Non si sono ancora spenti gli echi del film di Andrea Segre Berlinguer – La grande ambizione, uscito lo scorso autunno al cinema. Il tour che ha portato il regista veneto in giro per l’Italia non si è ancora concluso, oltre 70 presentazioni in 50 città, e già questo è un evento eccezionale per un film che alcuni potrebbero etichettare come “politico”. La pellicola ha ricevuto un’accoglienza commossa e partecipata non solo da parte della generazione che ha vissuto l’epoca in cui Enrico Berlinguer è stato il segretario del Partito Comunista Italiano, ma ha fatto breccia anche in tantissimi giovani che in quel periodo non erano ancora nati. Segre è noto per il suo impegno sociale e per il rigore con il quale lo persegue attraverso i film che realizza, ma, precisa, «non faccio politica con l’arte, faccio arte politica che è diverso». Ce ne parla in questa intervista rilasciata a Dario D’Incerti per la nostra rivista. (N.d.R)
Berlinguer – La grande ambizione, regia di Andrea Segre, Clip 1
Dario D’Incerti – Naturalmente la prima domanda riguarda il tuo ultimo film, Berlinguer, la grande ambizione, una domanda che probabilmente ti è stata fatta tante volte ma che comunque io non posso non fare. Come mai tu che sei nato negli anni Settanta, nel 1976 se non sbaglio, hai deciso di dedicare un film così importante, forse il film più importante che hai fatto fino ad ora, quello che comunque ha avuto la risonanza maggiore, a una figura come quella di Enrico Berlinguer?
Andrea Segre – Intanto perché non era mai stato fatto e mi è sembrato un pezzo importante di storia d’Italia, di storia del cinema e della cultura. Non è solo un film su Berlinguer ma anche sul PCI, su quegli anni, attraverso quel punto di vista; e poi perché mi è sembrato molto interessante raccontare la dimensione drammaturgica, esistenziale, di alcune vite, di tante vite che dedicano la propria esistenza a un sogno comune e considerato impossibile, o molto difficile, e vederli affrontare questa speranza, questo sogno. E infine perché credo che quella storia, quella comunità, quelle emozioni abbiano tanto da dire all’oggi. E questo è dimostrato dal fatto che molti ragazzi, non solo persone della mia generazione che non hanno vissuto quegli anni, ma anche molte persone più giovani sono andate a vederlo.

D.D’I. – A proposito di quest’ultimo aspetto un’altra cosa di cui secondo me vale la pena parlare è appunto il fatto che tu hai accompagnato il film in alcune proiezioni e quindi hai anche avuto modo forse di capire come questo film sia stato accolto in termini generazionali dove, per esempio, qualcuno potrebbe pensare che quelli che hanno una certa età sono venuti lì con un sentimento, non dico nostalgico ma quasi, mentre invece i più giovani sono forse stati attratti e incuriositi dalla storia di un personaggio di cui magari hanno sentito parlare dai genitori ma che non conoscevano.
A.S. – Di questo ho parlato anche in un lungo articolo apparso sul Domani in cui analizzo un po’ che cosa mi è sembrato sia successo, in sintesi, credo che certo ci sia stata curiosità per Berlinguer, ma poi il passaparola forte è stato che si è trattato di un film che ti racconta e ti fa vivere un’emozione che ti manca, una sorta di nostalgia per ciò che non si ha. La nostalgia dei meno giovani c’era, ovviamente, però la cosa interessante è la nostalgia, da parte dei giovani, la nostalgia di qualcosa che non si ha.
Berlinguer – La grande ambizione, regia di Andrea Segre, Clip 2

D.D’I. – C’è un’altra questione di cui mi piacerebbe parlare. Il film, questo è stato detto anche da alcuni critici, presenta una specie di paradosso, cioè raccontare la vita di un individuo, anche se tu giustamente molto spesso hai ricordato che in realtà è una galleria di personaggi, ma comunque è chiaro che il personaggio principale è Enrico Berlinguer, quindi raccontare la storia di un individuo e contemporaneamente celebrare o comunque insistere sulla dimensione comunitaria, collettiva, socialista, non in termini partitici ma proprio in termini di socialità. Raccontare quindi una stagione nella quale c’era un forte senso di collettività, di socialità, di comunità che poi invece è andato scomparendo negli anni.
A.S. – Questo è il tentativo con il quale abbiamo cercato di inserire il racconto, in parte biografico, di Berlinguer dentro una dimensione comunitaria perché non era separabile. Ci siamo sempre detti che non dovevamo fare un film su Berlinguer, ma con Berlinguer per raccontare proprio questa dimensione di vita in cui il privato e il collettivo, il privato e il politico si intrecciano, che è quella che ovviamente si è trasformata, molto più modificata negli anni. Certamente oggi l’individuo vive molto di meno il rapporto con la comunità. La trasformazione ha i suoi pro e i suoi contro, ovviamente, però ci sembrava molto importante dedicare questo racconto a quella scelta, a quelle scelte e a quelle vite e quindi calare Berlinguer dentro quel collettivo di cui era il segretario e non raccontare Berlinguer come leader maximo o come individuo speciale.

D.D’I. – Un altro aspetto di cui si è parlato è stata la scelta del cast, in particolare quella di Elio Germano. Per me, come credo sia accaduto per altri, che appartengo a una generazione che ha sempre visto un certo cinema di sensibilizzazione sociale staccarsi dal protagonismo di certi attori, la scelta di Germano che per voi, per te, viceversa è stata imprescindibile nel senso che era l’unica, o quasi l’unico attore che potesse interpretarlo, mi ha fatto pensare: Germano non ha rischiato di uccidere un po’ Berlinguer, di essere troppo attore, troppo personaggio famoso, troppo volto che era già stato Leopardi e tante altre cose? Questo al di là della bravura che nessuno gli può contestare.
A.S. – Non sono d’accordo perché serviva un grande talento per dar vita a un’operazione così complessa, quella cioè di essere se stessi, ma al tempo stesso scomparire. Lui è Elio Germano, non è Enrico Berlinguer, ma contemporaneamente ci aiuta ad ascoltare, a vivere delle cose, senza trasformarsi, senza imitare, ma guidandoci con il suo modo di interpretare, per cui il suo è un gesto artistico. Per questo credo che servisse un artista perché non penso che si possa far finta che quell’attore non sia falso, l’attore deve essere falso; non si può immaginare che sia più efficace prendere qualcuno che non è famoso così da non sovrastare il personaggio. Ovviamente un’operazione di ricostruzione è un’operazione di interpretazione, non si deve mai pensare che l’attore sia il vero Berlinguer, è lui, insieme a me che lo dirigo, che ci deve guidare dentro un atto artistico, creativo. Io credo che Elio Germano non sia un attore famoso, ma un attore bravo, questo mi interessa. Cioè non mi interessa per la sua fama, ma per la sua bravura.

D.D’I. – Se posso farti una domanda che riguarda un po’ più il tuo cinema, il tuo percorso artistico in generale, una cosa che mi viene da chiederti è questa: tu appartieni a una generazione, a un tipo di registi che hanno studiato e che hanno anche un po’ l’obiettivo, di operare un minimo di sensibilizzazione rispetto a certi temi anche se quello della regia rimane comunque un gesto artistico.
A.S. – Certo, io faccio arte come azione politica e sociale, credo che l’arte debba avere una funzione politica ma chiarisco sempre che non faccio politica con l’arte, faccio arte politica che è diverso. Io credo molto che l’arte e la cultura, nel mio caso il cinema ovviamente, abbiano un ruolo sociale e politico e lo debbano però esercitare con la competenza artistica. Intendo dire che non basta il tema politico o l’intenzione, diciamo, etica o di sensibilizzazione per fare arte, ma si può certamente fare arte per sensibilizzare e discutere sui tempi che stiamo vivendo.
