Campane, strano suono in una città, Milano, che non possiede più nulla di tradizionale in senso stretto. Mi torna alla mente, strano a dirsi, una domanda che mi fece anni fa un amico: “Qual è il tuo obiettivo nella vita? Il tuo progetto?” Ancora più strano è chiedersi oggi: è necessario averne? Forse no. Forse questo nostro passaggio fisico sulla Terra non ha nessuno scopo particolare e allora tutto sarebbe inutile. Ma allora a cosa serve essere dotati di pensiero, a cosa serve essere parte di una specie “evoluta”, questo deve voler dire che si ha uno scopo, lo si conosca o meno. E ancora: si tratta di uno scopo individuale o collettivo? È reale o apparente? È qualcosa che ci inventiamo per poter sopravvivere o ha un senso vero?
È innegabile che la maggior parte delle azioni che compiamo sono finalizzate alla soluzione di problemi contingenti che scaturiscono dalla necessaria convivenza quotidiana con altri individui: cosa rimane una volta esaurita la spinta che ci impegna nello svolgimento di queste azioni? C’è un vuoto che fatichiamo a comprendere come tale, uno spazio e un tempo che non sono definibili in nessun modo ma che invece tendiamo a definire sempre e comunque. Eppure la constatazione più lampante è che “non lo viviamo”, non siamo presenti nel vuoto che rimane quando esauriamo la forza impiegata nel gestire le incombenze della normalità.
Pensare a questo vuoto può assumere caratteri diversi: può diventare un pensiero filosofico, ma è e rimane solo un pensiero; può diventare una malattia mentale che va “curata” per rientrare nei canoni della “normalità”. La cosa che non si fa quasi mai, invece, è immergersi e contemplare il vuoto senza tentare di dargli una connotazione precisa. Riconoscere che esiste. Nel mondo contemporaneo, però, ciò non è previsto senza dover pagare un tributo, a volte pesante, nel corso della propria esistenza, imposto dalle leggi dell’accettazione di un comportamento considerato anormale, accettazione che deve prima di tutto passare attraverso se stessi, infatti: non ci si accetta nella condizione di contemplatori del vuoto perché si teme la noia che ne potrebbe scaturire.
Esiste dunque un processo di riconoscimento che, se non si presta la dovuta attenzione nell’atto di individuazione, può causare gravi danni all’esistenza così come, per contro, portare l’individuo a un appagamento che è intelligibile all’altro. In ogni caso si rivela uno stato di isolamento.
Vuoto e noia sono due elementi precisi attraverso i quali passa tale riconoscimento. La noia, nello specifico, diventa un terreno di scoperta e non, come si è indotti a pensare, uno stato da nascondere o, peggio, da ingombrare con azioni tendenti a riempire il vuoto che essa genera. Vuoto e noia sono strettamente collegati o, se vogliamo, conseguenti: dunque dove c’è vuoto c’è noia e viceversa? Nella società attuale vuoto e noia esistono in una accezione prevalentemente negativa, sono situazioni da evitare, incomprensibili in un mondo così affollato di uomini, cose e pensieri. In effetti pensiamo di continuo: a cosa faremo, a cosa vogliamo, a cosa ci spetta, a cosa serve per vivere meglio, eccetera. Tutto questo ha a che fare con il “dopo” non con l’“adesso”. Ed eccoci giunti al tema del presente. Stato per sua natura indefinibile, il presente non ha uno spazio né un tempo, quindi non esiste tanto quanto il vuoto. Nel momento in cui lo si vive è passato e ha cessato di essere futuro. Probabilmente sto enunciando delle ovvietà che altri hanno già affermato molto meglio di me, naturalmente, ma ciò che rivendico (e che mi piacerebbe rivendicassero tutti) è la consapevolezza di vivere il riconoscimento di questa osservazione come pensiero personale, riferito alla mia esistenza e al quale giungo attraverso la mia esperienza.
Ho più volte scritto sul tempo e la sua assenza, mi rendo conto ora che anche questo è il vuoto, che l’inesistenza del tempo equivale all’esistenza del vuoto. Questo mi offre lo spunto per tornare un momento al tempo presente, a quel famoso “qui e ora” che non è possibile comprendere perché “non è”. Il presente non viene vissuto perché non esiste. Una cosa interessante è proprio l’assenza di qualcosa da fare nell’attesa e che porta a queste riflessioni sulla comprensione del vivere il momento presente. Dunque si può azzardare l’idea che siccome il presente non esiste, esso rappresenti il vuoto che si determina tra il passato e il futuro: è per questo che tendiamo a non viverlo riempiendolo costantemente di pensieri sul passato e sul futuro? Ma come si può viverlo se ogni attimo che lo compone equivale già al suo essere passato e non più al suo essere futuro? Qual è lo spazio del presente? È uno spazio vuoto. Si tratta in realtà di un’assenza e non di una presenza.
Lo spazio, un luogo fisco ancorché mentale, può essere riempito o lasciato vuoto. La materia lo abita a prescindere perché anche il vuoto, di per sé, non esiste se non in una forma esperienziale e può rivelarsi al singolo come alla moltitudine in modalità totalmente differenti. Fisicamente siamo all’interno di uno spazio che si modifica continuamente assumendo una forma diversa a seconda della posizione precisa in cui ci troviamo: lo spazio si muove attorno a noi analogamente a come noi ci muoviamo al suo interno, entro i suoi confini. Rappresentare la forma dello spazio, pieno o vuoto che lo si voglia, diventa quindi relativo e del tutto ininfluente all’esistenza, per questo la relazione che l’individuo stabilisce con esso assume un senso soltanto se vi è una totale sovrapposizione: vale a dire quando l’individuo è lo spazio e lo spazio è l’individuo. Potremmo quindi giungere alla conclusione che l’individuo, in quanto spazio, nel presente che non esiste, diventa egli stesso il vuoto. La mia è una considerazione che scaturisce da una logica di pensiero successiva a una osservazione che in alcuni frangenti, per la verità sempre più frequenti, ha sfiorato la noia. E qui il cerchio si chiude: tempo, spazio, vuoto, noia e tutte le considerazioni che ne conseguono come incidono sull’esistenza? Ho come l’impressioni che siano tante lucine che si accendono sulla pista di atterraggio del velivolo sul quale stiamo viaggiando per permetterci di camminare in quel buio causato da uno stato sempre più “lucido”. Ebbene: non è la luce in fondo al tunnel che bisogna guardare ma quella che si accende “dentro” il tunnel, solo così è possibile andare avanti.
Le immagini pubblicate son del fotografo coreano Koo Bohnchang. Le sue opere sono state esposte in oltre 30 mostre personali tra cui Samsung Rodin Gallery, Seoul (2001), Peabody Essex Museum, Massachusetts (2002), Camera Obscura, Parigi (2004), Kukje Gallery, Seoul e Kahitsukan Kyoto Museum of Contemporary Art (2006 ), Goeun Museum of Photography, Busan (2007), Philadelphia Museum of Art, Philadelphia (2010) e molti altri.
Le sue collezioni sono al San Francisco Museum of Modern Art, Museum of Fine art, Houston, Kahitsukan Kyoto Museum of Contemporary Art, National Museum of Contemporary Art, Korea, Leeum, Samsung Museum of Art, Seoul e le sue principali pubblicazioni sono Deep Breath in Silence , Revealed Personas, Vessels for the Heart, How to Capture the Touching Momen in Corea e Hysteric Nine, Vessel, Everyday Treasures in Giappone.
Il sito dell’artista: Koo Bohnchang