Fisionomia asemica di un testo poetico intrinsecamente glitch

Questo articolo ricalca l’intestazione di un mio intervento al secondo seminario di studi sulle «Scritture asemiche» – tenutosi presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo il 14 maggio 2024 – e prosegue le riflessioni1 scaturite dalla traduzione di un capitolo del libro ZONG!2 , «Ẹbọra», sette pagine che hanno un aspetto decisamente asemico.

LA SCRITTURA ASEMICA È UNA DELLE POSSIBILITÀ DEL LINGUAGGIO

Nel libro Zong! avviene un ribaltamento importante: la scrittura perde la funzione narrativa mentre la scrittura asemica narra l’indicibile. È una sorta di conversione del linguaggio che procede dall’errore: un accadimento degno di attenzione, da non scartare o correggere a priori.
Questo ribaltamento, in cui la scrittura asemica parla e il codice alfabetico no, va considerato anche nel contesto di un rituale di purificazione che l’autrice celebra con la censura e la magia.3
Non si può infatti trascurare o relegare a margine l’aspetto magico e rituale nel momento in cui si approccia un testo poetico che rimette in azione, quantomeno negli intenti dell’autrice, la dimensione spirituale e sciamanica, sino a convocare una seconda voce narrativa, lo spirito di Setaey Adamu Boateng del quale l’autrice sarebbe medium ovvero canale di comunicazione che annulla i tempi di latenza creando un contatto istantaneo, tramite il quale il libro quasi si scrive da sé.4 Si tratta di un evento inverificabile ma poco importa in questo contesto, dove sono fenomeni invisibili e insondabili a creare tensione nella lingua che si cimenta con l’impossibilità di dire seguendo un percorso lineare, perché non si tratta di mettere semplicemente in fila una serie di accadimenti. È necessario invece estrudere la linea narrativa, darle ulteriori dimensioni e la possibilità di muoversi in uno spazio tridimensionale al fine di realizzare una torsione completa, un ribaltamento, e assumere caratteristiche morfologiche adatte all’urlo e al canto che è Zong!.5

UN IMPERDONABILE ERRORE (CHE È CIÒ DI CUI TRATTA L’INTERO LIBRO)

C’era una volta un libro che narra una storia che non può essere narrata ma è necessario narrare.
La storia è Storia: il fatto è realmente accaduto nel 1781. Ma questa storia è ben altro.
Zong è il nome di una nave inglese dedita alla tratta degli schiavi lungo le rotte atlantiche. Originariamente il nome era Zorg, che in olandese significa «buona cura», ma divenne Zong a causa di un errore commesso nel ridipingerlo.
Navigando dall’Africa verso la Giamaica con un carico di 442 schiavi, a causa di problemi legati al calcolo errato della rotta e di tutte le sue conseguenze, circa 150 persone, tra donne, bambini e infine uomini, furono gettati a mare, così come ci si libera di una parte del carico di merci, per evitare il peggio, con l’idea di ottenere poi un risarcimento dalla compagnia di assicurazione.
Della causa di risarcimento restano due pagine dei verbali dalle quali l’autrice ha distillato ed espanso un’opera che cerca di riesumare quei defunti, come ci dice nelle note, di «esacquare» le loro spoglie sparse nell’Oceano per dare forma a una storia che «non può essere narrata eppure deve essere narrata, ma solo tramite il suo de-narrare.»
In Zong! Il movimento del linguaggio verso la zona asemantica diviene funzionale al narrare, de-narrando, per realizzare un «anti-significato»6; l’errore è il motore,  l’ innesco e il carburante di questo movimento.
A distanza di anni da un evento storico che ha imprigionato nel mare 150 anime, l’autrice sembra utilizzare quella lunga latenza e quell’errore di memorizzazione e di decodifica dei segnali – un imperdonabile glitch7 della Storia e delle politiche coloniali (oggi ancora vive, vivissime) per ribaltare la narrazione storica affinché i morti possano essere «esacquati» e le loro ossa restituite.
Conviene affrontarlo, un territorio tipografico e cognitivo scabroso, osservare l’intero movimento di questo linguaggio poetico che procede per continui ribaltamenti semantici e altri mezzi di censura (frammentazione di frasi, parole ridotte al suono di un fonema, abbandono all’evento dell’errore…), e verificare se scioglie l’impossibilità di questa storia che non può essere narrata ma deve esserlo. La lingua di Zong! è sufficientemente insorta? Può mostrare quella qualità plastica in grado di restituire una forma estranea e refrattaria ad ogni azione costrittiva e di riordino? (Fig. 1)

Figura 1 – Le 7 pagine che compongono «Ẹbọra», versione originale

Questo linguaggio, che l’autrice spinge sino ai limiti della sua funzione, in qualche modo è stato traslocato in una zona di confine dove può mostrare, in sintesi, ciò che gli è accaduto. Ma quanto è capace di rivificarsi? Essere ancora fecondo, disponibile a rimettere i propri salti dimensionali ed errori all’opera? (Slittamenti, malfunzionamenti, ostacoli, eccetera).
Quando leggiamo compiamo atti di traduzione, anche se la lingua è la nostra, cercando di dar  forma al campo di conoscenza che il testo affronta. Se pensiamo in questi termini, siamo costantemente coinvolti in processi di traduzione e nel fenomeno glitch che li accompagna. Chi scrive un testo traduce il modo in cui è strutturato nella sua mente quel campo di conoscenza affinché sia funzionale all’organizzazione intrinseca della scrittura. Chi legge, deve avere la possibilità di ritradurre all’indietro o mappare inversamente ciò che ha di fronte.8 Errori compresi.
L’autrice di Zong! ha sentito la necessità di dover tradurre in testo poetico, non tanto un evento storico, quanto l’intero processo delle nefaste conseguenze di una cultura occidentale colonialista, ancor oggi dominante, il cui linguaggio prosegue nelle forme di abuso e ingiustizia contemporanee. Entriamo in un territorio molto complesso, in cui trovano spazio vari campi di conoscenza e diverse forme di pregiudizio, oltre a tutti gli errori di cui è passibile il linguaggio.
La poesia ha la possibilità di utilizzare il medium scrittura con una certa forza; e in questo libro, a un certo punto, la scrittura viene forzata e ribaltata a vari livelli: dal concreto al simbolico-astratto, smembrata, compressa, sovrapposta e disorganizzata nella sua linea temporale, una scrittura che chiama in causa la forza irriducibile degli Antenati.
Per tentare di comprendere questo “massacro” del linguaggio, è necessario arrendersi, aprirsi mentalmente a un processo conoscitivo diverso, irrazionale, invece di affrontarlo in modo pregiudizievole.
Ciò non significa credere agli spiriti e a metodi di convocazione di voci dall’oltretomba; ma tentare di osservare certe forme di blocco, nel senso di rifiuto o irritazione, che sopraggiungono quando le nostre abitudini cognitive risultano disturbate, aiuta a dar forma a modalità conoscitive meno condizionate dal pregiudizio. Nel contesto di questo libro il pregiudizio ben merita di essere individuato e indagato in modo critico, mantenendo a distanza «quel crudo colonialismo mentale che è l’equivalente conoscitivo del colonialismo politico», come scriveva Ernesto De Martino.9
«Ẹbọra» ci appare come un oggetto verbo-visivo che si forma sulla pagina e si manifesta come una superficie, una tavola da cui emerge una volontà asemantica che nega il codice che organizza il linguaggio scritto in quanto non è idoneo a dire ciò che l’autrice deve narrare e per il quale nutre una profonda diffidenza.10
Sul piano semantico, il ribaltamento del codice si realizza con un movimento di avviluppo e torsione del linguaggio della Legge, il diritto, che tramuta magicamente gli africani a bordo della Zong = note a piè pagina11, in nomi propri: Ngolinda Amina Kiambu Ngunda Nobanzi… orma del piede.12 (Fig. 2)

Figura 2 – Il testo a chiusura del capitolo «Os» con i nomi propri a fondo pagina

Quando scrive della sua lotta contro il linguaggio, Philip non si riferisce tanto a «Ẹbọra», ma a una sorta di “azione totale” che ha portato alla stesura dell’intero libro e, nell’osservare i testi che ha disposto sulle pagine, nota la somiglianza delle poesie con gli esiti della language poetry e con lo stile asemantico.13 (Fig. 3) Scrive tali annotazioni con una terminologia più esoterica che critica, forse non a caso, perché in Zong! il movimento del linguaggio e quello degli spiriti sono la medesima cosa. E su questo tornerò.

Figura 3 – Alcune pagine di Zong! in una visione d’insieme su fondo nero per evidenziare i movimenti del testo nel rettangolo del foglio
LA COMPRENSIONE PASSA ATTRAVERSO UN ATTO DI PURIFICAZIONE, CATARTICO

Quando legge pubblicamente il testo, l’autrice lo fa ritualizzando la performance;14 affrontando magicamente la condivisione di qualcosa che tanto sfugge alla comprensione ma in qualche modo va detta, Philip organizza l’azione catartica, superando di fatto ciò che ci tiene intimamente legati al linguaggio, come il senso di appartenenza sul quale tendiamo a costruire un’identità.
Se in Zong! la radice del divenire asemantico del linguaggio cresce sulla spinta di quell’errore che ha sancito la schiavitù e reso l’essere umano al pari di una merce, è perché tale errore è normato dalla ratio del Diritto (quella che consente di ammazzare un carico di merce umana) e dal linguaggio che lo esplicita15.
La traduzione delle 7 pagine che compongono «Ẹbọra» è stata, da parte mia, un tentativo di tradurre questo errore del linguaggio dopo averne osservato il processo, il modo in cui passa la sua spinta generativa, i movimenti e gli esiti. È stato necessario, per dirla in due parole, forzare il significato di “errore” per liberare l’anti-errore, così come l’autrice vuole «“Penetrare per effrazione” il testo per liberare il suo anti-significato.» («Notanda», p. 220). È questo infatti che succede in Zong!: si libera «l’anti-significato» rivoltando a rovescio il Diritto sino a spingere il linguaggio nella dimensione quasi asemantica e fino a «Ẹbọra».

MOVIMENTI DEL TESTO A CONFRONTO

Osservando alcune pagine in una visione d’insieme a dimensione ridotta, si possono osservare i movimenti che le parole realizzano nello spazio del foglio.
Se paragoniamo visivamente questo quadro d’insieme a quello delle pagine di «Ẹbọra», possiamo notare una certa similitudine. È come se questa parte asemica del libro sia il «naturale» punto di arrivo del testo poetico. (Figg. 4-5)

Figure 4 e 5 – Alcune pagine della versione originale di Zong! in una visione d’insieme per evidenziare maggiormente i movimenti del testo poetico in relazione a quelli del capitolo «Ẹbọra», qui sotto

Il contesto visivo di Zong! è molto eterogeneo (Figg. 6-7): a volte lo sguardo può spaziare in ogni direzione, a volte deve seguire i margini di grandi blocchi di testo o seguire un andamento a colonna. Il movimento che si sviluppa nel poema induce il lettore a esplorare l’intera superficie tipografica delle pagine con movimenti oculari un po’ più agili, ginnici, rispetto al consueto. Al lettore è infatti richiesto di spezzare una certa “linearità” cognitiva, di annientare, per esempio, l’idea che esistano confini tipografici e abitudini mentali che dirigono il movimento degli occhi a partire da un margine che sta sempre in alto a sinistra e va sempre, disegnando un linea sotto l’altra, verso un margine in basso a destra.16 Per quanto riguarda «Ẹbọra» in particolare, l’unico modo per leggere queste pagine è di arrendersi a un movimento tridimensionale del testo che, in analogia con quanto accadde nel 1781 a bordo e fuori bordo della Zong, si dispiega tra la superficie del cielo e il fondo del mare. Qui sono gli  “spiriti sottomarini”, in lingua yoruba gli ẹbọra, appunto. Sono loro che hanno originato «Ẹbọra»? Per essere precisi, che hanno implementato l’errore in una fotocopiatrice?17 Può apparire una domanda ironica, ma è stata fondamentale per trovare una logica traduttiva conforme a «Ẹbọra», un capitolo non cercato, imprevisto. La logica che ho abbracciato si basa perciò su un ampio margine di incertezza su cui far proseguire quest’azione di ammutinamento del linguaggio affinché non si spegnesse nella sua duplicazione o in un vertiginoso rispecchiamento. Vivificare i morti, dunque, non annientarli nel massacro del testo. Perciò, considerare ogni incertezza relativa alla correttezza di un procedimento, a un risultato atteso e all’efficacia di tale risultato funzionale alla traduzione di queste 7 tavole, è come restare in vigile attesa dell’errore, saperne riconoscere le qualità dinamiche dell’instabilità e dell’unicità che gli appartengono. Abbandonarsi ai movimenti degli ẹbọra, infine, invece di resistere, è abbandonarsi all’imprevisto che accade in un codice, lasciarsi invadere dal glitch.

Figura 6 – Alcune pagine di Zong!, dall’alto a sinistra dai capitoli «Os», «Ferrum», «Gregson vs. Gilbert», «Glossario. Parole e frasi udite a bordo della Zong!»
Figura 7 – Alcune pagine di Zong!, in alto da «Os», in basso da «Lista di carico» e «Ratio»

In «Ẹbọra» il movimento perde definitivamente ogni direzione prevedibile, rende ogni tavola un sistema complesso caotico. Il codice conosciuto e condiviso si è accartocciato su sé stesso, è impraticabile, frammentato, annegato. (Fig. 8)

Figura 8 – Visione d’insieme delle 7 pagine di «Ẹbọra»: in alto la versione originale, sotto le pagine tradotte

Nella maggior parte dei testi che precedono questo capitolo, abbiamo già osservato evidenti movimenti dissipativi, parole in torsione, vortici, mulinelli… pare il preludio del movimento che porterà 150 corpi vivi a morire, ma non a riposare in pace, in quell’ossario acquatico che è il mare.

Diviene inevitabile domandarsi della relazione che la scrittura, e in particolare questa “asemica”, intrattiene col corpo. Osservando opere verbo-visive, quando l’occhio tenta di seguire alcune delle direttrici del realizzarsi del segno nello spazio di un foglio, il resto del corpo lo segue; anche se non esplicita movimenti esterni, prestando attenzione, si avvertono movimenti interni: tensioni, estensioni, torsioni, inarcamenti… Può allora esistere un’intensa relazione tra segno linguistico e corpo vivo, tra i movimenti della non-narrarazione di Zong! e un’esperienza che il corpo ha fatto di questa ratio del linguaggio giuridico che trasfigura le persone schiave in «creature della parola».18

L’ERRORE CHE HA GENERATO «ẸBỌRA» E LA FUNZIONE CATARTICA DEL LINGUAGGIO

Se «Ẹbọra», abbiamo visto, può essere il «naturale» punto di arrivo del testo poetico, può essere considerato anche un punto di partenza di un ulteriore movimento, non più del linguaggio così come lo conosciamo, ma di un glitch, di un imprevisto, di una forza che si esprime a causa di un errore. Non importa se l’errore lo fa un dispositivo di stampa: per analogia i corpi gettati in mare trovano “rappresentazione” nelle parole che si sovrascrivono e nei loro suoni frantumati, nel ribaltamento della «ratio subacquea» – il linguaggio di quel Diritto che li ha resi merce da affogare – e nello spazio tipografico la cui gabbia si apre a una dimensione ulteriore del linguaggio ma non proprio priva di codice, come vedremo. (Figg. 9-12)

Figure 9 e 10 – «Ẹbọra», tav. 4 – versione originale e «Ẹbọra», tav. 4 – versione tradotta
Figure 11 e 12 – «Ẹbọra», tav. 6 – versione originale e «Ẹbọra», tav. 6 – versione tradotta

 

Il prodotto di questo errore, «un denso panorama testuale», è investito dall’autrice nel processo che costruisce il libro e fa funzionare l’intera opera poetica. Tale investimento risulta particolarmente fruttifero perché realizza un processo in cui l’economia del testo (del libro) è basata su un divenire instabile e imprevedibile del linguaggio. La disposizione della scrittura, il modo in cui disegna la pagina, è un lavoro sul linguaggio di tipo concettuale (processuale, in termini più specifici riferiti all’area artistica) che ordina e al contempo disordina, che seleziona, avviluppa e smembra, che fa del linguaggio stesso un palinsesto, nel senso di una scrittura raschiata e lavata dal suo supporto originario (che forse è la Storia e il linguaggio dei vincitori).19

Sembra che in Zong! non possa però realizzarsi una torsione completa del linguaggio senza entrare nella dimensione dell’invisibile (dell’occulto?), del rito e della catarsi. Ho precedentemente accennato a un evento catartico: è infatti nota e documentata la modalità dell’autrice di ritualizzare la lettura del testo coinvolgendo direttamente gli ascoltatori, come se la comprensione potesse arrivare solamente attraverso un atto di purificazione. Il linguaggio, in Zong!, viene investito di una funzione catartica, forse l’unica in grado di incorporare la dimensione del rito con cui Philip conduce il linguaggio stesso al di fuori del tempo storico «per “dare senso” a un evento che elude la comprensione, forse per sempre.» (p. 218)

Non ci troviamo quindi al cospetto di un’opera poetica quasi asemantica, da osservare nel punto di intersezione tra il linguaggio e il segno, tra la lettura e la fruizione visiva; piuttosto di un mezzo per liberare (rivelare) la vera narrazione della Storia. Un oggetto particolare, questo testo, nel cui linguaggio l’autrice si identifica completamente, e i cui frammenti sono consustanziali al suo corpo, ai corpi degli schiavi e alla tragedia avvenuta a bordo della Zong. È un libro magico, contiene le parole che c’erano prima dell’alfabetizzazione.20
Il rivelarsi, il liberarsi del linguaggio passa, nel rito catartico, attraverso un’azione eliminativa (spurgante), operata qui sul corpo stesso del linguaggio in modalità plastica: per diventare instabile, “asemico”,  il testo deve concretamente uscire dalla linearità intrinseca che lo costituisce e aprirsi un varco, verso l’alto o verso il basso, nello spazio per potersi torcere. Si tratta infatti di torsioni che il testo realizza su sé stesso per estenderle al lettore puntando direttamente, lo abbiamo già visto, al suo asset cognitivo.
Vediamo allora come questo modo di procedere dell’autrice per rivelare il caos che è già nel linguaggio e liberare «l’anti-significato» è orientato a spingersi nella zona asemantica del codice alfabetico ma non per realizzare un’opera asemantica, al contrario: intende liberare il potere della parola, accedere a un linguaggio altro.21
Il movimento e la visività asemantica di «Ẹbọra», in particolare, non sono però realizzati nell’ambito di una ricerca che riguarda le scritture asemiche; possiamo considerarli invece una strategia che conferma Zong! all’interno del linguaggio della Poesia e del Rito.22 C’è, in tale accostamento della dimensione poetica a quella rituale, un’idea di poesia che esclude dalla lettura del testo le voci e i rumori mondani che spesso si insinuano nelle orecchie del lettore intrecciandosi nel libro. In Zong! il testo è di fatto una voce che annulla ogni altro rumore (come un testo sacro) e che arriva da uno spazio non ordinario e nemmeno infraordinario.
Tentando di narrare questa storia “asemica” mi sono resa conto che sfugge da ogni parte, resiste alla linea che vuole far seguire una cosa all’altra. È una storia instabile, emerge a tratti poi scompare per riemergere in un punto diverso e sprofondare altrove. È l’instabilità di Zong! ed è l’instabilità delle scritture asemiche. Parlare di questo libro e del suo atto di traduzione è come camminare con dell’esplosivo in mano.
Per finire, una domanda: possiamo pensare l’“asemico”, immaginare cioè uno spazio teorico che supera un confine categorico (= ripartito in categorie) slittando il significato del categorico da spazio assertivo a spazio non limitato da condizioni?

 

NOTE

1Tali riflessioni sono state pubblicate nel 2021 sulla rivista online «Tutte quelle cose. Cultura visiva contemporanea» con il titolo Tradurre l’errore / , e nel 2024 sulla rivista di teoria e pratica della traduzione «Testo a fronte» 2022/1-2 n. 66-67 nel Dossier ‘Zong!’ con il titolo Il processo dell’errore nelle tavole di traduzione di “Ẹbọra”, la parte più visual di Zong!.
2 M. NourbeSe Philip, Zong! As Told to the Author by Setaey Adamu Boateng, Middletown, Wesleyan University Press, 2008, trad. it. di R. Morresi, A. Raos (“Notanda”, “Gregson vs Gilbert”) e M. Guatteri (“Ẹbọra”), a cura di R. Morresi e A. Raos, Zong! Come narrato all’autrice da Setaey Adamu Boateng, Colorno, Tielleci/Benway Series, 2021.
3 Scrive infatti l’autrice in uno dei capitoli del libro, «Notanda», p. 219:  «Censuro l’attività del testo tramandato e al tempo stesso evoco la presenza degli africani cancellati e la loro umanità; così facendo divento simultaneamente censore e maga. In quanto censore funziono come il diritto, il cui ruolo è di proscrivere e prescrivere, decretando quali aspetti del testo saranno rimossi e quali rimarranno; riproduco l’attività censoria del diritto, che determina quali fatti possono essere assunti a prove e quali no; cosa può essere messo a verbale e cosa no. Il fatto che gli africani fossero esseri umani non poteva essere ammesso nel testo legale. Come il diritto, decido cosa è e cosa non è. In quanto maga, però, evoco l’infinito dell’essere dei «negri» a bordo della Zong. Questo è l’asse su cui ruota il testo di Zong!: censore e maga; il narrato e il non narrato; il narrare e il de-narrare ciò che non può, eppure deve, essere narrato.»
4 «ho affermato che ci sono sempre almeno due poesie – quella che vuoi scrivere e quella che deve scriversi da sé, e della seconda questo lavoro sembra essere il culmine perché non sto nemmeno usando parole mie. Ma sono mai mie, le parole?» (p. 212).
5 «Perché il punto esclamativo dopo Zong!? Zong! è canto! grido! e ululato! Zong! è gemito! borbottio! urlo! e strida! Zong! è “puro dire”. Zong! è Canto! E il Canto è ciò che mantenne l’anima degli africani intatta quando “acqua mancata… sostenimento… preservazione.” Zong! è il Canto della storia non-narrata; non può essere narrata eppure deve essere narrata, ma solo tramite il suo de-narrare.» (p. 229).
6 «Per quanto lentamente, arrivo a capire che Zong! è infestologico: è un lavoro di infestazione spiritica, una sorta di veglia funebre in cui gli spettri dei non morti si fanno presenti. E solo nel non-narrare la storia può essere narrata; solo nello spazio in cui non è narrata – letteralmente nei margini del testo, una sorta di spazio negativo, uno spazio non tanto di non significato quanto di anti-significato.» (p. 222).
7 Mi sono soffermata sul termine glitch nell’articolo sopra citato Tradurre l’errore (cit.).
8 Cfr. Antinucci, Francesco (1991): “Summa Hypermedialis: (per una teoria dell’ipermedia)”, in: «Sistemi Intelligenti», 5.  «L’isomorfismo (o l’approssimazione all’isomorfismo) tra CS [struttura della comunicazione] e KS [struttura del campo di conoscenza] è la chiave di volta della efficacia del processo di comunicazione e del processo di apprendimento, in quanto semplifica o rimuove la difficoltà fondamentale di questi processi: la traduzione tra CS e KS. Se potessimo strutturare la comunicazione in modo identico a come è strutturato il campo di conoscenza che essa veicola allora l’organizzazione propria di quest’ultimo apparirebbe a prima vista, in superficie, dal solo “guardare” CS: la trasparenza di CS renderebbe KS di immediata apprensione senza passare attraverso una ricostruzione simbolico-mentale astratta, cognitivamente ben più complessa. Il problema diventa allora come costruire strutture comunicative che siano il più possibile isomorfe alle strutture dei campi di conoscenza che esse devono veicolare.»9 «… quando ha luogo l’incontro con i comportamenti magici etnologici, folkloristici, storico-religiosi, il ricercatore occidentale tende a prendere le mosse dalla magia come pregiudizio, poiché tale è il risultato immediato della sua civiltà; un’analisi sistematica dei pregiudizi occidentali contro la magia non sembra un argomento che concerna in questo caso il ricercatore. Ora proprio qui mette radici il seme della boria etnocentrica, o — se si vuole — di quel crudo colonialismo mentale che è l’equivalente conoscitivo del colonialismo politico: e proprio qui si fa valere l’esigenza catartica di una presa di coscienza della storia del concetto di magia in Occidente come momento fondamentale della presa di coscienza dei comportamenti magici nei mondi culturali non occidentali o non occidentalizzati.» De Martino, Ernesto (1962): Magia e civiltà. Milano: Garzanti, p. 8.
10 «Nutro una profonda diffidenza per il mio strumento di lavoro – il linguaggio. È una diffidenza radicata in alcuni eventi storici affini a quelli che si svolsero sulla Zong. […] Nella lotta per evitare di imporre significato, affronto la tensione tra la poesia che voglio scrivere e quella che deve scriversi da sé. Il diritto e la poesia hanno in comune l’attenzione alla precisione e all’accuratezza del linguaggio, ma il diritto usa il linguaggio come uno strumento per fare ordine; mentre io in questo caso voglio che la poesia smonti ciò che è ordinato, che crei disordine e caos così da liberare la storia che non può essere narrata ma che, attraverso il non narrare, narrerà sé stessa.» (p. 217, 219).
11 «Lo strumento di base nello studio del diritto è l’analisi dei casi. Questo processo richiede un accurato passare al setaccio il caso oggetto di perizia per individuare il nocciolo del principio legale al cuore della sentenza – la ratio decidendi o anche solo la ratio. Una volta enucleato quello, tutte le altre opinioni diventano obiter dicta, informalmente chiamate dicta. Che è ciò che diventano gli africani a bordo della Zong – dicta, note a piè di pagina, legate alla ratio ma non la ratio stessa.» (p.220).
12 «“Difendi i morti”. Gli africani a bordo della Zong devono essere citati per nome. Saranno note a piè di pagina fantasma, fluttuanti sotto il testo – “sotto acqua… un luogo di importanza”».
L’idea alla base delle note a piè di pagina è il dare atto – qualcun altro è stato qui prima di noi – in Zong! la nota a piè di pagina equivale all’orma del piede. / Le orme degli africani a bordo della Zong.» (p. 220).
13 «In superficie, le poesie ricordano la language poetry; come i language poets, anch’io metto in discussione la presunta trasparenza del linguaggio e, di conseguenza, impiego strategie simili alle loro per svelare i fini occulti del linguaggio. […] Lo stile delle poesie che ne risulta, abbreviato, disgiuntivo, quasi asemantico, richiede un pari sforzo da parte del lettore per «dare senso» a un evento che elude la comprensione, forse per sempre.» (p. 218).
14 Vedi, ad esempio, il video «Zong! Durational reading/performance».
15 Nel capitolo «Glossario. Parole e frasi udite a bordo della Zong», nella colonna del Latino, alla voce “ratio”, scrive Philip: «ratio: ragione; in giurisprudenza, abbreviazione di ratio decidendi, la motivazione principale di una decisione legale.»; e a p. 220,  nel capitolo «Notanda»: «La ratio “subacquea” sembra essere che il diritto soppianta l’essere, che l’essere non è una costante nel tempo ma può essere cambiato dal diritto. La ratio costitutiva di Zong! invece è, semplicemente, la storia dell’essere che non può ma deve essere narrata. Tramite il non-narrare. E laddove il diritto tenta di estinguere l’essere, come è successo per quattrocento anni in quanto parte del progetto europeo, ogni volta l’essere vince sul diritto.» (p. 200).
16 «Il non narrare questa specifica storia risiede nella frammentazione e nella mutilazione del testo, che costringono l’occhio ad andare a caccia sulla pagina nel tentativo di estrarre con la forza un significato da parole andate disperse.» (p. 218).
17 «Un giorno finii la prima stesura di una sezione e cercai di stamparla; senza apparente motivo, la stampante laser sputa le prime due o tre pagine sovrapposte – contorte, per così dire – sicché la pagina si trasforma in un denso panorama testuale. Le pagine successive, invece, escono stampate normalmente. La stessa cosa succede con le prime pagine di tutte le sezioni della seconda parte del libro – “Sal”, “Ventus”, “Ratio” e “Ferrum”. Non ne ho mai scoperto la causa e la mia stampante non ha mai più fatto nulla di simile con i miei scritti» (p. 227-228).
18 «I discendenti di quella esperienza sembrano essere creature della parola, apparentemente portate all’essere ontologico da un fiat e dal diritto. Fu il diritto a dire che eravamo. O che non eravamo. La resistenza fondamentale a questo, che si manifestasse o no nei molti, molti casi di insurrezione, era la credenza e conoscenza che noi – le creature di un fiat e del diritto – abbiamo sempre saputo di esistere al di fuori del diritto – quel diritto – e che il nostro essere precedeva nel tempo il fiat, la legge e la parola. Che ci hanno convertiti in proprietà: «porco porto campo legno toro negro». È una dolorosa ironia che oggi molti di noi continuino a vivere, per quanto in modi del tutto diversi, o al di fuori del diritto o letteralmente imprigionati in esso. Incapaci di non-narrare la storia che deve essere narrata.» (p. 228).
19 «A tratti mi sento come se mi stessi vendicando … del colonizzatore – il modo in cui il testo ti – mi – forza a leggere in modo differente, a portare il caos nel linguaggio o forse, più esattamente, a rivelare il caos che già vi si trova.» (p. 226).
20 «… per la prima volta da quando sono stata scelta per la scrittura sento di avere davvero una lingua – questo linguaggio di grugnito e gemito, di mugolio e balbettio – questo linguaggio di puro suono frammentato e rotto dalla storia. Questo linguaggio della zoppia e della ferita. Del frammento. E nella sua frammentazione e rottura il frammento diventa mio. Diventa me. È me. La domanda di fondo a bordo della Zong è cosa è accaduto? Potrebbe essere che sia accaduto il linguaggio? […] La perdita del linguaggio e del significato a bordo della Zong porta tutti allo stesso livello in un luogo in cui, a volte, non c’è alcuna distinzione tra le lingue – tutti, europei e africani, sembrano tornati a uno stato precedente all’alfabetizzazione.» (p. 227).
21 «Le parole si frantumano in suono, tornano alla loro iniziale e originaria natura fonica – grugniti, esplosive, labiali – è forse così che avrà suonato il linguaggio all’inizio del tempo?
Ci sono momenti nel capitolo finale, «Ferrum», in cui mi sento come se stessi scrivendo un codice». (p. 226-227).
22 «… affinché il linguaggio faccia ciò che deve, ossia comunicare, queste qualità – ordine, logica, razionalità – le regole della grammatica devono essere presenti. E come è per il linguaggio così è per il diritto. Fanno eccezione a queste caratteristiche di base la comunicazione religiosa o spirituale con forze non di questo mondo quali gli dèi o le entità sovrumane, i giochi di parole, le parabole e, naturalmente, la poesia. In tutti questi casi gli esseri umani forzano i limiti del linguaggio per il tramite di un linguaggio che non è razionale, logico, prevedibile o ordinato. Talvolta è persino incomprensibile, come nella pratica religiosa dell’esprimersi in lingue arcane, che per sua natura sovverte lo scopo primario del linguaggio. La poesia è ciò che si avvicina di più a quest’ultimo tipo di comunicazione – vi è radicata – non solo perché forza i limiti del linguaggio ma anche per il bisogno che ha ogni poeta di esprimersi in una lingua solo sua.» (p. 217).