Pubblichiamo il testo critico scritto da Giovanna Gammarota per il libro d’artista «Harnes» di Francesca Loprieno, in versione bilingue italiano/francese, un progetto edito da Esprit de l’Escalier, denominazione del duo artistico formato da Francesca Loprieno e Arianna Sanesi che si propone di studiare i processi della fotografia e dell’immagine attraverso i prismi della ricerca artistica, della process education e dell’editoria indipendente.
«Parto. Vado a Parigi per qualche mese e poi ad Harnes, dove è nata mia madre». Le fotografie sono sparse sul pavimento, Francesca le allinea per mostrarmi la sequenza e intanto parla dei suoi nonni, di quel paese piccolo piccolo che vuole vedere perché non riesce a immaginarlo, non riesce a immaginare come sia il posto in cui i suoi nonni sono emigrati, lassù, in Francia, e dove sua madre è venuta al mondo. La osservo. Osservo i suoi capelli ricci e morbidi, il suo corpo di donna che racchiude il cuore di una bambina. Un po’ la invidio. Parigi! E penso anche che ha coraggio, che questa sua caparbietà nel voler conoscere se la porta dentro da quando era piccola e osservava il mondo dei grandi di nascosto, fantasticando. È stata l’ultima volta che l’ho incontrata prima che partisse.
Sono passati anni e Francesca è ancora lì, a Parigi.
Naturalmente è andata ad Harnes, un paese talmente minuscolo da non essere segnato sull’atlante. Non diremo dove si trova esattamente, è un po’ come fosse un paese immaginario, inventato, il racconto di una fiaba. Ma, proprio come succede nelle fiabe, l’immaginazione prende il sopravvento sulla realtà. Fa pensare a tanti paesini che abbiamo nella mente ben riconoscibili perché assomigliano al nostro luogo dell’infanzia, ognuno di noi ne ha uno, se non vi si è nati vi è nata nostra madre o nostro padre o il nonno o la nonna. Un paese. Come quello che raccontano Paul Strand con le sue fotografie e Cesare Zavattini con i suoi testi. Un paese, come Scanno di Mario Giacomelli, ma con una differenza: le presenze ritratte da quegli autori erano reali figure di quei luoghi, di quel tempo. Francesca Loprieno, invece, ad Harnes cerca una memoria che le appartiene ma che non conosce perché non era lì nell’attimo in cui accadeva. Cerca persone che non ci sono più, in un paese straniero. I suoi occhi si posano sulle case, sui prati fioriti, sulle strade con un’ansia leggera, incline alla scoperta. Guarda, senza sapere cosa pensare e forse nemmeno cosa guardare. Il pensiero inquina le emozioni, guardare inquina la visione. Bisogna lasciar fluire le immagini, come quando si ascolta una musica sacra. È allora che prendono vita.
Non si vede mai la realtà vera ma una proiezione di ciò che immaginiamo, per questo per ognuno i luoghi, le persone, gli oggetti sono “diversi”. Ognuno possiede una propria visione che scaturisce dalle proprie suggestioni inevitabilmente legate al proprio vissuto. Si tratta di un concetto tanto semplice da apparire quasi banale ma non lo è poiché ciascuno è di fatto un essere unico, particella di un universo che si muove intersecando fra loro altre particelle che posseggono frammenti simili ma mai identici.
Questa idea pone in risalto il concetto di vicinanza tra gli individui e di fusione con il creato – inteso quest’ultimo come ciò che esiste indipendentemente dagli uomini – una condizione che accomuna lasciando al tempo stesso lo spazio necessario alla vita individuale.
Quelle che Francesca ha racchiuso in questo piccolo libro non sono solo fotografie, rappresentano la summa di molti anni di meditazioni durante i quali i ricordi e le visioni si sono mescolate [con]fondendosi alla vita quotidiana, al percorso che tutti i giorni Francesca compie – oggi – per recarsi a scuola, a insegnare le arti visive ai “suoi ragazzi” francesi. Sono i frammenti di un percorso che continua ancora – dall’altra parte – quella che si raggiunge quando si è scoperta la natura della propria esistenza, quando si è presa la decisione di varcare la soglia che dal mondo antico dell’infanzia permette di entrare definitivamente in quello presente dell’adulto.
C’è un momento in cui bisogna cominciare a togliere per poter vedere. È un lavoro che può durare a lungo perché è difficile abbandonare le cose, lasciarle andare, le si vorrebbe trattenere per sempre e invece occorre scegliere e a ogni scelta corrisponde una rinuncia. Rinunciare ha un significato tutt’altro che negativo, vuol dire ri-annunciare, cedere spontaneamente qualcosa che si possiede di diritto e annunciare nuovamente che non la si possiede più. Elaborare una condizione lungamente abitata porta inevitabilmente alla rinuncia, non può essere altrimenti, ed è soltanto quando si smette di trattenere che il profondo emerge a pelo d’acqua. Con questo lavoro e la sua caparbia volontà di conoscere e di cercare Francesca Loprieno ha scavato profondamente “togliendo” e “sacrificando” quanto più materiale emotivo possibile per giungere a uno stato di leggerezza e di compiutezza dell’essere.
È un libro leggero, Harnes, perché non serve raccontare ogni cosa, è tutto racchiuso lì, in quelle poche pagine, in quei pezzetti di fotografie che srotolandosi sul foglio avanzano legandosi l’uno all’altro come un filo che si annoda da solo in uno di quei racconti animati che ricordano un po’ i giochi di Munari (o le filastrocche di Rodari), quei giochi per bambini che servono di più agli adulti per tornare ad essere bambini, forse, per riannodare un altro filo interrotto, quello di un passato che ritorna.
Il passato torna sempre ma non sempre lo riconosciamo. È fatto di frammenti che si affacciano alla nostra porta pudichi, non vogliono essere lasciati andare, questo determina uno stato di incertezza nel quale si tende ad affidarsi ad essi pur senza riuscire a comprenderli completamente. I frammenti in fondo non sono altro che tasselli, non è indispensabile che combacino esattamente tra loro, non è necessario che il quadro si componga perfettamente. In verità occorre lasciare un po’ di spazio, qua e là, all’immaginazione. È necessario lasciare dei vuoti che accolgano il nuovo generato dall’accostarsi di ognuno di loro.
È un libro da immaginare, Harnes. Perché è soltanto attraverso l’immaginazione che le visioni scelte dall’autrice riverberano in quella memoria non-vissuta divenendo memoria vera. Esiste un ordine delle cose che non governiamo ma che se ascoltato ci conduce per mano verso un altrove collocato non importa dove, ciò che è importante è la rivelazione che si cela nel suo divenire. E ci si accorge, d’improvviso, che tutte quelle cose ci abitano.
I passi alle cinque del mattino
[…]
Il profumo, il gesto, il passaggio
È “l’inventario dei gesti mancanti”.
Il libro stesso è un inventario, una sorta di catalogo delle emozioni e dei ricordi, custoditi con devozione proprio come si fa con le foglie raccolte e celate tra le pagine di un libro tanto amato. Produrre elenchi emotivi è una delle passioni più stimolanti di cui l’autrice si serve non tanto per “allineare” concetti o immagini chiuse in un mondo personale quanto per “affrontare” l’emozione stessa che il ricordo emana, si chiama elaborazione.
Un pezzo di cielo, il frammento di una carta geografica, un cespuglio di rose, il retro di una vecchia fotografia, il bosco fuori dalla finestra distante quanto basta eppure vicino. Sembra quasi di sentire l’aria che scivola nel silenzio dello sguardo. La vita, la morte. “Inventario del non detto”. L’amore – se me ne andrò prima di te, ti aspetterò dall’altra parte – è la promessa fatta guardando negli occhi. Dove sono ora? Sembra chiedersi Francesca, e non c’è risposta più chiara e semplice di “non lo so”. E ci si accorge, d’improvviso, che non ha più importanza conoscere, che il viaggio non è approdato al sapere, che ogni cosa segue il proprio ordine, indipendente, sacro.
De l’autre côté
« Je pars. Je vais pour quelques mois à Paris, puis à Harnes où est née ma mère ». Les photos sont éparpillées au sol, Francesca les aligne pour me montrer la séquence et, ce faisant, elle parle de ses grands-parents, de ce tout petit village qu’elle veut voir car elle a du mal à l’imaginer, elle n’arrive pas à imaginer comment pourrait être l’endroit où ses grands-parents ont émigré, là-haut en France, et où sa mère a vu le jour. Je l’observe. J’observe ses cheveux bouclés et souples, son corps de femme qui renferme le cœur d’une enfant. Je l’envie un peu. Paris! Et je pense aussi qu’elle a du courage, que cette obstination dont elle fait preuve quand elle veut connaître, elle la porte en elle-même depuis qu’elle était petite fille quand, en cachette, elle observait le monde des adultes en rêvassant. C’était la dernière fois que je l’ai rencontrée avant qu’elle ne parte.
Les années ont passé et Francesca est toujours là, à Paris.
Elle est évidemment allée à Harnes, un village si minuscule qu’il n’apparaît pas dans l’atlas. Nous ne dirons pas où il se trouve exactement, un peu comme si c’était un village imaginaire, inventé, le récit d’un conte de fées. Mais, comme dans les contes de fées, l’imagination dépasse la réalité. Il fait penser à de nombreux petits villages que nous avons à l’esprit, facilement reconnaissables car ils ressemblent au lieu de notre enfance, nous en avons tous un, si nous n’y sommes pas nés c’est notre mère qui y est née, ou notre père ou le grand-père ou la grand-mère. Un village. Tel que celui que racontent Paul Strand avec ses photos et Cesare Zavattini avec ses textes. Un village, tel que Scanno de Mario Giacomelli, mais avec une différence : les présences représentées par ces auteurs étaient des personnages réels de ces lieux et de cette époque-là. Tandis que Francesca Loprieno cherche à Harnes une mémoire qui lui appartient, mais qu’elle ne connaît pas puisqu’elle n’était pas présente au moment de l’événement. Elle cherche des personnes qui n’y sont plus, dans un pays étranger. Ses yeux se posent sur les maisons, sur les prairies fleuries, sur les routes avec une anxiété légère, vers la découverte. Elle regarde, sans savoir que penser ni peut-être même quoi regarder. La pensée contamine les émotions, regarder contamine la vision. Il faut laisser les images affluer, comme quand on écoute une musique sacrée. C’est alors qu’elles prennent vie.
Nous ne voyons jamais la réalité vraie, mais une projection de ce que nous imaginons, c’est pourquoi les lieux, les personnes, les objets ne sons pas les mêmes pour chacun d’entre nous. Chacun possède sa propre vision, qui naît de ses propres suggestions liées inévitablement à son propre vécu. Il s’agit d’un concept si simple qu’il en paraît presque banal mais il ne l’est pas, puisque chacun est, de fait, un être unique, particule d’un univers qui bouge -en croisant entre elles- d’autres particules qui possèdent des fragments similaires, mais jamais identiques.
Cette idée met l’accent sur le concept de proximité entre les individus et de fusion avec la création – cette dernière étant entendue comme ce qui existe indépendamment des hommes- une condition qui unit, tout en laissant en même temps l’espace nécessaire à la vie individuelle.
Ce que Francesca a recueilli dans ce petit livre ce ne sont pas que des photos : c’est la somme de nombreuses années de méditations durant lesquelles les souvenirs et les visions se sont entremêlés en se [con]fondant à la vie quotidienne, au parcours que tous les jours Francesca entreprend – aujourd’hui- pour se rendre à l’école, pour enseigner les art visuels à “ses jeunes” français. Ce sont les fragments d’un parcours qui se poursuit encore – de l’autre côté- celui qu’on atteint quand on a découvert la nature de sa propre existence, quand on a pris la décision de franchir le seuil qui, du monde ancien de l’enfance, permet d’accéder définitivement dans celui -présent -de l’adulte.
Il arrive un moment où il faut commencer à retirer pour être en mesure de voir. C’est un travail qui peut durer longtemps car il est difficile de se séparer des choses, de les laisser aller: on voudrait les retenir pour toujours alors qu’il faut choisir, et à chaque choix correspond un renoncement. Renoncer a une signification qui est loin d’être négative : ça veut dire ré-annoncer, céder spontanément quelque chose qu’on possède de plein droit et annoncer de nouveau qu’on ne la possède plus. Élaborer une condition longuement habitée conduit inévitablement au renoncement, il ne peut en être autrement, et ce n’est que quand on cesse de retenir que ce qui est profond peut émerger à fleur d’eau. Avec ce travail et sa volonté têtue de savoir et de chercher, Francesca Loprieno a creusé en profondeur, “retirant” et “sacrifiant” autant de matériel émotionnel que possible, pour parvenir à un état de légèreté et de plénitude de l’être.
Harnes est un livre léger, car à rien ne sert tout raconter : tout est là, contenu dans ces quelques pages, dans ces petits morceaux de photographies qui, en se déroulant sur la feuille, avancent en se liant les uns aux autres, tel un fil qui se noue de lui-même dans un de ces contes animés qui rappellent un peu les jeux de Munari (ou les comptines de Rodari) : ces jeux pour enfants qui servent le plus aux adultes pour redevenir enfants, peut-être, pour renouer un autre fil interrompu : celui d’un passé qui revient.
Le passé revient toujours mais nous ne le reconnaissons pas toujours. Il est fait de fragments qui, pudiques, se penchent au seuil de notre porte, ils ne veulent pas qu’on les laisse aller, ce qui détermine un état d’incertitude dans lequel on a tendance à s’appuyer sur eux, sans être capable de les comprendre tout à fait. Les fragments, au final, ne sont autre que des éléments : il n’est pas essentiel qu’ils s’emboîtent les uns avec les autres avec précision, il n’est pas nécessaire que le tableau composé soit parfait. A vrai dire il faut laisser un peu d’espace par-ci, par-là, pour l’imagination. Il faut laisser des espaces vides qui puissent accueillir le nouveau généré par l’assemblage de chacun d’entre eux.
Harnes est un livre à imaginer. Parce que ce n’est qu’à travers l’imagination que les visions choisies par l’auteure se répercutent dans cette mémoire non vécue, devenant mémoire réelle. Il existe un ordre des choses qui ne peut pas être gouverné mais qui, s’il est suivi, il nous conduit par la main vers un ailleurs situé peu importe à quel endroit, ce qui compte est la révélation qui se cache dans son devenir. Et on se rend compte, tout à coup, que toutes ces choses nous habitent.
Les pas à cinq heures du matin. […]
Le parfum, le geste, le passage.
C’est “l’inventaire des gestes manquants”.
Le livre-même est un inventaire, une sorte de catalogue des émotions et des souvenirs, conservés avec dévotion tel que l’on fait avec les feuilles ramassées et conservées parmi les pages d’un livre qu’on aime tant. Produire des listes d’émotions est l’une des passions les plus stimulantes dont l’artiste se sert pas tant pour “aligner” des concepts ou des images enfermées dans un monde personnel que pour “gérer” l’émotion-même que le souvenir émane: ça s’appelle l’élaboration.
Un morceau de ciel, le fragment d’une carte géographique, un rosier, le dos d’une vieille photo, le bois qu’on aperçoit par la fenêtre, lointain ce qu’il faut et pourtant proche. On peut presque sentir l’air glisser dans le silence du regard. La vie, la mort. “Inventaire des non-dits”. L’amour – si je m’en irai avant toi, je t’attendrai de l’autre côté -, c’est la promesse faite en regardant dans les yeux. Où suis-je maintenant ? Semble se demander Francesca, et il n’y a de réponse plus claire et simple que “je ne le sais pas”. Et l’on s’aperçoit, tout à coup, que connaître n’a plus d’importance, que le voyage n’a pas mené au savoir, que chaque chose suit l’ordre qui lui est propre, indépendant, sacré.
(Traduction de l’italien par Serafina Loggia)
Il sito di Francesca Loprieno