RIFLESSIONI DI UNA BUSHWALK
Il nome Australia deriva dalla definizione latina Terra australis incognita “terra meridionale sconosciuta”. L’essere umano, e il mio essere artista, mi spinge alla ricerca continua di me stessa e del mio fare arte. Un’esplorazione a volte quasi ossessiva di quel qualcosa di sconosciuto, ignoto. A questo si aggiunge una particolare fascinazione per la natura. L’Australia conserva ancora gran parte dei suoi paesaggi non abitati dall’uomo, ed era sicuramente uno dei luoghi che avrei voluto incontrare. Così trovo un bando di residenza – BigCi Environmental Awards – che mi incuriosisce, propongo un progetto di ricerca e vinco il premio. Il mio viaggio inizia lo scorso settembre e mi ritrovo in un luogo abbastanza isolato, a circa due ore da Sydney, immerso tra gli Eucalipti delle Blue Mountains. BigCi, (Bilpin international ground for Creative initiatives) è una residenza per artisti provenienti da tutto il mondo, gestita da Rae, scultrice e Yuri, naturalista. Marito e moglie, 50lei si occupa dell’aspetto artistico lui di quello più esplorativo e conoscitivo della zona in cui ci si trova.
Alla fine del primo mese mi è stato chiesto cosa fosse BigCi per me. Ho risposto:
È Rae, la sua delicatezza, il suo sguardo da artista, la sua riservatezza.
È Yuri, il suo entusiasmo, la sua curiosità, la capacità di organizzazione necessaria per muoversi tra i bush.
È Rae e Yuri, la loro preziosa accoglienza e mente aperta, che non è scontata ma penso sia più facile trovarla tra coloro che vivono con e nella natura.
È un luogo dove la luce entra dalle finestre quando sorge il sole, la notte è densa, buia e silenziosa; solo il gracchiare delle rane spezza il silenzio e allora i nostri corpi seguono il ritmo della natura, si allineano ad essa.
È un luogo di scambio tra dentro e fuori, tra artisti, dove si ha la possibilità di mettersi alla prova e creare nuove connessioni.
Tornando all’esplorazione del luogo, una pratica che Yuri e Rae ci proponevano settimanalmente era quella delle bushwalks: camminate tipiche fuori sentiero, nei paesaggi australiani. Camminare fa parte della mia ricerca artistica, un’occasione più unica che rara per iniziare a conoscere il loro territorio e soprattutto a modo loro. Una pratica conoscitiva rivolta all’interno, sfidante, si è costantemente in relazione con i propri limiti siano questi fisici o mentali; il più delle volte mentali. Attraversare uno spazio, essendo totalmente immersi in esso, il paesaggio è sinestetico, il mio corpo diventa un filtro, cattura e assorbe tutto l’ambiente circostante. Un corpo poroso che lascia entrare e al momento giusto si rivela all’esterno o all’estraneo…
Più volte mi sono chiesta cosa potesse significare camminare fuori sentiero se per tutta la durata del cammino non resta e non si vede nessuna traccia.
Yuri ci guida all’interno del bush australiano. È solito tornare in un luogo non prima che siano trascorsi 5 o più anni. Allora quel luogo non è più lo stesso, ogni passo è imprevedibile; rocce franate, alberi caduti che intersecano altri alberi, creano ponti o ostruiscono il passaggio. Bisogna essere creativi! Reinventare la “strada”.
Conoscere la geomorfologia del luogo ci permette di essere più sicuri, decidere di scendere o salire di un livello (come indicato dalle isoipse, linee concentriche relative all’altitudine del piano di riferimento). Non ci sono tracce a terra se non quelle lasciate da alcuni animali, come il wombat2. Yuri rassicurandoci ci dice che se ci fossimo persi, saremmo dovuti salire, camminare verso l’alto senza scendere (scendere a valle, come siamo soliti fare in Europa). Seguiamo la cliff3. Si affianca la roccia, ma bisogna stare attenti, a volte ci sono dislivelli di parecchi metri. I bushwalker portano con sé una corda, o meglio una sorta di cinghia; mi è capitato di usarla per calarci su un livello inferiore di circa 2 metri e per un altro di 20 metri, difficile fare previsioni, ma avere il giusto equipaggiamento è necessario per la propria sicurezza. Maniche e pantaloni lunghi, scarpe con una buona presa su roccia! Essere consapevoli che dopo ogni camminata gli indumenti, avrebbero riportato altri segni, fa parte dei bushwalker; inutile pensare di averla vinta, c’è sempre un punto in cui impigliarsi, una fessura tra le rocce dove incastrare il piede, che ti salva e allo stesso tempo gratta la gomma delle scarpe. Mi affascina osservare il loro abbigliamento; piccole toppe, rammendi con cuciture a vista che diventavano quasi un decoro, mostrano il prendersi cura di qualcosa e un’alleanza con il bush, ci si modifica a vicenda dentro e fuori.
Essere pronti, è fondamentale, nonostante si tenga un ritmo sostenuto, è importante guardare dove si poggiano i piedi ed essere cauti, a volte ci sono foglie scivolose, la pendenza non permette di avere una base solida su cui camminare ma è ancora più importante fidarsi del paesaggio. Il movimento del corpo fa spazio tra gli alti cespugli di Lambertia formosa, più comunemente chiamata Mountain Devil, il frutto sviluppa due protuberanze che lo rendono simile alla testa di un diavolo ed è molto presente nelle Blue Mountains.
Prima con le mani, poi con tutto il braccio, come se stessimo rovistando, si continua a cercare una possibile direzione o chissà cos’altro; intanto le foglioline lanceolate, sfiorate in punta, ti pizzicano il corpo. E ancora sposta a destra, sposta a sinistra, si esala forte l’odore di eucalipto. Il bush australiano ne è pieno.
La pianta di eucalipto comprende quasi 800 specie ed è la seconda specie in Australia dopo l’acacia. Il meteo migliore per una bushwalk è quello un po’ nuvoloso, non troppo caldo e non troppo freddo, se il giorno prima è piovuto, meglio; la terrà è più compatta, meno polverosa, la cenere dei precedenti incendi rimane più bassa e tutti gli odori sono più intensi.
Tutti i sensi sono estremamente coinvolti come quasi sempre avviene quando si entra in relazione con un paesaggio. Il tatto: le piante che ti pungono, il corpo che letteralmente fa spazio, fidarsi della roccia, piccoli punti di appoggio dove è importante sentire la presa giusta. I bushwalker portano con sé dei guanti perché è piuttosto facile tagliarsi.
L’olfatto, si è letteralmente immersi, avvolti ricoperti da odori. L’udito, il fruscio delle piante, i rami e i tronchi che si spezzano quando ci passi sopra, la corteccia a terra, tantissime specie di uccelli – perfino le persone del luogo faticano a identificarle tutte – sciami di insetti… Anche il gusto è importante; ci sono piante commestibili in alcuni periodi dell’anno, dolci, altre amare, altre che sanno di liquerizia… l’acqua che filtra tra il muschio e le felci, piccoli ruscelli, la polvere che a fine camminata ti ricopre completamente e c’è da ritenersi fortunati a poter assaporare anche quella.
E poi arriva la vista, è una sorta di educazione dello sguardo; il bush ti prepara ad accogliere qualcosa di inaspettato. A volte è così fitto che non riesci a capire la tua direzione a 1 metro di distanza, anzi meno, poi improvvisamente si apre, gli alberi si diradano, il terreno è più arido, e l’orizzonte si allontana, formazioni rocciose riempiono lo spazio e come in un quadro cubista il soggetto diventa sfondo e viceversa.
Queste particolari formazioni rocciose alternano strati di “sandstone” a sottili strati di “ironstone”; l’acqua e il tempo sono i fattori principali che le hanno modellate, permettendoci di godere un paesaggio apparentemente extraterrestre. Allo stesso tempo ne dobbiamo essere custodi. È un paesaggio fragile. Quando ci si cammina sopra, bisogna fare attenzione a dove si poggiano i piedi: non sul bordo, perché frammentato e in alcuni punti sottilissimo, ma sempre nella parte più centrale, quella più solida.
Le chiamano “pagode” per la caratteristica forma che ricorda le pagode giapponesi, più larghe in fondo e strette a salire. Sculture vere e proprie! Yuri ci tiene particolarmente a rendere le persone che accompagna più consapevoli di quanto ancora c’è da preservare, e il primo passo per far questo è proprio farne esperienza, toccare con mano per comprenderne la fragilità e prendersene cura.
Ho avuto l’opportunità di scambiare alcuni pensieri con altri bushwalker, spinta dalla mia curiosità e interesse per la loro relazione con il paesaggio. Riporto qui alcune delle risposte a una delle mie domande: «Che cosa significa davvero esplorare?»
Scott: Esplorare significa chiaramente trovare nuovi luoghi. Luoghi che possono essere stati scoperti da altri, ma non da voi stessi. Quindi, significa sfide, ampliare le proprie conoscenze, vedere una bellezza unica che differisce dalle precedenti esperienze di bellezza, sperimentare qualcosa di nuovo piuttosto che fare di nuovo la stessa cosa, il divertimento e il piacere di condividere l’esperienza della scoperta, cercare di capire ciò che si sta vedendo – la sua storia – quali animali e piante vivono qui e come si è formato il luogo, non sapere cosa ci aspetta, superare qualsiasi sfida ci venga posta. L’esplorazione espande la mente e quindi la persona che siamo. Fare sempre la stessa cosa è esistenza, ma non è vita. L’esplorazione sviluppa l’uomo del futuro. L’esplorazione piace a chi cerca di espandersi, ma non a chi ha paura di evolversi e svilupparsi. Esplorare il bushland permette tutto questo, ma con un’enfasi particolare sull’interpretazione e sull’espansione della comprensione del nostro mondo naturale, la nostra culla di nascita.
Michael: Andare con una mappa, una bussola, qualche amico e possibilmente una foto aerea, senza tracce e senza limiti di luogo, ma solo la meraviglia, la gioia, l’esperienza libera. Catturare le emozioni su pellicola o a parole. Svegliarsi al canto degli uccelli al mattino, vedere il cielo pieno di stelle di notte, il semplice piacere di nuotare nudi e liberi in un ruscello cristallino…
Marcus: Essere nei luoghi senza conoscerli prima. (Anche senza averne letto). Essere in un luogo senza bisogno di andare oltre, osservando davvero. Anche essere guidati da un luogo di interesse a un altro dai propri sensi, non dalle proprie aspettative o dalla percezione appresa.
Che cosa significa davvero esplorare me lo sono chiesta anche io. Sono solita fare una ricerca preliminare sui luoghi che ho intenzione di “esplorare”. Oggi la tecnologia ci permette di essere virtualmente in un luogo che sta dall’altra parte del mondo. Possiamo capirne la morfologia, sapere quanti abitanti ha, che negozi ci sono, le strade, la temperatura, eventi particolari… questo crea aspettative, che la maggior parte delle volte vengono disattese, ma fortunatamente nel mio caso non è motivo di delusione, al contrario, sorpresa e meraviglia.
Cercare di conoscere qualcosa prima di essere in quella cosa, anche se con un risvolto positivo, ci discosta dal vero concetto di esplorazione. Esplorare significa toccare l’ignoto. Ritrovarsi in un luogo sconosciuto porta in superfice le nostre parti nascoste, quelle più fragili, quelle che cerchiamo di non contattare perché ci spaventano. Allora avviene un allineamento; sulla stessa profondità si incontrano un paesaggio ignoto interno ed esterno ed è lì che inizia l’esplorazione. Fuori sentiero!
NOTE
1 Nate durante e dopo un periodo di residenza di tre mesi presso BigCI, BilPin, New South Wales, Australia.
2 Appartenenti alla famiglia dei marsupiali australiani, sono dei quadrupedi lunghi circa 1 metro con zampe e coda molto corte, si muovono lenti tra le foreste sudorientali scavando una rete di gallerie sotterranee. Ho avvistato tantissime tane, piuttosto grandi e soprattutto tantissime feci dalla caratteristica forma a cubetto. Ho avuto anche la fortuna di vederne uno durante una camminata.
3 Scogliera, ma in questo caso non si affaccia sul mare. È una parete rocciosa scoscesa, a volte molto inclinata dove per salire o scendere è necessario l’utilizzo di una corda o arrampicarsi facendo leva su alberi o piccoli appigli su roccia.
4 L’immagine si compone di alcune sensazioni ed osservazioni, tradotte in parole scaturite durante il cammino.