Paul Graff, ragazzino dal volto delicato, con una morbida chioma di capelli rossicci che scende lungo il collo, vive un tormento interiore che si pone in lui come una sorta di febbre bassa e costante, alternata da rapsodici episodi di manifesta ribellione. Questa condizione lo fa sentire fuori posto quasi ovunque, a partire dalla famiglia stessa. In sostanza, vive uno spaesamento – sorta di “unheimlich” dai contorni sfuggenti – che l’espressione dolente del suo volto comunica in modo palese. Lo sguardo silenzioso, perennemente in bilico tra sorpresa e timore, è quasi sempre fisso su qualcosa o qualcuno, attraversando così i contorni dell’inquadratura per andare ad appoggiarsi su un “altrove” (persone, oggetti) che spesso si trova poco distante da lui, ma che risulta quasi impossibile da raggiungere. Gli ostacoli non sono sempre fisici, più spesso si tratta di un meccanismo intimo che fatica a ingranare. Emblematico di questo stato emotivo, che descrive perfettamente l’essenza del personaggio, è la visione di un’opera di Kandinskij, un giorno in cui Paul si reca in visita con la sua classe al Guggenheim Museum di New York: il suo viso sognante sembra essere assorbito dall’opera e, viceversa, gli occhi stessi del bambino ne risucchiano la sostanza (tra l’altro, il Primo Piano sul volto di Paul ricorda quello sul viso del protagonista di Tutti i Vermeer a New York – estasiato di fronte a un Vermeer – piccolo gioiello del lontano 1989, diretto dal semi sconosciuto Jon Jost).
L’undicenne Banks Repeta è perfetto per interpretare questo Holden Caulfield di inizio anni Ottanta. Paul vive con la propria famiglia di origine ebraica nel Queens: la madre Esther, il padre Irving, e il fratello maggiore Ted. Poi ci sono i nonni e gli zii. Il piccolo Graff sembra essere in costante ostilità con questo nucleo famigliare in odore di perbenismo endemico. La madre (una misurata Anne Hathaway, perfettamente a proprio agio in un ruolo genitoriale), oscilla tra slanci d’affetto materno e rigoroso pragmatismo domestico, celando una vibrante fragilità dietro la luce smorzata di una bellezza sfiorente; il padre (Jeremy Strong) è un sempliciotto occhialuto dall’aria ebete: pavido, maldestro e affettivamente distratto, alla perenne rincorsa di un riscatto sociale, ma sempre bloccato ai cavalli di frisia. Un mediocre che ha trovato nel conformismo la linea guida della sua grigia esistenza. Ted, per certi versi fotocopia del padre, è un prototipo di gradasso “da college” che ama accanirsi contro il fratello minore, come se fosse una matricola qualsiasi. Paul sembra avere un rapporto privilegiato solo col nonno materno Aaron (interpretato da Anthony Hopkins, impeccabile come sempre), un uomo che porta il peso della Storia sui propri novant’anni (la fuga negli Sati Uniti durante la persecuzione in Europa, la necessità di camuffarsi, cambiando il cognome, per evitare il disprezzo e mantenere salda la propria dignità): bozzolo protettivo del piccolo nipote, ma al contempo portatore di una saggezza rigorosa. Sarà lui che inciterà Paul a opporsi alle ingiustizie e dargli l’abbrivio verso quel coraggio che, nel bene e nel male, conduce fuori dall’infanzia. Allo stesso tempo sarà sempre lui a deludere le aspettative del ragazzo, ricorrendo a un buon senso derivante da una realtà, fin troppo vissuta nella sua lunga vita, in grado di sgretolare i sogni di chiunque: sorta di Armageddon sociale in arrivo, letale e invisibile come una nube radioattiva.
Paul va alla scuola pubblica e ha un solo amico: Johnny, un ragazzo di colore ripetente che vive con la nonna malata; vorrebbe fare l’astronauta, ma rischia di essere affidato ai servizi sociali. Questa amicizia non è ben vista in famiglia, come se minasse dalle fondamenta le ambizioni borghesi, sempre in ascesa, che saranno tipiche del decennio che sta per inaugurarsi. L’elezione di Reagan è vicina, lo spettro dell’Armageddon nucleare è agitato dal futuro presidente, il quale si pone come unico baluardo in grado di scongiurare questa evenienza. Stanno iniziando gli anni dello yuppismo, l’ombra del denaro (quello che c’è, ma soprattutto quello che manca e si desidererebbe avere più d’ogni altra cosa) è un’ossessione in filigrana che trapela dai discorsi degli adulti e dai loro comportamenti. Paul, dopo aver visto Kandinskij vorrebbe fare l’artista, continuare a frequentare la scuola pubblica e essere amico di Johnny. Però non è compreso, viene considerato lento, con la testa fra le nuvole, e quando lo scoprono a fumare una canna nei bagni della scuola, proprio insieme a Johnny, scatena le ire del padre che lo prende a cinghiate. Dopodiché, la decisione ferale: Paul smetterà di frequentare la scuola pubblica, giudicata un pessimo ambiente, dove sono ammessi anche “quei ragazzi di colore” (come Johnny, appunto) e verrà iscritto nella prestigiosa Kew-Forest School, istituto privato foraggiato dalla famiglia Trump, in cui studia anche il fratello Ted (sebbene questa scelta comporti enormi sacrifici economici per la famiglia Graff). Inoltre, a Paul sarà tassativamente proibito rivedere l’amico. Dovranno farlo clandestinamente, come novelli Tom Sawyer e Huckleberry Finn.
Malgrado le furiose proteste, per Paul inizierà una nuova vita: ancora fuori posto. Costretto in una soffocante uniforme scolastica (completo, cravatta e valigetta 24 ore al posto dello zainetto), il ragazzino si troverà catapultato in un ambiente omologante, fucina di futuri WASP rampanti, dove regnano razzismo e classismo. Finché, una notte, Paul e Johnny decideranno di fare i loro “400 colpi”: rubare un computer dalla scuola e rivenderlo; così Johnny potrà trovare i soldi per fuggire da New York, in direzione N.A.S.A., rincorrendo il proprio sogno di diventare astronauta. Scoperti dalla polizia, le loro strade si divideranno per sempre. Paul, grazie alla sua condizione privilegiata, verrà riconsegnato alla famiglia e Johnny invece sarà dato in pasto al proprio destino.
Tornato a scuola, Paul assisterà a un discorso motivazionale agli allievi dell’istituto, tenuto da Maryanne Trump Barry, sorella del futuro presidente Donald (interpretata da una Jessica Chastain feocemente gelida): un’arringa in favore dell’esclusività, della selezione e del privilegio, prodromi di un capitalismo cannibale che segnerà gli anni a venire fino ai nostri giorni.
Sarà in quel momento che, seguendo l’istinto della sua quieta ribellione (o quiet passion), Paul deciderà – forse per la prima volta nella propria vita – di compiere una scelta coraggiosa. Infatti, dopo che il suo sguardo avrà oltrepassato di nuovo i contorni dell’inquadratura, in direzione di Miss Trump (ma questa volta con piglio deciso e non trasognato), il ragazzo uscirà silenziosamente dalla scuola, andando incontro a una vita tutta da dipingere. Forse, in quel momento, la sua infanzia giungerà al capolinea; ma il gesto di lasciare quel luogo senza fare baccano, sarà di certo il primo passo per non essere più fuori posto.
Con questo film James Gray torna a ripercorrere temi a lui cari: la famiglia, i rapporti e le relazioni; l’identità, la ricerca di se stessi (o di un senso di se stessi), anche correndo il rischio di perdersi (Civiltà perduta, 2016; Ad Astra, 2019).
Dichiaratamente autobiografica, quest’opera col sapore di un racconto di formazione, ha il grosso pregio di “reffreddare” in una sintetica maturità – all’insegna della sottrazione – rischiosi eccessi emozionali, tenuti invece a briglia salda da un controllo registico partecipe ma equilibrato.
Il regista non scivola mai nella tentazione di ricreare un’atmosfera manieristica e colorita, da rievocazione vintage. Certamente la ricostruzione d’epoca è molto accurata, eppure lo sguardo di Gray è come quello di Paul: rapito nella sua trasognanza, eppure preciso nella restituzione. La fotografia livida, opaca e autunnale, di Darius Khondji, restituisce lo spirito di un tempo dalle tinte fosche, di certo non libero come un quadro di Kandinskij. In una scena importante del film, la maestra di Paul, nel commentare un suo disegno, osserva che il ragazzo ha talento; però ora deve realizzare un altro disegno in linea con il compito assegnato. Ossia, non deve essere fuori posto. Non c’è spazio per i Johnny, o per i novelli Holden Caulfield: stanno arrivando gli anni Ottanta.
Il film, al netto dell’assunto autobiografico, è l’affresco di un perido storico dove era indispensabile riuscire a non essere fuori posto, pena l’esclusione.
Nella sua elegante asciuttezza, probabilmente Armageddon Time è già un classico “in pectore”.
Forse perché, paradossalmente, nel panorama del cinema odierno sembra davvero un’opera fuori posto.
Come il suo protagonista.