Giulia Iacolutti ha una formazione complessa, è laureata in Economia dell’Arte a Ca’ Foscari di Venezia, ha studiato fotografia e video all’Accademia del Teatro alla Scala di Milano, e quindi, in seguito alla vittoria di un bando europeo, nel 2014, è stata per quattro anni in Messico, dove si è diplomata in Foto Narrativa alla Fondazione Pedro Meyer con una borsa di studio del World Press Photo.
Le abbiamo chiesto di parlarci di questo suo percorso di formazione, in cui ha messo parecchia carne al fuoco.
Giulia Iacolutti – Se potessi mi dedicherei principalmente allo studio. Ogni tappa percorsa risponde a un’esigenza del momento, un’esigenza che resta sempre ancorata all’idea che attraverso l’arte si possa leggere meglio la realtà. La mia formazione può apparire sconnessa, eppure continuo ad applicare quanto appreso anche in contesti diversi. L’Università mi ha insegnato a guardare all’arte come servizio; l’Accademia un metodo basato sulla progettazione; il Messico a raccontare, prima in forma documentaria, poi poetica.
Angela Madesani – Cosa ha significato studiare fotografia in Messico? Quali le differenze con la realtà italiana?
G.I. – Nello studio il gruppo aveva un peso preponderante; alla base di ogni esperienza c’era la voglia di condivisione, confronto e dialogo. Le attitudini del singolo venivano esplorate e arricchite dal dibattito collettivo; poca la competitività, molto più presente la consapevolezza che fosse proprio la somma di pensieri a rendere un progetto completo.
Le scuole educavano a investigare nel proprio vissuto: c’era chi si soffermava sul racconto intimo, chi, invece, quelle esperienze private le universalizzava. Si evidenziava come ogni progetto nascesse sempre da un’inquietudine personale; io tuttora mi domando: “Perché mi interessa?” e “Perché dovrebbe interessare ad altre persone?”. Il fermento culturale non si limitava alle aule, dopo lezione c’era sempre il tempo di un mezcal, un distillato, o una “chela”, una birra, per continuare il dibattito. La mancanza di risorse economiche non era un limite, il costante e diffuso stato di vulnerabilità generava una rete di mutuo soccorso che dava la forza per perseguire gli obiettivi. Forse vivere in Messico, oltre che studiare, mi ha insegnato a osare.
A.M. – Profondamente legato al Messico è il tuo primo libro, del 2019, Casa Azul, pubblicato da The(M) edition di Parigi, e da studiofaganel editore di Gorizia. È un libro stampato e impaginato in maniera affascinante, in cui soggetto e forma riescono a divenire un unicum. Il libro ha vinto il Premio Marco Bastianelli 2020, come miglior libro d’artista di fotografia e ha ricevuto la menzione d’onore al Photobook Maribor Award 2020.
Il progetto, inoltre, è stato esposto in una personale al PAC- Padiglione d’arte contemporanea di Milano nel 2021.
È un libro d’artista, che costituisce un’importante testimonianza politica e sociale sulla realtà delle carceri messicane, un’indagine socio-visiva sulle storie di vita di cinque donne trans imprigionate in uno dei penitenziari maschili di Città del Messico. È questa una dimensione affascinante del tuo lavoro.
G.I. – Casa Azul per me rimane il progetto più importante e completo al momento sviluppato. Portarlo a termine è stato epifanico, finalmente avevo trovato come realizzare un lavoro su un tema sociale senza cadere nel didascalico, ma anzi capace di generare una riflessione più filosofica. Come spesso succede nel mio lavoro, la fotografia è stata il punto di partenza, ma l’introduzione della cianotipia per parlare delle divise blu indossate dalle donne (da qui il titolo “Casa Blu”) ha permesso alla foto di convertirsi in oggetto, e alla tecnica di stampa in veicolo di contenuto. Esattamente come la mostra ed il libro: le cornici 70×100 cm, grandi rispetto alle stampe, sono le celle delle detenute, mentre nel libro la spaccatura centrale rosa (foto al microscopio di un tessuto prostatico trattato con ematossilina-eosina, liquido di contrasto rosa usato per gli studi istopatologici) evoca l’eterna lotta binaria vissuta da queste persone.
Dopo Casa Azul non sono più tornata indietro, ho praticamente abbandonato il fotogiornalismo a cui mi stavo dedicando e il passo successivo è stato cercare un percorso ancora più partecipato: volevo mettere in discussione l’autorialità stessa.
A.M. – Recentemente hai fatto una mostra alla Galleria Bi Box Biella, dove si parlava di calcio in una chiave del tutto particolare.
G.I. – Beyond The Game, come sostiene il curatore Marco Bianchessi, è una mostra che «restituisce al calcio un valore che va al di là della semplice performance sul campo da gioco, per guardare allo sport come un contesto complesso: una tribuna di osservazione privilegiata di comprensione del reale». Con questa premessa, la bi-personale ospita, a fianco al lavoro Ultras Youth di Giovanni Ambrosio, I don’t care (about football), progetto che vede coinvolta nella definizione dell’opera la Marangoni 105, squadra di calcio sorta all’interno di una residenza riabilitativa del Dipartimento di Salute Mentale di Udine. Il titolo del progetto, ispirato dalle parole di una ragazza della comunità terapeutica, suggerisce proprio come il gioco non sia fine a se stesso, ma diventi una pratica di inclusione e integrazione sociale. In mostra una selezione delle opere realizzate insieme alle persone della comunità durante i laboratori attivati tra il 2018 e il 2021 nell’ex Ospedale Psichiatrico del capoluogo friulano, in cui, attraverso pratiche artistico-espressive (fotografia, scrittura creativa, collage), si è riflettuto coralmente sul disagio mentale e sul percorso svolto in residenza, usando il calcio come metafora di un’esperienza di cura.
A.M. – Al calcio è dedicato il tuo secondo libro, che sta per uscire.
G.I. – A inizio 2023 uscirà proprio I dont’ care (about football), libro edito dalla casa editrice veneziana bruno. Nella pubblicazione, il concetto di autorialità verrà messo in gioco: dalle mie fotografie, labili e opache, si passerà ai collage, risultato di un processo creativo partecipato e concreto. Importante la parte dei testi: Maddalena Fragnito, Igor Peres e Tiziano Possamai indurranno il lettore o la lettrice verso un’interpretazione sempre più articolata del progetto. Necessario anticipare che saranno editate 500 copie uniche: grazie alla collaborazione della Marangoni 105, ciascuna copia presenterà nel centro del libro una silhouette tagliata a mano. Il taglio, azione presente nel progetto e che rimanda anche alla pratica dell’autolesionismo, è parte del processo di autodeterminazione: il ritaglio mostra infatti il vuoto e il pieno nel loro legame ed è attraverso questo intervallo che si passa per affrontare il disagio e rimettersi in gioco.
Gli editori hanno invitato la squadra in tipografia al fine di vivere l’esperienza della stampa. Questo a sottolineare come il coinvolgimento della squadra in ogni restituzione dell’opera sia parte fondante dell’opera stessa, nella convinzione che la rappresentazione della cura passi solo attraverso un processo di cura.
A.M. – La tua ricerca va ben al di là dei generi della fotografia. Hai pubblicato su National Geographic, Vice, La Repubblica, Al Jazeera, L’Espresso e Gatopardo, ma esponi in galleria e dai vita a libri d’artista. Mi pare un aspetto intrigante della tua ricerca in cui si esce da catalogazioni il più delle volte coercitive e soprattutto inutili.
G.I. – In realtà non ho ancora capito se questo mi penalizzi o mi favorisca.
I progetti nascono da storie di vita reale con un forte carattere narrativo/giornalistico, ma il trattamento estetico mi ha aperto uno spiraglio nelle gallerie e nei musei. Il fatto è che non miro a un particolare mercato, miro a un pubblico che sia il più allargato possibile. Per questo propongo molteplici forme di restituzione dei miei lavori, per arrivare a pubblici disparati.
Mi impegno sempre ad operare su più fronti: nel 2015 ho curato 365 por los 43, un progetto collettivo in collaborazione con il museo La Casa de El Hijo del Ahuizote di Città del Messico. Qui il vero obiettivo era distribuire i murales affinché venissero affissi per le strade delle città per denunciare la sparizione forzata di 43 studenti. Un altro esempio è Casa Azul, il lavoro che più ho esposto nelle istituzioni, ma che contemporaneamente ho raccontato durante i pride, presso l’Arcigay, nel patio dell’Hotel Gondolin di Buenos Aires, dove decine di donne trans trovano alloggio, fino ad arrivare dentro al carcere di Trieste. Il libro in questo caso era solo un tramite per iniziare una discussione sull’affettività e la sessualità in carcere, insieme alla garante dei detenuti e ad un’avvocata dei diritti LGBTI. Insomma, per me fare arte è fare politica.
A.M. – Lavori con diversi linguaggi dalla fotografia, al video, al ricamo, al disegno, alla calcografia alla performance. È un aspetto assai interessante della tua ricerca.
G.I. – La realtà è complessa, indagarla con un solo linguaggio mi sembra limitante. Provo a offrire allora vari livelli di lettura, così da riprodurre una visione articolata del contenuto.
Mi piace eliminare quel confine tra arte e vita attraverso la condivisione di esperienze che mettano in discussione i comportamenti normativi: da qui la necessità di praticare un’arte partecipativa che funziona nel momento in cui io stessa mi metto in relazione con l’altro e l’altra. L’opera diventa allora luogo del dialogo e il media viene proposto in base alle persone con cui lavoro, senza imporre un solo sguardo. Penso a Spazio di Genere, laboratorio di rigenerazione urbana durante il quale, attraverso il ricamo collettivo, gruppi di donne tra i 20 e i 95 anni ragionano su come le geografie percorse e gli spazi abitati abbiano inciso sulla performatività di genere, appunto. Ho scelto il ricamo perché è un’attività che la maggior parte delle donne conosce e che può insegnare all’altra; è un gesto meditativo ed è una pratica normalmente associata alle arti femminili, finalizzato però all’assimilazione di un pensiero volto ad abbattere gli stereotipi di genere.
A.M. – Cosa c’è nel tuo futuro oltre al libro del quale abbiamo appena parlato?
G.I. – Rallentare, ordinare e scrivere, i buoni propositi per il 2023.
Sebbene il libro porti con sé una serie di impegni – non mancheranno infatti le presentazioni e un paio di mostre di I don’t care (about football) – dopo un anno di esposizioni, desidero dedicarmi allo studio. Dal 2020 porto avanti una ricerca artistica che esplora i neurotrasmettitori e gli ormoni regolatori della sfera emotiva, come la dopamina, l’adrenalina e l’ossitocina. Il lavoro è caratterizzato dall’uso di molteplici media (fotografia, video Super8, laboratori di arte relazionale, performance). È un progetto che cerca un’immagine poetica sull’importanza dell’affettività e della cura in una società in cui il piacere è sistematicamente represso e controllato.
Per informazioni sulla prevendita del libro I don’t care (about football): bruno editore, venezia (http://www.b-r-u-n-o.it/idontcare/).