Claude Cahun. Le parti pris des choses

Claude Cahun, Que me veux tu?, 1929

Per parlare degli oggetti realizzati da Claude Cahun, si può iniziare con una frase tratta dal suo articolo Prenez garde aux objets domestiques, pubblicato sulla rivista Cahiers d’art in occasione della prima mostra surrealista di oggetti, tenutasi alla fine di maggio del 1936 alla Galerie Charles Ratton di Parigi. «Insisto su una verità primaria: bisogna scoprire, maneggiare, addomesticare e fabbricare da sé oggetti irrazionali per apprezzare il valore particolare o generale di quelli che si hanno davanti agli occhi […]. È per questo che si comincia a giocherellare nelle tasche, e magari a svuotarle sul tavolo». Rovistare nelle tasche ricorda il gesto di cercare qualcosa, di trovare degli oggetti quasi per caso. Svuotarle sul tavolo fa pensare a qualcuno che dà ordine e organizza una scena, come fanno i bambini nei loro giochi, durante i quali gli oggetti cambiano funzione, si trasformano in qualcosa di nuovo e a volte possono anche prendere vita. Le tasche sono vicine al soggetto, in un certo senso ne fanno parte. È come se gli oggetti che contengono fossero nati dal soggetto stesso.
Gli oggetti di Claude Cahun, creati tra il 1926 e il 1936, sono assemblaggi temporanei, realizzati con materiali non durevoli, mise en scène i cui protagonisti sono le cose della vita quotidiana. Si tratta di oggetti usati, trovati, virtualmente “perduti”, avanzi che hanno attraversato il loro intero ciclo di vita, produzione-vendita-consumo, e per i quali l’alternativa è il ritiro dal mercato o la reintegrazione in un’altra dimensione.
In questi assemblaggi, ogni singolo oggetto può diventare un altro, prolungarsi in un altro o entrare in un complesso circuito di scambi di forme. Il principio che governa l’insieme è quello della fluidità. Il risultato è un effetto di instabilità, come se ogni assemblaggio o mise en scène possedesse proprietà multiple e intercambiabili. Manipolare, assemblare e incollare sono tutte operazioni che hanno già, come nei giochi dell’infanzia, un potere di rivelazione e liberazione.
Se pensiamo a Lévi-Strauss, che contrappone l’ingénieur al bricoleur, possiamo considerare che la Cahun prediliga il bricolage. Il bricoleur inventa soluzioni ridefinendo creativamente gli oggetti a sua disposizione. La produzione di oggetti non risponde più alle regole del mercato ma a quelle del desiderio, che la spinge a reinventare gli usi, a negare le origini della loro funzione, nell’atto di trovare e assemblare. La trouvaille, il ritrovamento, occasione di incontro e risonanza tra l’uomo e l’oggetto, diventa una re-trouvaille, una riscoperta.
Claude Cahun inventa nuovi oggetti, nel senso che il verbo inventare aveva originariamente nella lingua latina. «Inventare» significa trovare, con una sfumatura vicina alla scoperta. Non è un atto di creazione dal nulla, ma la realizzazione di qualcosa a partire da qualcosa che già esisteva. Le caratteristiche degli oggetti del bricoleur ricordano le qualità della «bellezza convulsiva» descritta da André Breton: «erotica-velata», «esplosiva-fissa», «magica-circostanziale». Le parole di Breton, basate sul modello dell’ossimoro, hanno lo scopo di designare il punto d’incontro tra dinamismo e stasi, come l’effetto prodotto dagli oggetti della Cahun, che non appaiono come modesti assemblaggi, ma come modalità per stabilire relazioni tra soggetto e oggetto. Le cose passano in lei e lei passa nelle cose, una con-naissance, una nascita insieme di soggetto e oggetto. L’oggetto diventa soggetto, protagonista. Non viene presentato come qualcosa di cui appropriarsi, perché l’arte lo allontana dal consumo e dallo scambio.
Come fa con gli oggetti, la Cahun prende il proprio corpo e lo sottopone a una riarticolazione senza fine. Insieme, formano una sorta di unità che non può essere divisa. Gli oggetti diventano un’ombra della sua identità, un riflesso del suo mondo. Le allusioni che provengono dalle cose non si svolgono in linea retta, come se fossero raggi di luce, ma secondo il modello della musica, dove, nelle variazioni, c’è una risonanza, un’oscillazione, un vagare che arricchisce di significato sia il soggetto sia l’oggetto. C’è una continuità tra gli oggetti effimeri e l’identità in divenire della Cahun, gli oggetti sono le ombre delle sue metamorfosi.
Brouiller les cartes. Masculin? féminin? mais ça dépend des cas. Neutre est le seul genre qui me convienne toujours, scrive in Aveux non avenus, disprezzando la naturale imperfezione di un corpo generato e rivolgendosi all’ambizione artistica della perfezione di un corpo ideale. I am in training don’t kiss me, si legge sul suo petto, in un autoritratto in cui è travestita da clown. Questo è il suo manifesto programmatico: non identificarsi con nessuno, progredire. In un fotomontaggio di Aveux non avenus, vediamo una sequenza di volti. Qui possiamo leggere Sous ce masque, un autre masque. Je n’aurai jamais fini de découvrir tous ces visages. Gli oggetti raccontano la storia della sua vita in perenne metamorfosi; sono la cassa di risonanza delle sue idee, passioni e fantasmi.

C. Cahun, S. Malherbe, Fotomontaggio, Aveux non avenus, 1930
Claude Cahun, Autoritratto, verso 1927

Un air de famille è l’immagine di un lettino, un giocattolo, un letto di bambola, su cui scorre un velo sostenuto da una corona floreale. Sul lenzuolo sono visibili diversi oggetti, come se fossero stati recuperati da un lontano passato. Il letto evoca sia una culla che una tomba. Al centro, sul supporto di legno che tiene fermo il velo bianco, c’è una foglia con un messaggio:
“dANGEr – manger – m ange z – menge – je mens – mange – ge manje”. Un air de famille è un autoritratto. Qui l’identità fluida è declinata attraverso un gioco linguistico in cui un piccolo spostamento delle lettere può provocare un cambiamento di significato: un angelo si nasconde nel pericolo, il suono del mangiare diventa impercettibilmente il silenzio del mentire, che si trasforma nuovamente nel suono invertito del mangiare. L’artista evoca la figura dell’angelo, il suo essere asessuato, e pone l’accento sul verbo mangiare, alterandone il significato fino a farlo emergere dal verbo mentire, mens, in un gioco di slittamenti di significato simile a quello dei travestimenti.

Claude Cahun, Un air de famille, 1936

In un’altra foto, in cui si vede la Cahun che sta dormendo sul ripiano di una credenza, ritroviamo la stessa atmosfera che ci riporta all’infanzia di Un air de famille. Siamo indotti ad attribuire un significato emotivo agli oggetti della casa, considerata quasi archetipicamente come un involucro di intimità, il primo mondo dell’essere umano, luogo in cui custodire i ricordi. Ma qui l’artista si trova in un posto dove non dovrebbe essere. Chi c’è nella fotografia? Una donna, una ragazza, una bambola? Dentro o fuori? Un ricordo d’infanzia o un sogno? Un soggetto o un oggetto? La Cahun si fa quasi oggetto domestico, sconvolgendo l’aspetto confortevole della domesticità e della casa con qualcosa di perturbante. In questa foto, i suoi occhi sono chiusi. Ci si chiede: sta dormendo o è morta? Sembra essersi trasformata nella bambola che avrebbe potuto dormire nel letto di Un air de famille.


Claude Cahun, Autoritratto, 1932
Claude Cahun, La chevelure , 1936

In un’altra foto, intitolata La Chevelure (I capelli), si vede una mano nera e rigida. Solitamente vista come un punto fermo, qui la mano è colpita da qualcosa che la minaccia. Il suo colore nero denota una natura patologica. E se la mano è il segno di una presenza, un segno che dice “sono stata qui”, il nero evoca il lutto. Ogni metamorfosi presuppone una morte simbolica, e ogni cambiamento nasce dall’enigma del possibile e dell’ignoto. Inoltre, la mano emerge da una massa informe e scura: una lunga chioma. Come in un rebus, i messaggi che gli oggetti lanciano, sembrano risvegliare frammenti di significato latente ed enigmatico. In questo caso, potremmo dire che i capelli ricordano la forma sinuosa di un serpente ed evocano una fotografia in cui la Cahun, con i capelli sparsi sul cuscino, si era ritratta in forma di Medusa. I capelli sono uno degli elementi attraverso cui compie le sue metamorfosi: completamente rasati, colorati, molto corti, hanno la stessa funzione degli abiti e delle maschere indossate per camuffarsi. I capelli richiamano anche la figura materna, come si legge in Confidences au miroir: «la mamma ha il sorriso tranquillo e la forma di una statua che ho visto a Parigi (…) I suoi capelli cadono, il suo viso è disfatto, viene portata via». Bisogna ricordare che sua madre ha trascorso molti anni della sua vita in un istituto psichiatrico, senza mai uscirne, e uno dei primi atti compiuti al loro interno era il taglio dei capelli.

Claude Cahun, Le père, 1932

Attraverso gli oggetti, Claude dissacra l’immagine del padre, ne denigra il potere e si vendica della sua ostilità. L’opera Le père è una figura androgina, che ricorda una marionetta i cui attributi sessuali maschili e femminili sono chiaramente in evidenza. Ma è anche una proiezione della stessa Cahun, del suo essere androgina. Il soggetto-Cahun può incorporare l’oggetto-padre. Non è solo il padre biologico che deve subire l’evirazione, ma tutti i padri. Si comincia con il Padre eterno e si continua con il “piccolo padre”. La bambola costruita con il giornale L’Humanité, organo del Partito comunista francese, obbediente a Stalin, è una presa in giro anarchica di coloro che pretendono di stabilire ruoli e gerarchie nel mondo terreno.
La fotografia documenta l’esistenza di questi oggetti. È la prova che questi oggetti sono esistiti. Nella fotografia le cose sono trasportate in un altro spazio, sospese nel tempo e protette il più possibile dall’oblio, dalla decadenza e dalla morte. La fotografia rende questi oggetti durevoli, li fissa nella loro muta persistenza. La loro esistenza diventa virtualmente infinita. La maggior parte delle foto sono frontali. Come suggerisce Olivier Lugon, la frontalità si rivela un segno, più che uno strumento di documentazione, tende ad assumere lo status di immagine-tipo, rendendo inutili le altre. In queste foto, la frontalità genera mistero, mostrando l’invisibile nel visibile, ciò che si intravede oltre la superficie, ovvero la vita e le passioni della Cahun.  Sono autoritratti. Ma se pensiamo a tutto quello che abbiamo detto sulla sua vita – metamorfosi, fluidità, ambiguità – c’è una contraddizione nell’atto di fotografare. Fissare oggetti effimeri in immagini è una forzatura, ma allo stesso tempo un compromesso con il proprio narcisismo, una scommessa sull’eternità nella consapevolezza di una mortalità inesorabile. È l’essere umano che si rifiuta di morire.
Una forma di titanismo: un atto di emancipazione da Dio.

 

Il testo qui presentato è un estratto dell’intervento letto in occasione del convegno internazionale Claude Cahun, inclassable et exemplaire” a cura di François Leperlier, Françoise Py e Georges Sebbag, Cerisy-la-Salle, agosto 2022.