Nel racconto L’intrusa di Jorge Luis Borges, pubblicato nella raccolta Il manoscritto di Brodie (1970), si racconta di due fratelli molto uniti – Cristiań e Eduardo Nilsen – il cui equilibrio affettivo e quotidiano viene sconvolto dall’interferenza di una donna: Juliana Burgos. Sebbene costei sia ufficialmente la fidanzata di Cristiań, il più anziano dei due, la sua presenza all’interno del nucleo famigliare crea forte scompiglio, perché anche Eduardo se ne innamora. Ne nasce così una sorta di triangolo relazionale che altera “l’habitat naturale” entro il quale sono abituati a vivere i due fratelli. Dopo diverse vicissitudini, che vedono il rapporto di Cristiań e Eduardo deteriorarsi sempre più, l’unica soluzione che si profila all’orizzonte pare essere quella di eliminare l’intrusa. I due decidono così di ucciderla e, una volta compiuto il gesto efferato, gli equilibri si riassestano e tutto quanto torna alla normalità (almeno apparentemente…).
Anche As Bestas, sesto film da regista dello spagnolo Rodrigo Sorogoyen, parla di intrusi e di intrusioni; ma questa volta l’ambito non è sentimentale (non prettamente, almeno…), bensì quello più concreto di una rude quotidianità legata alla terra. Una terra dura, per certi versi fertile, ma anche simbolo di una prigionia a cielo aperto per coloro che vi abitano: poche anime costrette a vivere di stenti, praticando una misera agricoltura rurale, pastorizia e allevamento di bestiame. Vite all’insegna di un costante logorio che non prevede un’orizzonte degli eventi in cui vi si possano dipingere prospettive diverse; solo fatica e disillusione.
Ispirato a un fatto di cronaca avvenuto nel 2010 a Santoalla, As bestas è ambientato a El Bierzo, villaggio della Galizia che si presenta come un piccolo mondo sperduto, accarezzato da un sole luminoso ma instabile, pronto a incupirsi repentinamente come l’umore dei propri abitanti. In questo contesto rurale, composto quasi unicamente da maschi, i capibranco paiono essere i due fratelli Anta: fattori dai volti ruvidi, marchiati a fuoco da livorosa spossatezza e legati alla propria terra d’origine – dalla quale non si sono mai spostati – per una sorta di predestinazione famigliare che assomiglia molto a una maledizione. Xan (Luis Zahera), il fratello maggiore, annega nell’alcool la frustrazione di cinquant’anni tutti identici, esercitando la liturgia del dominio nella luce smorzata del bar locale, tra un piccolo branco di bestie ammansite che da sempre gli concedono il ruolo di primo attore. Intelligente, infido e feroce, ha lo sguardo vibrante di un assassino in pectore; luce malefica emanata da occhi che emergono su un volto inciso come un campo perennemente dissodato. Suo fratello minore Lorenzo (Diego Anido), “spalla” fedele di Xan, è semplicemente un selvaggio inconsapevole della propria inebetita bestialità. Cresciuti tra animali da addomesticare, i fratelli Anta sono diventati due spietati caporioni (si veda l’emblematica scena iniziale), la cui brutalità è attenuata soltanto dall’attaccamento verso la madre: unica presenza femminile nella loro vita (che a differenza dei fratelli Nilsen, citati all’inizio, non si presenta come un’intrusa, anzi…).
In questo contesto ai confini del mondo, nonostante ci si trovi nel cuore dell’Europa, gli intrusi sono invece due coniugi francesi sulla cinquantina: Olga e Antoine Denis (Marina Foïs e Denis Ménochet). La coppia si è da poco insediata in paese per creare un’azienda agricola ecosostenibile. Colti e affiatati, di spirito umanista ma con conoscenze scentifiche e tecnologiche, i due hanno viaggiato il mondo (hanno anche una figlia ventenne, ragazza madre, che vive in Francia) e ora avrebbero un progetto – che forse sarebbe meglio definire sogno – volto a migliorare il loro nuovo habitat d’adozione: quel minuto lembo di Galizia. Olga e Antoine non solo stanno tentando di divulgare un modo diverso di coltivazione – un modo che nasce dallo studio e dall’amore per la terra – ma vorrebbero ristrutturare (senza nessuna spesa per gli abitanti di El Bierzo) le case abbandonate, per favorire il ritorno dei giovani e una certa forma di turismo non speculativo.
Tutti buoni propositi, ma visti dagli abitanti del luogo – in modo particolare dai fratelli Anta – come vezzi di due estranei, arrivati di punto in bianco, che pensano di poter imporre la loro cultura da “borghesucci” agiati.
Il problema della convivenza si complica, anzi esplode, quando un’azienda norvegese che produce pale eoliche propone un’ingente cifra agli abitanti del villaggio per ricoprire la vallata di turbine. I coniugi Denis si oppongono alla proposta, forti delle proprie convinzioni ecologiche, e l’affare salta.
Da quel momento non saranno visti solo come alieni snob, tutto sommato tollerabili, ma come veri e propri intrusi che hanno avuto l’ardire di fare “i padroni di casa” in una terra in cui, di fatto, sono forestieri. Ne nascerà una sorta di guerra fredda tra loro e i pochi abitanti del paese; ma saranno soprattutto i fratelli Anta, incolleriti, a intestardirsi nell’intento di convincere Olga e Antoine ad andarsene, partendo da dispetti via via sempre più gravi (come avvelenare l’acqua del pozzo dei coniugi), passando alle minacce, fino a compiere un gesto brutale e ferino che capovolgerà le sorti della narrazione (ovviamente, non si può rivelare…). È attraverso queste dinamiche a suspense crescente, dove i fatti vengono svelati per gradi, che emergono i temi del film: la terra “madre” come luogo di detenzione e condanna, ma verso la quale si nutre anche un senso di appartenenza; o la si vive comunque come una proprietà, sulla quale due estranei qualunque non hanno il diritto di mettere becco (concetto antitetico al pensiero di Olga e Antoine che, invece, hanno una percezione degli spazi e dei luoghi come beni collettivi). Ci si avvicinerebbe al paradosso, quindi, se non fosse che alla base c’è una questione tanto attuale, quanto eterna: il denaro. “Svendere” i terreni di El Bierzo consentirebbe agli abitanti del luogo di potersene andare, di concedersi la chance di una vita se non altro meno miserabile. In modo particolare, questa è la visione che hanno i fratelli Anta, disposti a tutto per vendicarsi dell’opportunità mancata a causa del “sabotaggio” inflittogli dai coniugi Denis. E su questo versante non c’è modo di intendersi, al punto che affiora un’altra tematica: l’incomunicabilità. Male sempre più diffuso in un mondo, come quello europeo, che si vorrebbe pensare civile, ma nel quale regnano ancora disparità e differenze culturali che paiono incolmabili (qui, ovviamente, portate all’estremo). Da questo punto di vista, è ammirevole il “dialogo fra sordi” che si svolge nel bar del paese, tra Antoine e Xan (con Lorenzo sullo sfondo ad osservare silenziosamente quella lunga gara di incompatibilità): camera fissa sui Mezzi Primi Piani dei due contendenti, tensione incalzante ma contenuta, battute secche e ficcanti (soprattutto quelle pronunciate da Xan).
Questa escalation di tensione, porta il film verso una situazione alla Cane di Paglia (Straw dogs, Sam Peckinpah, 1971), dove però le ragioni ecologiche e lungimiranti dei riflessivi coniugi Denis, valgono tanto quanto le motivazioni speculative e triviali dei fratelli Anta; perché entrambe sono il frutto di storie ed esperienze di vita diverse: all’insegna del privilegio quelle dei Denis; all’insegna di una barbara miseria quelle degli Anta. A tratti, Sorogoyen sembra quasi volerci suggerire che in un’epoca post-capitalista, come quella in cui viviamo, solo chi può permetterselo (economicamente) è davvero in grado di condurre un’esistenza basata su un’etica ecologicamente sostenibile e socialmente equa. Per gli altri si tratta di mera sopravvivenza: come le bestie, appunto.
Un messaggio decisamente pessimista, se non fosse che nella seconda parte il film prende un’abbrivio diverso. Entrano in campo le donne, che fino a poco prima erano figure quasi assenti: Olga, la figlia Marie (che appare per un fugace incontro/scontro con la madre che servirà a farle riavvicinare) e – almeno in parte – la madre dei fratelli Anta. La tensione cala e la ragionevolezza (seppure gestita da Olga con risoluta testardaggine) sembra prendere il proprio spazio.
Sorogoyen gestisce questo cambio di rotta narrativo verso una possibile risoluzione della vicenda, allentando tutto il crescendo che ha portato il film al suo violento acme, lasciandoci intuire che, forse, prima o poi, la ragione avrà la meglio sulla bestialità.