Tratto originario, idea principale, forma inerente gli inizi, per Jung “immagine primordiale”, per i filosofi empiristi “sensazione primitiva che serve come punto di partenza per la costruzione psicologica di un’immagine”, per John Locke in particolare è “collezione di idee semplici che lo spirito assembla a se stesso”. L’archetipo è concetto complesso che, nei suoi molteplici significati, rinvia sempre alla genesi. Elementi trasversali alle culture, gli archetipi rinviano alla creazione originaria di componenti che la memoria via via sedimenta.
Dal latino archetypus, a sua volta derivato da due parole greche, archè (“inizio, principio originario”) e typos (“modello, marchio, esemplare”), in tedesco alla più comprensibile parola archetyp si affianca urbild, introdotta nell’uso della ricerca speculativa da Leibniz, passata poi a Kant e, da questi, a Freud, Jung, Adler, solo per citare i maggiori. Kant in particolare nella Critica del giudizio distingueva un “intelletto archetipo” (che è quello divino, che crea gli oggetti, pensandoli), da un “intelletto ectipo” (che è quello umano e finito, non creativo, ma solo discorsivo). “L’Archetipo – ha più tardi precisato Jung – è la tendenza a formare singole rappresentazioni di uno stesso motivo comune all’uomo, le quali, pur nelle specifiche variazioni individuali, continuano a proporsi come derivanti da un medesimo modello fondamentale”. Termine caro anche a Goethe, urbild è concetto ancora più profondo e originario di archetipo, esso è anello di congiunzione tra i concetti di pathosformel di Warburg e di “resto arcaico” di Jung.
Su questo tema complesso, applicato alla memoria del Salento, hanno ricercato (e stanno lavorando in previsione della mostra conclusiva) Gianfranco Basso (nativo di Lecce ma residente a Roma) e Francesca Loprieno (originaria di Trani ma attiva a Parigi), artisti invitati alla prima edizione di Red Lab Artist-in-residence, progetto di residenza artistica promossa da Red Lab Gallery di Milano. Obiettivo della residenza è la conoscenza attiva del territorio, sui paesaggi culturali presenti e passati, attraverso l’osservazione, lo studio e la rilettura delle immagini archetipali.
L’idea originaria è quella di porre in relazione (sinergica e mai forzata) due artisti differenti, uno che ha come mezzo privilegiato (ma non esclusivo) la fotografia, l’altro invece che non l’adopera o che l’adopera in modo secondario, subordinandola ad altre procedure espressive. Un dialogo tra i due che da un lato rispetta le scelte fin qui compiute dalla galleria (di occuparsi principalmente di fotografia) dall’altro apre nuovi scenari, come vuole “Tutte quelle cose”, rivista di cultura visiva contemporanea nata dalla Casa editrice Red Lab Edizioni, costola di Red Lab Gallery in continuità con il lavoro da essa compiuto, che tra i suoi assi di indagine prioritari ha proprio la memoria (più specificatamente l’area tematica è “Nel corso del tempo”).
Iniziata il 16 agosto e conclusasi dieci giorni dopo, la residenza è stata raccontata da chi scrive in un diario di bordo che presto diventerà un’edizione numerata ma che qui, per “Tutte quelle cose”, si è deciso di riassumere in un testo organico diviso in due parti.
In linea con le proprie ricerche ma contaminando i rispettivi mezzi espressivi, Basso e Loprieno nel corso della residenza si sono confrontati con i temi della memoria e dell’archetipo, conoscendo i luoghi ed entrando in contatto con le professionalità attive sul territorio, rintracciando così le origini della cultura salentina, tra folklore e letteratura, tradizioni manuali e miti ancestrali. Lunghe conversazioni telefoniche con gli artisti invitati, con la gallerista Lucia Pezzulla e con Giovanna Gammarota, direttore editoriale di “Tutte quelle cose”, incontri in videoconferenza e molte ore di riflessione hanno connotato la fase di preparazione del progetto, durata mesi.
Quella della residenza è oggi una pratica artistica assai diffusa. Forma di sperimentazione relativamente giovane (almeno nei suoi aspetti statutari), essa consente una relazione con il territorio, con la sua gente e la sua storia, portando ad un reciproco arricchimento tanto l’artista quanto la comunità ospitante. Tuttavia il termine “residenza” rinvia a un’idea di perdurante stanzialità che in alcun modo connota questa specifica pratica artistica, sempre circoscritta nel tempo, né lo stesso modus vivendi dell’artista, sempre di natura nomadica (così almeno dovrebbe essere). Meglio sarebbe forse parlare di “passaggio”. Ma questo termine tuttavia ha semanticamente un significato opposto a quello di residenza, denotando la non permanenza sul territorio, rendendo così difficile lo stabilirsi di relazioni, dialoghi e finanche discussioni, in altre parole a lasciare un segno il più possibile duraturo sulla terra e nella mente di chi la abita. Sarebbe allora più appropriato parlare di “transito”, o ancora meglio di “attraversamento”, parola questa che segna sì un passaggio ma che porta con sé, almeno figurativamente, l’immagine di un andare all’interno, di una conoscenza meno superficiale delle cose e dei fatti. A tal proposito trovo interessante che una delle sezioni della rivista s’intitoli proprio “Attraversamenti”, rafforzando ulteriormente il legame con il progetto di residenza.
La residenza è stata concepita come un viaggio creativo durante il quale gli artisti invitati hanno potuto abdicare alla loro comfort zone per dare origine ad una riflessione profonda sul territorio che momentaneamente hanno abitato. Nel primo incontro, svoltosi il 16 agosto nella sede leccese della galleria, oltre a stabilire il calendario di visite a maestranze e botteghe significative per l’identità salentina, sono emerse le prime linee di ricerca. Per Francesca Loprieno la fotografia è accumulo e catalogazione, ma anche relazione tra uomo e paesaggio. L’artista fin dal primo momento ha puntato a lavorare sull’antica arte del ricamo, in particolare sull’immagine delle ricamatrici, dando origine ad un memoriale. Incipit della riflessione, che in corso d’opera si è aperta al paesaggio, al mare in particolare, è stato il patrimonio conservato dalle donne nei bauli (quelle che nel Salento si chiamano casce), il famoso “corredo”, vera e propria dote per la donna, testimonianza di storia familiare, fatta di sforzi collettivi e di aspirazioni sociali. Un’accumulazione d’immagini di warburghiana memoria, attraverso cui Francesca, ad opere concluse, proietterà nel presente un sapere antico, raccontando storie personali che hanno però carattere universale, attraverso le quali sarà possibile rintracciare à reboursle immagini primordiali, gli archetipi.
Per Gianfranco Basso il ricamo è il mezzo espressivo prediletto, valido tanto sulla tela quanto nello spazio. L’artista, partendo dal cerchietto delle ricamatrici, ma anche dai tamburelli e dai setacci (denominati nel Salento farnari), è risalito al cerchio come forma archetipa, struttura primaria e generativa. Anche per lui il ricamo, seppur declinato su tematiche ambientali, ha costituito il viatico per l’urbild. Lavorare sul ricamo ha significato non solo confrontarsi con tutto un immaginario di motivi ma anche con l’idea del tempo che passa nel lavoro e nei ricami che si tramandano di madre in figlia, ha significato confrontarsi con l’idea stessa del conservare. È l’idea del tessuto come patrimonio tanto individuale (pensiamo alle carte dotali delle famiglie) quanto collettivo (il riferimento è al patrimonio ecclesiastico di paramenti sacri).
Punto di partenza della nostra indagine è stata, insieme a Lecce, la vicina Surbo, dove entrambi gli artisti hanno alloggiato e dove si sono svolti i primi, costruttivi dialoghi con la comunità ospitante. La residenza, fin dalle prime ore si è configurata come attività di esplorazione da tradursi poi in esposizione. Pensando a quest’ultima abbiamo deciso di iniziare la nostra peregrinazione da San Cesario di Lecce, piccolo paesino a sette chilometri dal capoluogo. Un luogo che non ti aspetti, immerso in un silenzio metafisico, anche in piena estate, quando il Salento, il tacco d’Italia, è terra di vacanzieri. Una sensazione di tranquillità che si fa ancora più pervasiva all’ora del meriggio, alla controra, quando la calura rende arduo camminare tra le vie e la luce solare, al suo apice, s’infrange sulle facciate dei palazzi, facendo risaltare la naturale colorazione della pietra leccese, dall’avorio al giallo paglierino. È partita da qui, da questo tipico paese salentino, la nostra esplorazione. San Cesario è luogo con un’insolita predisposizione all’arte, non solo per i suoi pregevoli beni architettonici: il Palazzo Ducale, la chiesa Matrice, la chiesetta romanica di San Giovanni Evangelista, il Santuario della Pazienza, moderna casa d’artista del primitivo Ezechiele Leandro, le cinque distillerie, veri e propri gioielli di archeologia industriale, ma anche perché qui sono nati non pochi artisti salentini del Novecento, oltre al già menzionato Leandro, anche i fratelli Carlo e Francesco Barbieri, Aldo Calò, Nullo D’Amato, Giovanni Valletta, Cosimo Damiano Tondo ed altri ancora. La piazza principale è contesa tra la Chiesa Matrice e l’antico Palazzo Ducale (oggi sede del Comune), in altre parole tra potere religioso e potere civile, uno di fronte all’altro, in un confronto che dura da secoli, ancor prima della fondazione degli stessi edifici. Splendida costruzione cinquecentesca, già protobarocca, il Palazzo Ducale s’impone maestoso. La sua facciata è stata decorata con grandi figure nel 1626. Un popolo di statue di pietra che sorvegliano la piazza e che da quattrocento anni s’impegnano in muto colloquio con la comunità locale. Anche noi abbiamo partecipato a questa conversazione secolare. All’ultimo piano il palazzo ospita il Museo Civico di Arte Contemporanea. La collezione contiene opere degli artisti nativi di San Cesario ma anche di altri. Spicca un bellissimo Ritratto maschile di Domenico Cantatore, opera giovanile dell’artista, prossima per stile all’Autoritratto conservato nella Pinacoteca Metropolitana di Bari. In esso si avverte ancora tutto il peso di Novecento. Francesca si è soffermata a guardare un’opera astratta di Romano Sambati, facente parte del ciclo “Rerum Naturae”. La Natura vi appare trasfigurata in una realtà altra, sovrasensibile. Gianfranco invece si è perso nei piccoli meandri dei battenti di Salvatore Saponaro. È il bozzetto a grandezza naturale della porta che lo scultore ha realizzato per il Duomo di Milano. Piccole sculture lo animano, ma senza troppi drammi chiaroscurali. Ci è sembrato un grande centrino. Conclusa la visione delle opere, siamo tornati al piano terra. Abbiamo visitato l’antica cappella palaziale. Qui i due poteri di cui si è detto hanno trovato una tregua. È questo un luogo che il tempo ha depauperato. Privata dell’altare e delle pitture che decoravano le pareti (forse ancora esistenti sotto pesanti strati di intonaco), la cappella è oggi un white cube che bene si presta ad altre funzioni, anche ad inediti dialoghi con l’arte contemporanea. Un luogo affascinante di cui tanto Gianfranco quanto Francesca hanno avvertito il fascino. Andiamo via con un nuovo bagaglio d’immagini e con la consapevolezza che a San Cesario torneremo per restituirgli in forme mutate quanto ci ha donato.
L’esplorazione, condizione necessaria alla residenza intesa come attraversamento, il giorno successivo ci ha portati nel basso Salento, prima a Casamassella, poi ad Otranto, località vicine eppure diverse. La prima, frazione del Comune di Uggiano La Chiesa, è altro tipico paese salentino, silenzioso e arcaico; la seconda invece è luogo turistico per eccellenza, affollato e mondano. Casamassella è località poco nota, estranea alle dinamiche vacanziere, ma non a quelle delle tradizioni popolari e degli antichi mestieri. Anzi sotto questo punto di vista è luogo centrale. Un protagonismo conferitogli dalla Fondazione Le Costantine, struttura fondata da donne per donne, impegnata nella tutela e nella promozione dell’arte della tessitura. Per raggiungerla abbiamo percorso un antico tratturo, affiancato da distese di ulivi, molti dei quali disgraziatamente bruciati dalla Xylella. Quella della Fondazione è una storia affascinante. È nata ufficialmente negli anni Ottanta, ma le sue radici affondano agli inizi del Novecento, quando due donne, un’americana e una nobildonna locale, scelgono la tessitura come strumento di emancipazione femminile. Con estremo pragmatismo comprendono che la tessitura poteva essere un mestiere in grado di consentire alle donne di affrancarsi dalla dipendenza maschile. Il principio era semplice: se lavoro guadagno e posso emanciparmi. La vera fondatrice tuttavia è stata Giulia Starace, discendente della nobildonna, che due anni prima della morte, nel 1982, dopo una vita di impegno sociale e civile, ha dato origine a quanto oggi vediamo. Una vita vissuta per gli altri, in particolare in favore delle donne e dei bambini, che in paese fa nascere il detto “Vanne da Donna Giulia ca te sana” (Vai da Donna Giulia che avrà cura di te). La produzione odierna della Fondazione è varia e tutta raffinatissima. Si pratica ancora l’antico fiocco salentino, un punto a rilievo che rende il tessuto prossimo ad un bassorilievo. Ad accoglierci è stata Maria Cristina Rizzo, che dal 1998 dirige Le Costantine con tenacia, competenza e totale dedizione. Vediamo le tessitrici lavorare. Gianfranco ne è letteralmente rapito. Avvolte dalle strutture lignee dei telai, le loro mani scorrono veloci tra i fili tesi dell’ordito, componendo trame con motivi decorativi antichi, desunti dall’ampio archivio della Fondazione (oggi tutelato dal Ministero della Cultura), ma anche motivi composti ad hoc, richiesti da artisti, architetti, designers, creativi di ogni genere. Tra gli ultimi in ordine di tempo anche Maria Grazia Chiuri, art director di Christian Dior. L’attività prioritaria è quella della tessitura, ma l’impegno della Fondazione si esplica anche nella formazione dei giovani, nella falegnameria e nell’agricoltura biodinamica. Subito dopo abbiamo fatto un giro nelle terre attigue, scoprendo angoli magici. Gianfranco ha ritrovato cerchi ovunque, dalle sedute poste ai piedi di una grande quercia all’aia per la macinazione del grano. Francesca ha indugiato sui pertugi di luce che si aprivano tra le foglie. Erano ricami di cielo. Abbiamo scoperto anche un’affascinante arnia semicircolare oramai in disuso. Lucia, la nostra gallerista, che di questi luoghi è originaria, ha ricordato momenti d’infanzia. Abbiamo salutato e ringraziato chi ci ha accolto, a cominciare dalle tessitrici, le nostre mesce (“maestre” in salentino). La nostra gratitudine è grande per quanto ci hanno donato.
Riprendiamo il percorso e poco dopo giungiamo ad Otranto. A Torre Matta, antico presidio militare oggi luogo per l’arte contemporanea. Qui abbiamo incontrato Davide De Notarpietro e Francesco Scasciamacchia, fondatori di Cjiaru, associazione che da due anni lavora in senso transfrontaliero, sostenendo e promuovendo le ricerche artistiche contemporanee. L’artista invitata in questo secondo anno di attività è Maria Papadimitriou, autrice greca di fama internazionale. Nei giorni di permanenza nel Salento l’artista ha esplorato il territorio, conoscendo luoghi e antichi saperi. Incipit della sua riflessione è il notissimo mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto, realizzato tra il 1163 e il 1165 dal presbitero Pantaleone, vero e proprio serbatoio di immagini archetipiche, di pathosformel per dirla con Warburg. Troni lapidei decorati a mosaico, blocchi in pietra leccese solo in parte scolpiti e riproducenti esseri zoomorfi, bacini in terracotta, un uomo-caprone come idolo antico, una Torre di Babele franata, mantelle ricamate dalle Costantine e tronchi di ulivi attaccati dalla Xylella, rievocativi degli squilibri ambientali, sono queste le opere di Maria, che insieme alla sua raffinata visionarietà testimoniano la stretta collaborazione con le maestranze locali: lapicidi, mosaicisti, tessitrici, contadini, pastori. L’artista riformula i motivi iconografici e decorativi del mosaico creando un percorso capace di richiamare immagini da Salento arcaico, da Grecia arcaica (vi è differenza?). Scene da Medea pasoliniana che compongono un tracciato coinvolgente, dal quale ci sentiamo avvolti. Nella circolarità della torre risuonano i gorgheggi di Demetrio Stratos. Andiamo via accompagnati da questi suoni a tratti stridenti eppure affascinanti, rievocativi di un mondo lontano nel tempo, che anche noi ricerchiamo e al quale vogliamo attingere.
[continua]
Le immagini che accompagnano il “Diario di bordo” sono state realizzate durante lo svolgimento della Residenza.