«Il chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare;
lo si osserva dal limite […] è un regno che un’anima abita e custodisce».
Maria Zambrano in Chiari del bosco (1977)
In principio è il vuoto, l’origine della forma artistica o, se si preferisce, di ogni creazione. Al di fuori di ogni pensiero strutturato il cerchio si presenta, esteticamente, come il suo contorno. Ed è qui che la sua forma diviene eccelsa, che esprime la sua unicità. Tutto ciò che conta è circolare e circolare è tutto ciò che si immagina “perfetto”. Il cerchio è forma di congiunzione e connessione, ma al contempo difende e separa. Più semplicemente il cerchio racchiude il potenziale profondo dell’essere, di qualunque natura esso sia. Ciò è reso evidente dalle opere esposte nella collettiva intitolata proprio Il Cerchio in corso presso Red Lab Gallery a Milano. In ognuna di esse si può ritrovare questo elemento sotto varie sembianze e parimenti si possono notare affinità con innumerevoli discipline quali geometria, astronomia, teologia, filosofia, fisica in cui la forma del cerchio non solo si impone, ma induce a trasformare il vuoto in pieno nella misura in cui si tende a trovare un’identificazione di ciò che il vuoto rappresenta. Il vuoto associato al cerchio dimostra dunque un fascino ancestrale, una natura trascendente e divina che l’uomo può tentare di spiegare mediante calcoli e descrizioni, ricorrendo a simboli del passato, scomodando archetipi antichi, suggerendo metafore allusive, ma l’evidenza è una, molto più naturale: nella sua essenza il cerchio rappresenta in modo inequivocabile il ciclo infinito vita/morte, qualcosa che da un punto di vista scientifico pensiamo di conoscere, ma che sotto il profilo spirituale capiamo solo vagamente accettandolo, spesso passivamente.
Per assonanza nucleo, centro, il cerchio rappresenta quel punto recondito dell’essere che continuiamo a esplorare, talvolta senza venirne a capo. La forma tonda enfatizza questo aspetto che non può essere visualizzato diversamente ed è questo a far apparire il vuoto che per la cultura occidentale può essere paragonato a un cortocircuito mentale: nel momento in cui si tenta di dare un significato al “dentro” ecco infatti che, a tratti intermittenti ma impressionantemente ripetitivi, compare il divino, l’entità superiore invisibile, l’unico in grado di governare il caos che emerge dalla nostra osservazione del profondo, dalle nostre intuizioni confuse e al contempo emozionanti.
Oltremodo il vuoto ha un’estetica e a noi pare che qualcosa manchi. L’estetica del vuoto crea una sottolineatura che l’artista tende a trasformare colmando la mancanza attraverso il proprio segno interpretativo, la propria verità.
Una sintesi ottimale di tale ipotesi è rappresentata qui dall’opera In his short life (2019) in cui Pierluigi Fresia, riferendosi a un artista di cui significativamente non si conosce il nome, mostra come nella sua breve vita, egli abbia prodotto 1500 disegni. La massa scura dell’opera li contiene tutti, emerge però un leggero filo bianco, un cerchio reso imperfetto dall’ingombro che ne contiene uno più piccolo come a sottolineare che il nucleo è contenuto nell’insieme, ma la sua emersione può avvenire solo lasciando andare tutto il resto: lasciandolo morire.

Al contrario la forma sferica utilizzata da Novella Oliana in Immersione e spinta (2018) esplora la superficie del mare provando a immergersi, ma tornando sempre a galla. Il filo qui è all’esterno, non permette alla sfera di entrare, trasformando così la superficie nel simbolo di un limite invalicabile sotto il quale si nasconde un profondo ricco che l’esperienza dell’artista in qualche modo tende a preservare: l’immersione genera la spinta attraverso cui superare proprio questo limite.
Il vuoto è all’origine di ogni segno artistico, abbiamo detto. Il gesto praticato attraverso qualsivoglia forma d’arte deve condurlo verso un’altrove. Nella cultura orientale, in specie quella giapponese, uno degli ideogrammi che significano “vuoto” è MU il quale ha innanzitutto un senso privativo, indica cioè la non presenza di qualcosa. Sulla tomba del regista giapponese Yasujirō Ozu compare questa iscrizione che in quel contesto viene tradotta in Nulla, sottolineando la chiusura del cerchio che ha visto la sua apertura con la nascita. Il vuoto, o il nulla, non rappresenta quindi un valore assoluto quanto una dinamica che annulla ogni pregiudizio per giungere alla creazione in cui tutto si mostra nella sua verità. Ed ecco che questo aspetto ci porta all’opera di Gianluca Brando, Soffio (passaruota), 2021. Il titolo dell’opera appare in netto contrasto con la dimensione e il peso specifico dell’opera stessa, ma al contempo sottintende un passaggio inevitabile che trascende il limite del tempo e del “corpo”. Tali elementi sono stati protetti in vita dall’oggetto che l’artista ha come eletto a simulacro, antro di sepoltura, custode del soffio vitale. Esso assume il senso di reperto emerso da una archeologia che appartiene a un’epoca che cede il passo a localizzazioni stratificate che riempiono lo sguardo post analogico.


E di archeologia parla anche Ezio D’Agostino. L’opera NEOs 41 (2017), mostra una lampada fotografata nell’ufficio del Gruppo PwC con sede a Lussemburgo Ville che offre, tra gli altri, servizi rivolti alle aziende che intendono entrare nel business dello sfruttamento delle materie prime presenti nello spazio al di fuori della Terra. La sfera all’interno del lightbox potrebbe quasi essere equiparata a un pianeta, simboleggia in qualche modo la volontà di impadronirsi di altri mondi che, se necessario, si possono inventare, non a caso il claim che PwC utilizza per il progetto “Spazio” è Il cielo non è il limite. Così l’archeologia futura legata a questi mondi non produrrà memoria rendendo la loro esistenza effimera.

100% cotton. Courtesy l’artista e Red Lab Gallery
Analogamente l’emersione delle vedute Square with concentrics circles (2013) di Marco Cadioli, visioni da Google Earth in cui vi è la perdita del riferimento reale che trasforma l’immagine in dipinto (digitale), fanno comprendere come il mezzo non serva più a “informare”, ma che sia l’artista a porlo al proprio sevizio modificando radicalmente la natura per cui il media è stato concepito. Piattaforme che si trasformano in pantografi da cui originano immagini esteticamente simili agli strumenti che rilevano presenze non identificate, l’artista è come un moderno rabdomante che cerca in uno spazio virtuale.
Il vuoto, quel buio che è centro, nucleo, che si avvicina senza mostrarsi, ma che appare denso, pulsante, è in realtà materia viva dapprima indefinita, ma che lentamente si rivela come in Quantum R-Evolution (2024), video del duo artistico Nicola Evangelisti e Silvia Serenari in cui l’uso della luce disegna linee arabescate che inneggiano alla bellezza naturale, fragile e violenta al contempo. Sull’orlo di un buco nero che sembra poterci risucchiare da un momento all’altro, in pochi istanti capiamo che siamo in realtà osservati, la visone del fondo oscuro si allontana dando spazio a un occhio virtuale che ci ipnotizza e ammalia: guardiamo e siamo guardati immersi in un processo di dilatazione che ci riporta nuovamente verso il buio.

Lo spazio diventa tempo in Above us, only sky (2022) dell’artista Marco Brianza. L’opera, una sospensione di luce circolare, nel percorso espositivo e a dispetto della tecnologia che la compone, ci riporta a un rapporto poetico e umano con ciò che vediamo se alziamo lo sguardo. Il cielo fotografato dall’artista, prende vita attraverso un software che lo fa muovere in modalità smoothing simulando così il movimento delle nuvole sospinte dal vento, il cerchio sospeso ne rimanda piccoli bagliori che colpiscono l’immaginazione. Il titolo riprende un verso del brano Imagine di John Lennon simbolo di pacificazione, e non potrebbe essere altrimenti.


Ancora il buio è la dimensione ottimale necessaria a Nino Alfieri per creare le sue opere, vere e proprie emersioni cosmiche dotate di luce e suono. Nel lavoro di Alfieri, l’interno del cerchio è popolato di tracce antiche che evocano un passato ancestrale, parte ineludibile dell’essere umano primordiale. Tracce dimenticate che l’artista porta a nuova vita mediante esperimenti luminosi come nel caso di Congiunzione, bassorilievo esposto in mostra, la cui aura trae origine da un colore retrostante molto contrastato che la fa apparire naturalmente collocandola nell’interstizio tra la parete e l’opera. Nessun interruttore accende quella luce, esiste di per se stessa, metafora della luce cosmica che ogni corpo emana connettendosi universalmente, ma che non riusciamo più a vedere.
Il vuoto è il centro, il nucleo (ancora), ciò che sta all’origine. Non l’idea del vuoto ma l’esperienza del vuoto. È proprio grazie al vuoto che il Sole e la Luna si muovono facendo scorrere una stagione dietro l’altra. Tuttavia il vuoto non si manifesta e non opera se non mediante il pieno e il cerchio li protegge permettendo loro di congiungersi. Questo movimento fisico impercettibile e sensuale accompagna l’essere umano durante il suo ciclo vitale nel quale regnano passioni antiche come quelle che circondano gli dei dell’Olimpo narrati dai poeti dove amore e vendetta sembrano riflettersi sul presente senza soluzione di continuità. Nelle opere di Lorenzo D’Alba tutti questi elementi sono ben presenti. L’opera Un’alba (2023) appare proprio come un omaggio alla bellezza lucente di Afrodite che sgorga dal mare, apparentemente incolpevole, eterea e sospesa, sembra aleggiare protettiva su Leucotoe (2024) le cui spoglie mortali, frutto proprio di una vendetta amorosa della dea, nell’intenzione dell’artista giacciono ai suoi piedi racchiuse in una sfera di selenite (il cristallo della Luna), quasi come a voler rappresentare la dicotomia del carattere ambivalente femminile che è forza e insieme sottomissione.

La fisicità femminile si impone anche nell’opera The golden liquid (2024) di Giulia Iacolutti. Qui non è soltanto la maternità, antica come il mondo, a emergere in contrasto con l’effimera fisicità delle dee. L’artista pur mettendo in risalto fin dal titolo l’aspetto dello sfruttamento del latte materno, conduce l’osservatore verso una inaspettata e più ampia riflessione su una connessione intima – circolarmente espressa dalla rotondità del seno – rappresentata dai movimenti oculari madre-figlia che nell’immaginario risuona come un vagito primordiale, riportandoci all’origine, al punto di partenza, se così si può dire, del cerchio della vita.

Ad un’altra origine, quella dell’ascolto attento e, diremmo, puro pare volerci condurre Daniela D’Amore con il video Not yet (2020). L’artista prende spunto dalla teoria del sé enunciata dalla psicologa statunitense Carol Dweck per riportare l’attenzione sul condizionamento procurato dalle informazioni ricevute dall’esterno che il centro del nostro sé non riesce più a escludere. Il movimento circolare delle dita mostrato nell’intento di “pulire” e riattivare la protezione della zona attorno all’orecchio, così insistente, catalizza lo sguardo dell’osservatore sull’incapacità dell’uomo contemporaneo di ascoltare una verità coperta da suoni che calano l’individuo all’interno di un vortice totalmente privo di stabilità, condizione che porta al fallimento inteso come perdita non solo della propria identità rappresentata dalla capacità di discernere, ma anche della conseguente impossibilità di evolvere attraverso l’apprendimento esperienziale.

Proseguendo sul sentiero tracciato dal concept di questa mostra, incontriamo l’artista Carlotta Valente che attraverso le sue opere e con l’ausilio della sua esperienza di dark room ci mostra come i suoi Appunto n. 1 e Appunto n. 2 (2023), stampe ai sali d’argento ricavate da un lento processo di “trasformazione”, incarnino una profonda riflessione sulla percezione legata a una pratica quasi meditativa che si nutre di una precisa consapevolezza raggiungibile solo attraverso un certo tempo e una metodica gestuale, pratica che accompagna l’artista allo svelamento nella creazione. Una vera e propria esplorazione sensoriale che attraverso la vista, il senso maggiormente esposto, richiama a uno sguardo che si trasforma in esercizio immaginifico, producendo un’alchimia di sensazioni, sintesi fluttuante del mondo tradotta anche qui in cerchi.

Come narra la storia di Omero, Ulisse per ritrovare se stesso deve tornare da dove è partito e per farlo deve ritrovare la strada. La narrazione che in questo percorso ci ha portati fino all’origine del mondo, passando attraverso la vita e la morte, ci dice che per trovare il centro in cui l’anima ci attende occorre seguire le tracce che quell’entità che non conosciamo razionalmente ha disseminato lungo il cammino. Il passaggio dal dentro al fuori è proprio un atto poetico di fiducia qui rappresentato dall’opera È del poeta il fin di meraviglia, (una citazione da Gianbattista Marino). Luisa Elia ci invita ad “uscire” per incontrare la meraviglia di una nuvola frammentata che raccoglie un altro verso poetico, questa volta dell’artista stessa – È natura anche il pianto senza fiori (2023-2024) – posto a protezione dell’opera Mater Souvenir (2013-2015), nido accogliente, simbolo di una (ri)nascita. Le opere di Luisa Elia svolgono questo ruolo, infondono fiducia nella possibilità di ritrovarsi nonostante le asperità che il camminare su questo bordo circolare ci costringe a vivere non mostrandoci mai la fine.

La Terra è un piano solido, che calpestiamo con cautela consapevoli di non esserne padroni. Per tutto il tempo cerchiamo di mettere insieme i pezzi, ci confrontiamo, in fondo cerchiamo di non cadere nel vuoto. Eppure come cambia radicalmente questa dimensione se in quel vuoto vediamo tutte quelle cose che nell’esperienza abbiamo raccolto.
In principio è il vuoto, sì. Poi quel vuoto è divenuto creazione.
LA MOSTRA
Il Cerchio – Red Lab Gallery
27 febbraio – 30 aprile