Pubblichiamo la seconda parte del Diario di bordo di Carmelo Cipriani, curatore di URBILD. RedLab Artist-in-Residence #1 che ha visto impegnati sul territorio leccese gli artisti Francesca Loprieno e Gianfranco Basso dal 16 al 26 agosto.
.[…] Le idee procedono di pari passo con le suggestioni e, giunti al giro di boa, la residenza ha iniziato a dare i suoi frutti. Come auspicato, l’attraversamento ha portato con sé la conoscenza di luoghi e fatti, mentre l’esplorazione è sfociata progressivamente in creazione. Abbiamo proseguito sulla via indicata dalla memoria e dalla materia alla ricerca dell’urbild. Dopo San Cesario, Otranto e Casamassella, siamo tornati a Lecce, tra le capitali europee del Barocco, paragonata per questo, con definizioni iperboliche, ad Atene o Firenze. Qui abbiamo scoperto l’antica tecnica della cartapesta, vera peculiarità del territorio salentino. A mostrarcene i segreti, tra storia e tecnica, è stato Mario Di Donfrancesco, il più noto tra i maestri cartapestai leccesi. La cartapesta affonda le sue radici tra XVI e XVII secolo, quando artisti del calibro del Sansovino e di Bernini ne fanno largo uso, specialmente nella fase progettuale. Ma è soprattutto nel corso del Novecento che l’arte della cartapesta ha ricevuto un impulso notevole. Il successo è dovuto principalmente all’economicità e alla trasportabilità delle statue, fattori che l’hanno fatta preferire a quelle in legno. Un successo che prosegue ancora oggi, come ha spiegato il nostro ospite, dovuto alla creazioni di nuovi santi (Padre Pio è tra i più richiesti) e al progressivo innalzamento di età dei portatori di santi. Al suo successo tuttavia ha contribuito anche il crescente interesse verso questa antica tecnica da parte di artisti contemporanei. Di Donfrancesco nel corso della sua carriera ha lavorato con e per diversi creativi. Il più noto di tutti è Luigi Ontani, del quale conserva, oltre al calco del volto (che non abbiamo avuto difficoltà a riconoscere tra le decine di fregi, teste, mani, piedi, in cartapesta e terracotta, appesi alla parete), ma anche un doppio ritratto focheggiato di Pinocchio e Dante, tra i più tipici travestimenti dell’artista emiliano. Né Francesca né Gianfranco hanno resistito alla tentazione di farsi fotografare con quella maschera.
Mario ancora ricorda il momento in cui, vent’anni fa, Ontani era con lui in bottega e creava poche, selezionatissime opere, plasmando, colorando, focheggiando. La focheggiatura è nella cartapesta il momento che precede l’applicazione del gesso. Dopo aver foggiato il corpo applicando la paglia su un’anima in fil di ferro si inizia ad applicare la carta. Il vero segreto della cartapesta è il collante denominato, in dialetto salentino, ponnula la cui consistenza deve essere come “quella della crema del pasticciotto”. Affinché la carta incollata assuma maggiore resistenza viene levigata con un ferro riscaldato che in taluni punti la brucia dandole un particolare aspetto a macchie. Successivamente si applica sopra il gesso e il colore. Angelo Capoccia, il maestro di Mario, è stato il primo a comprendere che la statua focheggiata poteva avere già una sua valenza estetica. Nel proseguire la visita, Mario ha avvertito: “la bravura di un maestro si riconosce subito dai volti e dalle mani”. Lui in tal senso non teme rivali. Non solo ha appreso l’arte da un grande, ma continua a praticarla utilizzando i calchi di altri grandi. Davanti a noi si è aperto uno stanzino stretto e lungo. Su scaffali di ferro erano stipati centinaia di calchi, molti dei quali di Luigi Guacci, ma anche di Pietro Indino e dello stesso Capoccia. Allora le foto storiche appese alle pareti che riprendono l’antico laboratorio di Guacci agli inizi del Novecento ci sono apparse più chiare. Mario ci ha mostrato con orgoglio quei calchi ma allo stesso tempo si è preoccupato del loro destino. Nessuno dei suoi tre figli proseguirà la sua strada. In assenza di una specifica tutela quei preziosi calchi potrebbero perdersi. Gianfranco è affascinato dal procedimento tecnico della cartapesta. Poneva domande e ascoltava estasiato tanto il maestro quanto i suoi collaboratori. Francesca invece girava in solitaria per la bottega. Sembrava rapita dai soggetti: cuori, mani, visi, fiori, il tutto sospeso in un’insolita atmosfera tra sacro e profano. Abbiamo salutato Mario, non senza però fargli delle richieste specifiche. Francesca e Gianfranco hanno scelto entrambi di avvalersi della sua maestria. L’obiettivo dell’interazione con le maestranze del luogo è raggiunto e la nostra residenza, fondata all’esplorazione, ha iniziato concretamente a tradursi in esposizione. Per Gianfranco e Francesca la giornata di esplorazione è proseguita nel pomeriggio a Surbo, dove hanno incontrato la ricamatrice Maria Centonze. Tanti centrini, nuove conoscenze, tante foto e nuove riflessioni.
Il viaggio si sa richiede delle soste. Dopo la necessaria pausa di riflessione di sabato e domenica, durante la quale i nostri due artisti hanno potuto meglio elaborare e interiorizzare quanto visto e fatto, abbiamo ripreso il nostro attraversamento del territorio salentino. Abbiamo proseguito con l’esplorazione di Lecce. Abbiamo visitato un laboratorio di restauro di opere d’arte nel centro storico. L’incontro è stato a Porta Rudiae, una delle tre porte di accesso al centro cittadino, così denominata perché guarda all’omonimo insediamento messapico, noto per aver dato i natali al poeta latino Quinto Ennio. Superata la porta si è aperta, in un immediato colpo d’occhio, via Libertini, una delle vie del barocco leccese. Conduce fino a piazza Sant’Oronzo, cuore laico della città, sede del Comune. Su di essa affacciano, in ordine, la chiesa del Rosario, l’Ospedale dello Spirito Santo, la chiesa di Santa Elisabetta, la chiesa di Sant’Anna, la chiesa di Santa Teresa, Piazza Duomo, la chiesa di Sant’Irene e molti dei più bei palazzi nobiliari leccesi. Abbiamo percorso quattro secoli e più di storia. Alla mente ritornavano le parole di Martin S. Briggs (In the Heel of Italy, Londra 1910):
«Gli edifici di Lecce sono interessanti, pittoreschi, arditi, e se fossero disposti in ordine su due linee parallele formerebbero una delle più belle vie d’Europa».
Con lo sguardo in alto, tra i ricami di pietra, Francesca e Gianfranco ricercavano le pathosformel, le immagini primordiali. Osservavamo e ci sentivamo osservati. Siamo poi arrivati a destinazione. Il luogo era di per sé suggestivo: un antico convento trasformato nel corso dei secoli prima in palazzo nobiliare e poi in un più intricato groviglio di ambienti residenziali. L’oggetto d’indagine primario della residenza è la memoria del luogo e qui ne abbiamo trovata tanta. Era la memoria delle opere in restauro, appartenenti tanto ad enti pubblici che a collezionisti privati, in una combinazione tra storia collettiva e dimensione individuale. Si vedeva e si respirava la pittura. La maniera più rappresentata era quella caravaggesca, con neri che ingoiavano e potenti chiaroscuri. Non poteva essere diversamente: quelli tra Sei e Settecento furono i decenni di massimo splendore per Lecce e il Salento. Tuttavia alcuni dipinti si imponevano per accensioni cromatiche. Ricordavano stilemi tardomanieristi e altre scuole, diversa da quella napoletana, predominante in Puglia. Quella della pittura è un’altra anima del Salento, che Francesca e Gianfranco dovevano conoscere. Ad accoglierci è stato il titolare del laboratorio, Marco Fiorillo, restauratore accreditato presso la Soprintendenza, formatosi a Firenze con importanti esperienze all’Opificio delle Pietre dure e al fianco di restauratori del calibro di Paolo Gori (restauratore di Giotto, Beato Angelico, Parmigianino).
Il laboratorio ci è apparso un luogo magico. Al momento della nostra visita aveva appena concluso uno dei suoi restauri più prestigiosi: la tavola della Madonna del Carmelo della prima metà del Cinquecento, di scuola veneta, del Museo Diocesano di Lecce. Marco ci ha mostrato le opere a cui stava lavorando. Piccole tele ma anche grandi pale d’altare. Ci ha spiegato alcune fasi del mestiere: la rifoderatura, il rigatino, la pulitura. Ogni opera ha una storia a sé e per questo va trattata con interventi specifici. Sono stati fatti nomi importanti, da Palma il Giovane a Battistello Caracciolo, fino allo stesso Caravaggio. Nelle parole come nei dipinti la memoria si stratificava. L’idea che su quelle tele hanno lavorato antichi pittori è di per sé affascinante. I nostri artisti ascoltavano incuriositi. Gianfranco ricordava le lezioni di restauro all’Accademia di Roma. Francesca si è rammaricata per non averle seguite. Giravamo indisturbati nel laboratorio. Gianfranco dialogava, Francesca fotografava. Abbiamo visitato anche l’attiguo cortile, è tutto ciò che resta dell’antico chiostro conventuale. Tra piante monumentali e antichi resti i nostri artisti hanno trovato nuove suggestioni. Conclusa la visita ci siamo diretti verso un altro luogo. Una tappa non prevista ma necessaria: lo storico negozio di Belle Arti Caiulo. È il luogo prediletto dagli artisti salentini. Anche qui la memoria certo non fa difetto. Il tempo di qualche acquisto, di poche parole e salutiamo il negoziante, figlio dello storico fondatore. Nella vicina Piazza Sant’Oronzo ci salutiamo anche noi. L’incontro è fissato al giorno successivo, 24 agosto, in galleria per un importante incontro di riflessione condivisa e partecipata.
Con questo incontro Red Lab Artist-in-Residence #1 si è avviato alla conclusione. Nei due giorni successivi (la fine della residenza è stata fissata al 26 agosto), ma anche in quelli a venire, Gianfranco Basso e Francesca Loprieno hanno continuato a riflettere e a creare le loro opere, singolarmente o congiuntamente, sempre in dialogo. Ma prima di congedarci abbiamo ritenuto doveroso intraprendere una prima azione di restituzione al territorio. Per questo la sera del 24, con gli artisti e la gallerista, Lucia Pezzulla, abbiamo incontrato il pubblico nella sede leccese di Via Bonaventura Mazzarella, nel tentativo di riconsegnare, in forme nuove, quanto ci è stato donato. Abbiamo accolto il pubblico in una galleria trasformata in laboratorio, in luogo del pensiero e delle parole. Per l’occasione ho chiesto a Francesca e Gianfranco di esporre in galleria gli oggetti raccolti nel periodo di residenza. Non opere ma elementi significativi attraverso i quali spiegare il loro percorso di esplorazione all’interno del Salento; testimonianze oggettuali di un’esperienza che è esteriore ed interiore insieme, ma anche metafore del loro recente vissuto, foriero di riflessioni individuali, di trasformazioni interiori e, perché no, di ripensamenti. Un incontro necessario, che da un lato ci ha permesso di restituire con le parole, gli oggetti e le immagini quanto (ap)preso nei dieci giorni di esplorazione, ma anche di fissare i tratti fondamentali delle prossime ricerche, quei punti fermi da cui tanto Gianfranco quanto Francesca, nel loro ininterrotto dialogo, sono partiti per la creazione dei lavori di residenza.
Un’esperienza lavorativa che, fin dalle prime ore, si è trasformata in esperienza di vita, non solo per le relazioni instaurate, amicali prima che professionali, consolidate in ore di visite condivise, incontri conviviali e lunghe discussioni, ma anche per le consapevolezze acquisite. Il lavoro sugli archetipi ha consentito ai nostri artisti (e non solo) di riflettere sulla comune origine pugliese (ma il ragionamento è estendibile a qualunque altro luogo), intesa non semplicisticamente come provenienza, ma come conoscenza di un territorio al quale si sente di appartenere ma del quale si conosce poco, forse molto, ma certamente non tutto. Francesca e Gianfranco sono entrambi pugliesi ma da anni vivono in altri luoghi, rispettivamente Parigi e Roma. Per loro svolgere una “residenza” in Puglia è sembrato quasi paradossale, almeno agli inizi. È stato come essere ospiti in casa propria. Questo ha fatto sì che entrambi vivessero le prime fasi di residenza con una pervasiva sensazione di spaesamento. Eppure proprio questo distacco ha consentito loro di guardare con nuovi occhi alla terra pugliese (il termine “terra” è da intendersi non come suolo ma come insieme inscindibile di storia e cultura che su quel terreno si stratificano). Uno sguardo né interno né esterno ma ibrido. I loro occhi sono quelli di chi la terra pugliese l’ha lasciata, di chi la conosce o meglio crede di conoscerla, ma di fatto la scopre “nuova”. La novità non è nella cosa in sé ma è in quegli occhi finalmente liberi da presunzione di conoscenza. Lavorare sulle immagini primordiali, quindi, ha significato entrare in contatto con le radici di un territorio e scoprire che sono anche le proprie. La consapevolezza acquisita è quella di non poter dare nulla per scontato. La conoscenza impone l’attraversamento, ma quest’ultimo, per essere tale, richiede la messa in discussione, l’abdicazione di ciò che è familiare e una continua esperienza di spaesamento. Il Salento è luogo che bene si presta a questo tipo di esperienze; è luogo che più e meglio di altri ha conservato le proprie tradizioni. Lo dimostrano le molte maestranze visitate ma anche i tanti racconti ascoltati. Il suo attraversamento ha fatto sì che entrambi i nostri artisti si interrogassero su come sia possibile vivere un territorio (che è anche il loro) attraverso l’arte. Da qui l’importanza di scoprirne gli archetipi, di risalire a quelle immagini primigenie che entrambi, attuando un’estrema sintesi, hanno ricondotto al cerchio. Francesca ha ritrovato le origini del suo essere figlia e donna nei centrini illustrati dalle tessitrici della Fondazione Le Costantine, di Maria Centonze, ricamatrice di Surbo che l’ha accolta in casa raccontandole le storie di quante le commissionano quei ricami, e di anonime donne di un mercatino dell’usato che le hanno insegnato a distinguere fattura e qualità. Tante parole per altrettante visioni che, nella mente dell’artista, si sono trasformate in un’unica immagine archetipica, tanto estranea quanto affascinante: quella della donna che ricama per qualcosa o qualcun altro ma anche per sé, facendo del suo sapere un carattere distintivo ma anche il segno di appartenenza alla propria cultura. Non diverso il ragionamento di Gianfranco che nel pianto della terra flagellata dalla Xylella ha riconosciuto il suo pianto, quello dei suoi avi e di tutta una comunità che ora si stringe attorno a quel luttuoso velo nero che l’artista ha scelto di portare in galleria, appendendolo alla parete e rompendo il candore dei centrini bianchi disposti da Francesca. Lutto, dolore, tragedia ma anche speranza, quella rappresentate delle radici plasmate in tanti cerchi intrecciati o del ramoscello d’ulivo (uno dei tanti malati e tagliati) chiuso a formare un uroboro, simbolo ancestrale di rinascita. La speranza è tale solo in assenza di certezza. Di qui la scelta di ricamare la scritta “Forse” su un setaccio (l’antico farnaro), strumento fondato sul sì e sul no, che distingue ciò che passa da ciò che non passa. Gianfranco insinua il dubbio anche nella più solida delle certezze, parafrasando quello spaesamento a cui facevo riferimento, esperienza immancabile in ogni autentica azione di ricerca.
Le immagini che accompagnano il “Diario di bordo” sono state realizzate durante lo svolgimento della Residenza.