Civil War comincia nel momento in cui tutto è quasi terminato.
Si inizia un attimo prima di andare in onda.
Per certi versi, sembra di rivedere la splendente Jane Fonda all’inizio di Sindrome Cinese (di James Bridges, 1979) che si dà gli ultimi ritocchi prima di attaccare con l’ennesimo servizio televisivo: ambiziosa anchorwoman perennemente sulla rampa di lancio.
Eppure il contesto è molto diverso.
Le prime immagini di Civil War mostrano un “ipotetico” Presidente degli Stati Uniti d’America (ormai divisi da una guerra civile che grava sul Paese da un tempo indefinito), annunciare con tronfia fierezza alla Nazione – provando e riprovando la battuta – che ormai la guerra contro le forze secessioniste capitanate dalle WF (Western Forces) è giunta al termine.
La vittoria, secondo il Presidente – qualcuno l’ha già definita la più grande vittoria nelle campagne militari – è dietro l’angolo.
Non sarà così.
Civil War non inizia come un film distopico a suspense crescente (tipo The day After, di Nicholas Meyer, 1983), dove si introducono le storie dei vari protagonisti – spesso incrociate – che viaggiano parallelamente alla crescita esplosiva della tensione.
In Civil War siamo già dentro la guerra, dentro la narrazione attivata da un dispositivo precedente; come in Zombi, Di George A. Romero, o come nell’incipit di un film di Michael Mann.
Non servono neanche troppe spiegazioni, seppur fatte intuire allo spettatore.
La guerra civile è al suo apice e i protagonisti sono quattro fotoreporter – ognuno con il proprio background esperienziale, caratteriale e anagrafico – che decidono di muoversi verso la capitale (Washington D.C.) per registrare ciò che accadrà: ossia, l’inesorabile “deposizione” del Presidente.
«Noi registriamo perché gli altri chiedano», dice Kirsten Dunst con consumato cinismo.
Questo è il lavoro di un/una fotogiornalista.
Così, il viaggio dei quattro inviati inizia: breve Apocalypse Now, dove l’apocalisse sta per spegnersi e Kurtz (il Presidente) è già condannato dalla “Società dello Spettacolo”, ancora prima che lo faccia una sommaria corte marziale.
Civil War, regia di Alex Garland,. 2024. Clip «Voglio fare la fotografa di guerra»
The Players.
Lee (la succitata Kirsten Dunst): di fatto, il caposquadra. Sorta di “Willard” spenta da troppa vita vissuta. Vita di cui non sapremo mai nulla, se non dalle ceneri letterarie di un mito che si avvicina alla maceria. Un viso che, seppur giovane, è segnato da un’esistenza inconsciamente consacrata a una precoce dipartita.
Joel (Wagner Moura): volto drogato dall’irrinunciabilità al disastro perenne di un’esistenza come giornalista di guerra. Nei suoi occhi felini scintilla il reducismo desiderato e ottenuto, in un presente che si prefigura come un girone infernale impossibile dall’arrestarsi (il presente, quello vero).
Jessie (Cailee Spaeny): la rapacità di chi pensa che non avverrà mai il giorno in cui l’adrenalina cesserà di colpo e sarai tu il soggetto dell’immagine.
Sammy (Stephen McKinley Henderson): la saggezza che conserva ancora un’umanistica capacità di stupirsi, e soffrire, su un palco che ha calcato troppe volte senza trovare la buca del suggeritore.
Il cinema di Alexander Garland è fatto di personaggi che cercano un ordine nel disordine.
Spesso questo disordine nasce da un tentativo di assetto concepito dai personaggi stessi (Ex Machina).
Altre volte è semplicemente un disordine incontrollabile, seppure con un movimento regolato ma imprevedibile (Annientamento).
In Civil War si descrive, senza troppi preamboli, il caos di una società civile giunta al collasso e priva di metodi efficaci per sanare il proprio malessere interiore; disagio che si potrebbe definire atavico e che trova nella scena con protagonista Jesse Plemons la chiave di lettura del film.
Tutto questo sopravvive in un contesto dove l’immagine diventa l’essenza dell’esistenza.
“Registrare perché gli altri chiedano”.
Ma chi sono gli altri, in un contesto in cui per sentirsi assolutamente vivi bisogna vivere la più terribile delle paure? (battuta pronunciata dalla giovane Jesse e riportata qui in modo apocrifo).
Chi sono gli altri, nel momento in cui anche la persona che ti è più vicina, quasi in forma sacrale, diventa un “soggetto” da immortalare a imperitura memoria (memoria di chi, appunto? Visto che si va verso un successo svuotato da un possibile pubblico).
Nel 2017 uscì – prevalentemente su Netflix – Bushwick, film co-diretto da Jonathan Millot e Cary Munrion, in cui si narrava una storia analoga a Civil War (film più scadente, nonostante la buona intuizione di girarlo tutto con diversi piani sequenza). Improvvisamente, la zona di Bushwick, quartiere di Brooklyn, viene assediata da forze secessioniste che vogliono l’indipendenza dagli Stati Uniti. In questo caso si trattava di forze reazionarie e anti democratiche (si era nella prima epoca Trump). Analogamente, nel 2017 esce la serie cult The Handmaid’s Tale (tratta dal romanzo di Margaret Atwood, pubblicato nel 1985), in cui si narra di una società distopica nella quale – causa principalmente l’infertilità diffusa – movimenti oscurantisti di natura cattolica prendono il potere negli USA, trasformando il paese in un luogo “orwelliano”, dove la maggior parte delle donne sono unicamente asservite al compito di procreare.
In Civil War non ci sono premesse di nessun genere.
Eppure, si percepisce “l’ansia d’attesa” di una rivolta non ben definita, in cui l’ordine degli addendi non possa che rifarsi a quello della frontiera (il buon vecchio “Far West”).
Un po’ come se ci fosse sempre un uomo con i baffi e il “cappellone” a sparare verso l’obiettivo, guardando dritto in camera (The great train robbery, Edwin S. Porter, 1903).
In sostanza, come se la storia americana fosse un eterno bluff (cinematografico), destinato a farsi svelare dall’alto (Torri Gemelle, The Leftovers…), o dal basso.
Civil War.