«E lo sognavo, e lo sogno, e lo sognerò ancora»

Senza lasciare traccia , film diretto da Debra Granik, USA 2018

Qualche tempo fa, nel novembre 2021, sono stata coinvolta dall’amico Sergio Di Giorgi, critico cinematografico e nostro collaboratore (prematuramente scomparso, purtroppo), in una seduta di Social Dreaming. Sergio ne aveva già parlato dalle pagine di questa rivista prendendo spunto dal film di Sophie Bruneau  Rêver sous le capitalisme (2017) trasmesso sulla piattaforma Arte Tv nell’inverno del 2020, in piena pandemia da Covid-19.
Bisogna dire innanzitutto che il metodo del Social Dreaming (letteralmente sognare sociale, estendibile al concetto di sognare insieme) attribuito al socio analista inglese Gordon Lawrence (1934-2013), è oggi ampiamente utilizzato in svariati ambiti dalle aziende alle scuole, fino ai luoghi di guerra. L’intento è quello di attivare il pensiero collettivo e creativo aiutando così i partecipanti a comprendere il contesto sociale. L’associazione al cinema, la fabbrica dei sogni per antonomasia, ha fatto sì che da tale pratica emergessero spunti esplorativi stimolanti riposti nell’immaginario.
La pratica prevede che un gruppo di persone si riunisca per guardare un film, utilizzato come strumento facilitatore del sogno degli spettatori. I partecipanti s’incontrano di nuovo la mattina successiva. Quindi, partendo da una “matrice” proposta da un host, si apre uno spazio che consente di sperimentare la condivisione di sogni e di ricordi non più come realtà individuali ma come espressione di un patrimonio comune. La matrice – dal latino mater – nel suo significato di utero, permette questa trasformazione poiché, come affermava Lawrence, diviene il «luogo dove nasce qualcosa e dove non c’è la tirannia di appartenere a un gruppo, perché il tramite del discorso è il sogno e non l’individuo». La locuzione “tirannia” (di appartenere a un gruppo) è a mio avviso molto interessante, poiché si basa più sul concetto di branco, che non pensa, piuttosto che su quello di comunità che cerca di conoscere per accettare e “guarire”.

Una scena del film Senza lasciare traccia, diretto da Debra Granik, USA 2018

Questo si riallaccia in qualche modo al proposito di voler conoscere e controllare ogni cosa in dettaglio (tipico del mondo contemporaneo), in ogni forma – dunque anche in quella del sogno che sfugge al controllo nonostante la pressione psicanalitica, ultimo baluardo di liberazione – e a come questo comportamento allontani dalla realtà. L’ossessione di conoscere diventa lo scopo, trasformandosi in una pratica che porta l’individuo a trascendere la vita stessa in cui è immerso. La realtà è multiforme, cambia a seconda dello sguardo, dell’approccio, dell’interesse di ognuno nei suoi confronti, nei confronti dei suoi dettagli. Il Social Dreaming può essere un “metodo” che aiuta a “guarire” dalla realtà individuale e ossessiva.
Per tornare alla pratica cui ho partecipato, uno degli spunti offerti dai conduttori andava proprio in questa direzione: tenere uno sguardo aperto nel campo visivo. Ciò riguarda una questione di cui ho scritto varie volte in passato e cioè: osservare l’insieme e il dettaglio allo stesso tempo, prestando a entrambi la medesima attenzione poiché l’uno non può esistere senza l’altro. Questo aspetto riverbera anche nella pratica dell’ascolto, ma necessita, inevitabilmente, di un approccio “nuovo”. La pratica del Social Dreaming può ricoprire questo ruolo.
Ascoltare implica mettersi in qualche modo all’altezza di chi sta parlando senza prevaricarlo. Ricordo che in quell’esperienza, ascoltando gli altri partecipanti, ho cercato di non “anteporre” il mio pensiero al loro, di ascoltare davvero cosa avessero da dire in totale assenza di giudizio (spesso infatti tendiamo, anche involontariamente, a giudicare le parole altrui). Devo ammettere che appare sempre un po’ di isolamento in questo tentativo, una sorta di chiusura verso il proprio interno, verso la propria opinione che si vuole, a volte, proteggere a tutti i costi.

Una scena del film Senza lasciare traccia, diretto da Debra Granik, USA 2018

Il film suggerito dai conduttori in quell’occasione è la storia di un padre e di una figlia adolescente che vivono accampati in un parco (nelle dimensioni del paesaggio statunitense, per definizione immenso, tale luogo assume le fattezze di una vera e propria foresta). Prendendo un sentiero che parte dal ciglio della strada carrabile i due protagonisti si addentrano facilmente in quello che quasi istantaneamente diventa un intricato tessuto di alberi e arbusti, un mondo “altro” che può far perdere le tracce, precipitando l’individuo in una condizione totalmente diversa poiché non vi sono più i normali termini di riferimento. Il titolo del film è infatti Senza lasciare traccia (2018), quarta pellicola della regista statunitense Debra Granik con già all’attivo lavori precedenti che affrontano tematiche forti sulle relazioni generazionali.
Senza lasciare traccia sottintende sia il senso di non lasciare tracce che possano far individuare i personaggi da qualcuno che può costringerli a uscire dal mondo immerso in cui volontariamente si sono rifugiati, sia nel senso di voler sparire da una società che induce a non pensare con la propria testa – scopo per il quale padre e figlia hanno fatto questa scelta.
Una delle prime domande che mi sono posta guardando il film è stata proprio questa: cosa significa pensare con la propria testa? (frase che i protagonisti ripetono come un mantra, quasi come se attraverso questo concetto volessero mantenere la propria lucidità nella condizione estrema che si sono imposti di vivere). Come si arriva e come è possibile pensare in modo diverso e autonomo dagli altri? Nel film la pratica utilizzata dal padre e insegnata alla figlia è quella della sopravvivenza in una realtà apparentemente ostile perché priva di ogni comfort. Il tentativo è quello di assomigliare alla natura, di tornare a farne parte “fisicamente” rifiutando il mondo civilizzato.
Il film non racconta perché padre e figlia abbiano deciso di vivere lontano della comunità, lo spettatore lo desume da minuscoli particolari del dialogo. In realtà è il padre che lo ha deciso, la figlia, a cui di fatto è stato imposto, vive un’avventura che le fa credere che quella sia la vera vita. Tale imposizione però risulta essere un boomerang perché Tom, questo il nome della ragazza, che assomiglia alla natura molto più di quanto non le assomigli il padre, poiché è ancora plastica può trasformarsi cosa che il padre non riesce più a fare e questo sarà evidente alla fine del film quando lei deciderà di rimanere nell’ultimo luogo stanziale nel quale approdano. Questa plasticità unita alla totale assenza di imposizione del pensiero altrui fa sì che Tom non conosca il mondo degli uomini così come lo conosce il padre che le ha da sempre inculcato un modo di pensare (paradossalmente un concetto che lui combatte così accanitamente). La ragazza vive “diversamente” e viene attratta dal senso dello stare insieme ad altri, un bisogno che si rivela essere naturale. La comunità in cui a un certo punto si ritrovano vive infatti ai limiti di uno di questi giganteschi parchi in una sorta di compromesso tra civiltà e natura estrema. Il territorio è a nord ed è freddo e selvaggio, come se il luogo dovesse significativamente interpretare il fattore che mette alla prova questa “utopia” del pensare con la propria testa. La condizione che questa comunità vive è ibrida: concede spazio alla collettività rispettando la libertà di ognuno e allo stesso tempo permettendo a ciascuno, se vuole, di rifugiarsi nel “grande parco”, in solitudine. È una comunità che vive sul limite.

La regista Debra Granik con l’interprete di Tom, l’attrice neozelandese Thomasin McKenzie, durante la lavorazione di Senza lasciare traccia

Questo limite identifica una posizione di equilibrio interiore prima che fisico. La ragazza lo sa in quanto parte integrante della natura (la natura sa qual è il suo punto di equilibrio) e quindi decide di rimanere lì, l’uomo in fondo è un essere sociale e la comunità è il miglior compromesso possibile. Il padre invece, corrotto dalla civiltà che lo ha costretto a combattere contro i propri simili (è un veterano di guerra e forse proprio per questo “combatte” contro il non voler più pensare con la testa altrui) non possiede più questa plasticità e non riesce più a vivere in una comunità. Nonostante l’imprescindibile ala protettiva genitoriale che caratterizza la specie umana al di fuori dell’età dello svezzamento, appare qui il concetto secondo il quale non sempre è utile perseverare in tale protezione e che è necessario staccarsene per scoprire chi si è.
La separazione è dolorosa, ma entrambi comprendono che è inevitabile. Stare insieme nello stesso spazio di vita non è più possibile e Tom deve affrontare il suo nel modo in cui sente di doverlo fare: interrompendo la relazione con il padre. E non accade forse così in natura, nelle altre specie?

Scene tratte da Senza lasciare traccia , diretto da Debra Granik, USA 2018

Non sappiamo come finisce la storia di Tom e di suo padre, possiamo solo “immaginare” una possibile conclusione. Rimane questo cerchio, figura archetipica, che simboleggia il nostro intero del quale fanno parte allo stesso modo il dentro e il fuori, l’immersione nella profondità e l’emersione nel mondo della luce, l’istintività e la razionalità: il cerchio è l’intero ma anche il dettaglio. Senza l’uno non possiamo comprendere l’altro e viceversa.
Nel profondo ci sono le radici e ciò che si vede nel mondo “emerso”, è bene ricordarlo sempre, è soltanto una parte molto piccola di ciò che dimora nel mondo immerso. La dimensione di ciò che è immerso ci permette di rimanere radicati al suolo il che non significa restare fermi da qualche parte ma conoscere la propria interiorità come luogo di accoglienza per il dopo: dopo la “separazione” e il “dolore”. Un luogo in cui appare un nuovo “inizio”.

«E lo sognavo, e lo sogno,
e lo sognerò ancora, una volta o l’altra,
e tutto si ripeterà, e tutto si realizzerà,
e sognerete tutto ciò che mi apparve in sogno…»
(Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij)

I versi di apertura di questo brano poetico sono del padre di uno dei più grandi registi russi, a sua volta un grande poeta russo. Un padre che ha lasciato la sua famiglia, un figlio piccolo, per inseguire i propri sogni. Sono ciò a cui ho pensato la mattina successiva alla visione di Senza lasciare traccia. Una storia radicata nella mia storia e in quella di mio padre che ho condiviso con gli altri partecipanti alla pratica. Questi versi, parte della mia restituzione al gruppo, offrono la possibilità di aprire e chiudere questo magico cerchio.
Cerchio che ci comprende tutti: noi singoli dettagli e l’intero cui diamo forma attraverso l’unione.