestazioni di arte contemporanea a livello europeo, si è dimesso dal proprio incarico (16 novembre 2023) con una lettera in cui ha scritto di essere ‘preoccupato’ per il futuro di documenta poiché – dicono – «se l’arte vuole tenere conto delle complesse realtà culturali, politiche e sociali del nostro presente, ha bisogno di condizioni adeguate che consentano le sue diverse prospettive, percezioni e discorsi». Accusando di fatto l’organizzazione della manifestazione, se non l’intero ministero della Cultura tedesco di ridurre i contesti di intervento culturale a delle semplificazioni unilaterali negando la discussione, nello specifico il comitato curatoriale di documenta si riferisce all’attuale conflitto israelo-palestinese. Come giudichi, da artista, una presa di posizione così netta?
S.B. – Non mi sento di giudicare prese di posizioni così complesse, è chiaro che dobbiamo prendere atto che ci troviamo di fronte a uno scenario post-capitalistico e post-verità affetto da una grave forma di infodemia. Sicuramente mi sento di dire (e mi ricollego a quanto detto sopra) che il sistema dell’arte in quanto sistema di privilegio occulta e omette costantemente quelle ‘diverse prospettive, percezioni e discorsi’ a cui fa riferimento la lettera citata. È sicuramente ora di prendere posizioni forti, di smettere di trovare riparo in zone d’ombra – o di comfort – per paura delle conseguenze. Fare arte per me? Risvegliare dal torpore.
a little poetic power to tell it to the world , performance ideate da Silvia Bigi con il supporto di Red Lab Gallery, Grand Palais Ephémère, Paris Photo, 8-12 Novembre 2023. Sound design by Luca Maria Baldini. Courtesy dell’autrice e galleria.
G.G. – Ma torniamo a Are you nobody too? Cosa ha significato per te portare una performance come quella di a little poetic power to tell it to the world – dove parli proprio di come l’emarginazione sociale della ‘diversità’ provochi l’esclusione di tutto ciò che non è ‘conforme’ al modo unilaterale di pensare e organizzare la vita di tutti – all’interno di una manifestazione come Paris Photo? Puoi raccontarcelo in dettaglio?
S.B. – a little poetic power to tell it to the world nasce dall’esigenza di generare un’esperienza aperta, partecipata, attivando corpi e voci per donare ogni volta nuova vitalità ai versi di Are you nobody too? L’ipertesto è stato gestito da un algoritmo che ha rimescolato le frasi ogni giorno in modo diverso, mentre le performer erano invitate a individuare i loro versi-specchio, ciò in cui più si identificavano. I versi diventavano così giorno dopo giorno sempre più personali, vere e proprie affermazioni. C’è stato un giorno in particolare, credo sabato se non ricordo male, molto intenso: qualcuna faticava a leggere i propri versi perché vi si era identificata troppo, qualcuna aveva cambiato tono, la voce sembrava più aggressiva, quasi come se i versi avessero intercettato profonde risonanze interiori pronte a emergere nello spazio pubblico. Le performer indossavano tuniche su misura, realizzati dalla bravissima Maria Barbara De Marco, ispirate ancora una volta alla fotografia di Irma, con sopra alcuni versi ricamati a mano: gli abiti, i versi, gli sguardi tra le performer volti ad attivare a catena un ‘piccolo potere poetico’, lo spazio liminale tra i due padiglioni dentro al Grand Palais Ephémère, tutto ha contribuito a creare qualcosa di veramente toccante. Sono anche estremamente felice di aver chiamato a recitare alcune delle mie studentesse e colleghe dell’atelier di arti visive di Bobigny, una delle banlieue più problematiche di Parigi, dove l’artista Jean Michel Bruyère mi ha invitata negli anni passati a lavorare nel contesto dell’istituto Sup De Sub: una scuola d’arte che dà la possibilità a ragazzi con background familiari e socio-economici difficili di poter accedere a un’alta formazione artistica. Personalmente, è stato come assistere a una costellazione familiare: un tentativo di guarire le ferite del mio albero genealogico e insieme di connetterlo a tante altre genealogie. Un atto di profonda sorellanza e di resistenza, forse ancora più forte proprio perché realizzato in un contesto come quello fieristico votato a una visione generalmente più distratta e funzionale dell’arte come merce.
G.G. – L’arte non ha (con)fine, è un percorso costante che segue un filo che la introduce in innumerevoli ambiti, attraversa una moltitudine di realtà (le realtà sono ‘diverse’) e producendo spesso intersezioni che fanno riflettere, illuminando idee che sarebbe delittuoso tenere in ombra (questo è il principio al quale si ispira anche questa testata giornalistica). Tanto più in questo secolo ove la corsa verso la componente puramente di profitto comincia a nostro avviso a vacillare: c’è infatti sempre più bisogno di verità, ma la verità può essere manipolata e non solo dalla tecnologia di cui tu peraltro ti servi. In questo istante storico è più che mai necessario fare chiarezza sui significati di Tecnologia e Tecnica troppo spesso confusi. Come giudichi l’uso della ‘tecnologia’ in ambito artistico e come immagini debba essere utilizzata, trovi che sia etico farlo?
S.B. – Io utilizzo la tecnologia come spazio magico, di ricerca dell’oltre. Nei miei lavori attuo un vero e proprio ripiegamento delle tecnologie su se stesse, emancipandomi così dalla loro forza coattiva, per utilizzarle infine come se si trattasse di oracoli, di sismografi, di specchi. Credo che le nuove tecnologie siano componenti inscindibili del nostro mondo e nonostante il loro carattere ambiguo offrano importanti risorse per riflettere sulla nostra interazione con il mondo, con l’other-than-human, l’oltre umano, spazio con cui siamo invitati a misurarci sempre di più.
G.G. – Infine: la performance che hai creato e rappresentato per la prima volta a Monopoli e successivamente a Paris Photo – sempre coadiuvata da Red Lab Gallery – fa parte di una evoluzione ‘al contrario’ rispetto all’utilizzo della tecnologia, cioè: qui l’elemento centrale è quello umano, non certamente quello tecnologico. Ritieni che questo sia ancora una elemento essenziale nel fare arte, necessario a raggiungere contemporaneamente sia la mente sia il cuore degli individui? Pensi che l’arte debba preservare il suo aspetto ‘umanistico’ nonostante la tecnologia?
S.B. – L’aspetto tecnologico non è scomparso dalla performance, anzi, è più presente che mai. Prima di tutto c’è l’ipertesto, formulato proprio a partire da un rimescolamento di cui non sono – volutamente – responsabile. Poi c’è lo script che ne produce una nuova versione, ogni giorno. La tecnologia gioca un ruolo importantissimo in questa azione, interagisce invisibilmente con i corpi che vi partecipano. La tecnologia del resto è ovunque, è qui davanti a me, senza di essa non potrei rispondere a queste domande. Credo che non ci sia nessuna opposizione tecnologia – essere umano, e anzi trovo questa dualità fuorviante, a tratti anacronistica. Anche l’opposizione naturale e artificiale è una costruzione culturale. Del resto il concetto stesso di ‘natura’ è costruito su basi culturali e ideologiche, poiché non esiste nessuna natura, inutile cercare in un’alterità oppositiva ciò che pensiamo possa definirci, darci senso. La natura è ovunque, la natura non è in nessun luogo. La tecnologia fa parte di quell’oltre umano che definisce i territori con cui ci misuriamo e con cui discriminiamo il nostro stesso esserci. Il fatto che queste dimensioni prendano sempre più spazio e potere nel nostro tempo può preoccuparci, certo, ma può anche essere un ottimo punto di partenza per riflettere sullo spazio che occupiamo. Abbiamo manipolato profondamente il mondo tanto da renderlo ostile in tutte le sue componenti, e non è possibile tornare indietro: quello che possiamo fare è imparare a coesistere con il molteplice, accettare il nostro essere tra gli esseri. Imparare ad amarne la complessità e le differenti forme di intelligenza. Una nuova forma di sublime, di bellezza crepuscolare, di cui parlerò nel nuovo lavoro, Camille.