Al centro si vedono quattro grandi tigli e una gru che si innalza come un obelisco; un’altra, come una croce, si staglia all’angolo destro sulla fetta di cielo ancora visibile. Una baracca prefabbricata è stata allestita per accogliere operai e attrezzi; sopra un container telai e tavole zincate aspettano di diventare ponteggi. Tutto attorno, come un abbraccio, si distende il cantiere. Muri di mattoni rossi riempiono le caselle disegnate dalle strutture di metallo e i grandi teli, forse perché gialli, anziché nascondere i lavori e proteggere i passanti, fanno da evidenziatore. Il cantiere in via della Commenda a Milano è fermo per il Covid-19. Per 39 giorni consecutivi, dal 27 marzo al 4 maggio 2020, Lorenzo Ceva Valla scatta 30 fotografie al giorno, dalle prime luci dell’alba fino a notte fonda. Dal terrazzino della sua casa fotografa ossessivamente e maniacalmente, nella stessa identica inquadratura, per almeno 1200 volte, il panorama di un cantiere fermo. Perché? La risposta, immancabilmente, sta proprio nella condizione eccezionale che la pandemia ha costretto le nostre esistenze. Se, tuttavia, anziché cavalcare la vulgata del tempo dilatato, congelato, sospeso e chissà cos’altro ancora, si volesse condurre una più meditata riflessione, in questo scatto reiterato e compulsivo verso un oggetto, banale, più che normale, si potrebbero individuare alcuni nodi tematici che banali non sono affatto.
Innanzitutto la luce. Nulla di nuovo, si direbbe, se fotografare vuol dire, appunto, disegnare con la luce. Ma qui la protagonista non è la luce definita da una relazione istantanea tra diaframma e otturatore, ma più concretamente come vengono percepite le molteplici, addirittura infinite forme che assume, ottenute proprio grazie alla serialità degli scatti. La fissità dell’oggetto fotografato, a fronte della mutevolezza della fonte che lo illumina, apre alla variabile tempo. L’esercizio cui ci invita Ceva Valla allora è questo: seguire la traccia lasciata dalla luce, contemplare le sue variazioni e riflettere sulla dimensione del tempo. Il cantiere immobile è lo specchio che ci avverte, la superficie su cui la luce riflette il proprio passaggio. Analogamente alla cattedrale di Rouen nei 31 quadri di Monet, il “cantiere incantato” ci invita a misurarci con la percezione soggettiva che abbiamo della realtà e a interrogarci sul senso del tempo che passa, una riflessione che è anche coscienza e presagio della morte. L’uomo, fatto di polvere, ritornerà polvere: questa è la condanna biblica che incombe nella nostra cultura.
La sfuggente immaterialità del tempo assume le spoglie di una materia che si fa fatica a palpare, come il dorato pulviscolo del controluce che, lentissimamente eppur senza sosta, si deposita nelle “coltivazioni” di polvere di Duchamp. Elio Grazioli, a proposito del rapporto tra l’opera di Duchamp e la fotografia di Man Ray, parla di un élevage de lumière che permette all’opera di nascere e svilupparsi. Scrivere con la luce, percepire in una fotografia il passare del tempo, i suoi mutamenti e i suoi effetti, significa definire come temporale l’atto fotografico, attestare che la sola condizione per la fotografia è quella di registrare una traccia luminosa. Guardare non è più limitarsi a osservare, documentare, testimoniare l’esistenza di un luogo o l’accadere di un evento, ma è constatarne la transitorietà: le stagioni che si alternano, la vita umana che passa, gli istanti che si susseguono. Se si accostano il primo e l’ultimo scatto dei 1200 che costituiscono il “cantiere incantato” ci si accorge che, a parte le condizioni di luce, quasi tutti gli elementi sono perfettamente sovrapponibili, tranne l’aspetto degli alberi, alla fine tutti forniti di rigogliose fronde. La natura vince sempre, è il responso finale del lavoro. Ma il ciclo della natura è fatto di tempo.
Ceva Valla utilizza i suoi scatti come frames di un filmato time lapse, trentanove giorni che potrebbero essere condensati in meno di un minuto. Avrebbe potuto ottenerli con una videocamera fissa, estraendo dal filmato un’immagine ogni 48 minuti. Ha preferito, invece, sottomettersi ad una disciplinata routine di scatti, a ritmi alterati di sonno e veglia, ad uno sforzo fisico e ad uno stress psichico. Mortales vos esse docet quae labitur hora, l’ora che scorre vi insegna che siete mortali. Labitur, come lapse, è figlio di labor, il verbo che indica ciò che è destinato a passare e a cadere, a venir meno. Fotografare il cantiere tutti i giorni e a tutte le ore può, allora, essere un antidoto allo stillicidio inesorabile del tempo, fallace quanto si vuole ma, almeno finché ci si crede, efficace.
La velocità del “fuori” non dipende più dal semplice rapporto tra spazio e tempo, dal momento che sia l’uno che l’altro dei termini dipendono dai valori loro attribuiti dal soggetto che guarda. In altre parole spazio e tempo del cantiere bloccato dipendono da come li elabora il “dentro”. Non uno spazio generico, ma un ambiente libero da tutto ciò che distoglie e distrae, uno spazio mentale di concentrazione; non un tempo misurato uniformemente e meccanicamente scandito, ma un ritmo definito dalla relazione con le cose. La casa-studio del fotografo è come l’abitacolo nel San Girolamo di Antonello da Messina, un luogo nel quale ritirarsi quando si vuole entrare in un personale paradiso dei sensi e della mente. Il tempo-tarlo, tra le tarsie dello studiolo di Federico da Montefeltro a Urbino, si addomestica, si ammansisce e diventa il filo amico con cui cucire i lembi della propria esperienza del mondo.
Dalla luce è emerso il tempo, ed è su questo che si concentra la fotografia di Ceva Valla: nei trent’anni che ho vissuto in questa casa ho fotografato in più occasioni questa stessa vista. Il racconto lo potrei riassumere in 10 fotografie mostrando quindi un’accelerazione del tempo. Nel caso di questo progetto l’effetto è opposto, le fotografie analizzano il tempo quasi ad un ritmo reale. La tecnica adottata è funzionale al suo discorso: usare una fotocamera con un’altissima definizione, prestare attenzione ai minimi dettagli, adottare una focale che consente una perfetta messa a fuoco, aggiungere luce alla luce. Tutto questo ha come effetto la perfetta visibilità dell’oggetto, come se si potesse toccare, come se fosse possibile entrarvi dentro. Ceva Valla ha estrema cura di ciò che osserva e illuminare un oggetto equivale a farsene carico, reclamarne un contatto, fisico, corporeo, diretto.
Toccare è anche un modo per conservare la memoria: aggiungere il tatto, potenziare i sensi, il proprio modo di sentire. Pensando a queste immagini, il verbo immortalare, così abusato quando si parla di fotografia, perde il suo tono enfatico e acquista il giusto senso di “togliere alla morte”. In quanto al tatto, la fotografia è impronta, poiché è immagine diretta del referente, non solo “iconica”, cioè legata per analogia a ciò che rappresenta, ma, anche “indicale”, cioè basata su un rapporto fisico, di contatto. Non è forse ogni fotografia il calco di una presenza che si rivela mediante la luce, quasi un contatto fisico, una pelle che avvolge la fotografa, i soggetti raffigurati e lo spettatore, “un cordone ombelicale” in grado di collegare il corpo della cosa fotografata allo sguardo di chi la osserva? La fotografia, per Ceva Valla, si genera per accumulo di luce, di tempo e dunque di memoria.
Se nell’oblio i colori si attenuano, impallidiscono, si sottraggono alla materia, nelle foto di Ceva Valla sono costituivi della memoria. Al trascorrere del tempo, costante minaccia alla possibilità di ricordare, il fotografo oppone l’esaltazione del colore. I colori non sono solo fatti per essere visti, ma per essere ricordati. Appaiono vivi, intensi, sontuosi e sono l’incanto di queste immagini. Per farlo, il fotografo si fa artifex, un homo faber del XXI secolo che ai pennelli, agli smalti e alle terre ha sostituito il lavoro sui pixel. Non è il blasfemo di De André costretto a sognare in un giardino incantato, ma l’uomo che sceglie di costringersi in un cantiere incantato, a farne il proprio orizzonte, la siepe che lo esclude dall’infinito. Sceglie di esperire il proprio tempo lavorando minuziosamente, lentamente, da amanuense, sulla materia che il caso gli ha offerto. I pixel delle sue foto sono le lettere, le immagini sono le pagine, l’intera sequenza è un codice che racchiude un sapere. Rinchiuso nel suo studio, crede, o spera, di sottrarsi al tempo degli orologi e di mettersi al tempo dell’intelligenza e del cuore.
Un “cantiere incantato” è la parentesi silenziosa e immobile nell’eterno fluire delle cose, il luogo prescelto per concentrarsi sul significato della propria vita, una capsula in cui accumulare l’energia da impiegare per agire nel mondo. Lorenzo Ceva Valla ha stabilito un limitato orizzonte, un modesto raggio d’azione, nel quale si immerge, profondamente, totalmente, irreversibilmente. Misura e confronta ogni pixel, decide ciò che essenziale e ciò che è superfluo, analizza e corregge ogni foto. Il fotografo sembra suggerire che non ci sono istanti decisivi, che i momenti significativi esistono se i significati li mettiamo noi, e che fotografare non coincide solo con il saper cogliere un evento che accade, ma crearlo dal nulla. Dal suo lavoro si può apprendere a lasciar perdere le mode e a concentrarci sulla nostra conoscenza della realtà, a conservare e curare il sapere. È quanto hanno fatto i filologi e gli umanisti, quando, con immenso studio, ci hanno tramandato i classici dell’antichità. Li hanno copiati, confrontati nel minimo dettaglio per stabilirne la successione cronologica. Hanno amato e posseduto quei codici con metodo e dedizione fisica. Di questo atteggiamento filologico, il lavoro di Lorenzo Ceva Valla conserva il metodo, la precisione del dettaglio, l’idea di un lascito, di una memoria.
Se il nome significa qualcosa…