Letizia è una donna che cammina sulle ferite dei suoi sogni, riesce a tenere insieme
il dolore profondo per quello che ha visto e al tempo stesso la luce»
Michele Perriera
«Invincibili. Perché così non moriranno mai. Rimarranno per sempre, questo voglio dire, semplicemente questo. Sino a dopo. Una specie di dono. I punti fermi della mia vita»
Letizia Battaglia
QUEL MURO INFRANTO
Nel buio della sala del Teatro Biondo di Palermo, all’inizio dello spettacolo, a interrompere il bisbiglìo del pubblico in attesa, un muro grigio esplode e crolla all’indietro, con grande fragore, mentre mattoni (di finta pietra) invadono il palcoscenico. Superata la sorpresa e una certa istintiva paura, gli spettatori vedranno una ballerina dai tacchi alti giungere dal fondo, camminare con circospezione su quelle macerie, giungere al proscenio e lì fermarsi tracciando a terra con un gesso bianco una croce; poi, con un gesso scuro, segnarsi il viso. Adesso, sulle note di un vecchio blues con la voce lontana di Lil Green, è pronta a danzare, a raccontare a sé stessa e a tutti noi, con il suo corpo, la sua storia. Se non danzasse, come tante altre donne e ancora più di tanti altri uomini, ‘sarebbe perduta’.
Quella sera del 19 gennaio 1990, ero anche io tra quel pubblico, per l’anteprima italiana di Palermo Palermo del Wuppertal Tanztheater di Pina Bausch1 (spettacolo noto anche come “Das Palermo Stuck”, ‘pezzo’, così la coreografa nominava spesso le sue creazioni), e non dimenticherò mai quelle emozioni, durate per oltre due ore. Nei trenta e passa anni trascorsi da allora ho sempre pensato che nessuno, a teatro, abbia saputo scavare meglio nell’anima della città e nel suo corpo ferito e umiliato. In tempi più recenti, solo il teatro di Emma Dante a mio avviso ha raggiunto (s’intende, con assai diversa ma altrettanto personale cifra stilistica) una intensità paragonabile. A differenza della Dante – palermitano verace cresciuta in una città assai cambiata, ma per diversi aspetti sempre uguale – la Bausch aveva vissuto la Palermo di allora per un tempo breve e comunque da “straniera”. Ma con l’intelligenza, l’intuito, la sensibilità di un’artista di infinito genio quale era e sarà sempre aveva isolato le pulsioni e le ossessioni ancestrali, reali e simboliche a un tempo, della città – la violenza, il sangue, la carne, il sesso, il cibo, l’immondizia – per poi tradurle, nella poetica e nello stile inconfondibilmente propri, in figure che avevano la pulsante plasticità di profani tableaux vivants, sempre pronti ad abbandonare la fissità (anche stereotipica) del quadro per inseguire il movimento vertiginoso, spasmodico, imprevedibile della danza. Incredibili sequenze narrative di teatro-danza (e viceversa) dove il visivo, il sonoro, il gestuale avevano pari rilievo e che hanno resistito indenni al passaggio del tempo2.
Ma cos’era quel muro che, esplodendo all’improvviso rovinava a terra come spinto da una forza invisibile (o era forse imploso dal suo interno?). Per lungo tempo, Pina Bausch, cittadina del mondo, ma anche tedesca, avrebbe dovuto ripetere in innumerevoli interviste che non aveva voluto evocare la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania, preludio, a loro volta, del crollo della ‘cortina di ferro’. Le date, in effetti, potevano ingannare i cronisti superficiali: la prima mondiale dello spettacolo aveva avuto luogo nel dicembre 1989 a Wuppertal, circa un mese dopo l’epocale evento berlinese. Ma già da parecchi mesi l’artista era al lavoro su Palermo Palermo. La genesi dello spettacolo risale infatti all’anno precedente quando il sindaco della città, Leoluca Orlando, invita la Bausch per una residenza a Palermo commissionandole uno spettacolo da coprodurre tra il suo teatro e quello cittadino. Non tutti però sanno che a suggerire quell’invito a Orlando era stata Letizia Battaglia, all’epoca assessora in giunta. Come avrebbe raccontato in alcune interviste3, Letizia amava da tempo alla follia il lavoro di Pina Bausch (il primo spettacolo che aveva visto, a Parigi, era stato il leggendario Kontakthof, una creazione del 1978) e sognava da tempo di portarla a Palermo. Insieme al suo compagno Franco Zecchin. Letizia va a trovarla a Wuppertal. Pochi mesi dopo, nel maggio del 1989, la Bausch arriva a Palermo con il suo scenografo Peter Pabst e parte dei suoi ballerini. Resterà per meno di un mese a esplorare la città, i suoi umori, voci, colori, profumi e fetori, soprattutto nel centro storico, tra i vicoli degradati e le fatiscenti dimore nobiliari. Letizia era spesso al suo fianco, ma furono pochissime le fotografie che le fece (anche per una sorta di pudore verso un’artista che amava tanto e che tanto era già stata ritratta). Solo molti anni dopo, le avrebbe inserite nella sua celebre, bellissima serie dedicata agli ‘Invincibili’, come chiamava i suoi ‘punti fermi’ (oltre al fotografo Gabriele Basilico, tra gli artisti c’erano James Joyce, Pier Paolo Pasolini, Ezra Pound, Marguerite Yourcenar).
Quel muro invece, avrebbe detto la Bausch, evocava temi universali (come del resto tutta la sua opera) quali i confini, anche mentali, o le distanze tra i generi e la violenza maschile, intesa prima di tutto come dato culturale. Ma in quanto barriera fisica rappresentava anche un altro simbolo di una città dai confini, ora invisibili ora molto netti (‘città di padroni e di servi’ l’aveva definita Sciascia). Oltre che il suo ‘contesto’ in quel preciso momento storico. A farlo crollare, nel qui e ora, ogni sera irripetibile, del teatro erano – così almeno credo che tanti spettatori insieme a me lo abbiano vissuto – le crepe che proprio l’arte e i suoi linguaggi stavano aprendo nella cultura e nella politica siciliana, in una lotta apparentemente impari contro l’ignoranza e l’omertà. Alla prova dei fatti, era un wishful thinking. La solidità di quel blocco trasversale di potere rimase intatta mentre terribile sarebbe stata la reazione da parte dei vertici mafiosi come degli apparati istituzionali infiltrati: la Bausch era già rientrata in patria, pensando a come montare lo spettacolo, quando, nell’estate 1989, sugli scogli palermitani dell’Addaura, si allestiva un’altra scena, quella dell’attentato, miracolosamente sventato, contro Giovanni Falcone. Ma, non molto tempo dopo, a esplodere sarebbero state autostrade e interi palazzi, in un vortice di morte, di sangue, di macerie che sembrava non avere mai fine, talmente impetuoso da far sbandare e indietreggiare la cosiddetta ‘società civile’ che pure allora esisteva e resisteva, sulle strade e nelle piazze, non dentro le campane di vetro dei ‘social’.
Palermo Palermo – che Leonetta Bentivoglio aveva definito «il più notturno e pessimistico» dei suoi “pezzi” sino ad allora4 – resta nel mio ricordo piuttosto come una folgorante e liberatoria deflagrazione di colori e di suoni. Credo rappresenti anche uno snodo denso di significati per chi volesse tracciare il racconto collettivo della città negli ultimi 40 anni.. Racconto, o meglio romanzo, ancora compiutamente da scrivere5.
Quasi la metà di questo quarantennale arco di tempo coincide con gli anni più importanti della mia formazione a Palermo (città che avrei lasciato, in età già assai adulta, nel giugno 2000, tornandovi spesso, ma sempre meno di frequente): il tempo della giovinezza, con i suoi amori e disamori, e dell’impegno nel sociale che ha accomunato molti della mia generazione, in politica, nel giornalismo, nel volontariato. Una generazione che come altre che l’hanno immediatamente preceduta può forse dire di averci provato, ma sicuramente ha perso.
Prima che il ricordo sia invaso dal rimpianto e dall’oblio, voglio fermare alcune di queste immagini e storie della mia amata-odiata città, inseguendole tra flashback e flashforward. Ho già cominciato. Ora continuo, ma dalla fine.
NEL CORSO DEL TEMPO. L’ULTIMO ATTO
Viale letizia battaglia, fotoreporter. Venerdì 10 giugno 2022 girava sui social la foto in cui il sindaco di Palermo Leoluca Orlando intitolava a Letizia (morta meno di due mesi prima, il 13 aprile) uno dei viali centrali dei Cantieri Culturali alla Zisa. Un luogo di archeologia industriale poi divenuto tra i più importanti della cultura a Palermo. Nella seconda metà degli anni Novanta aveva accolto alcune memorabili edizioni del Festival Internazionale “Sul Novecento” diretto da Roberto Andò e dal 2017 ospita anche il Centro Internazionale di Fotografia, quel progetto-sogno ostinatamente perseguito da Letizia in lunghi anni di lotte, soprattutto burocratiche.
Confesso che, come prima reazione (forse un riflesso della mia natura palermitana, quell’essere, incurabilmente, ‘nemici della contentezza’), pur lodando dentro di me la decisione tempestiva dell’amministrazione comunale, la dizione ‘fotoreporter’ mi era sembrata riduttiva rispetto al livello artistico e poetico della sua fotografia. Era peraltro innegabile che come fotoreporter Letizia aveva iniziato la sua avventura professionale, nel 1970, per quel giornale particolare, e politicamente scomodo, che per quasi un intero secolo è stato L’Ora di Palermo, fondato nell’aprile del 1900, ma che avrebbe fermato per sempre le rotative l’8 maggio del 1992 (per un beffardo paradosso appena due settimane prima della strage di Capaci).6
Ad alcuni mesi dalla sua morte, selezionando e rimontando a posteriori ricordi pubblici e privati della mia vita a Palermo e poi lontano dalla città, mi appare chiaro che la figura di Letizia è una presenza ricorrente e fondamentale, un ‘filo rosso’. Lo stesso, sul piano della vita pubblica, si può dire per quella dell’ex sindaco Orlando (non a caso era ben noto il loro antico e profondo vincolo di stima e amicizia7. Penso a loro due come persone reali, in carne e ossa, e al tempo stesso come “personaggi”, simboli di una antica esigenza di riscatto – politico, culturale, artistico, aspetti indissolubili – della città. Ma se la Sicilia – e Palermo che ne è capoluogo – erano e sono ancora, sciascianamente, metafora, quel tentativo di riscatto, e i suoi esiti, riguardavano tutto il nostro paese. Un paese che oggi appare, come la Sicilia tutta, “irredimibile”.
In ogni caso, quel venerdì di giugno, per la politica della città non era un giorno come un altro: era, di fatto, l’ultimo giorno della sindacatura Orlando. Una serie storica che, pur con un grande salto temporale tra il dicembre del 2000 e il maggio del 2012, era iniziata tantissimi anni prima, nel maggio del 1985, quando, non ancora quarantenne, divenne sindaco per la prima volta (e per la prima volta Palermo aveva come sindaco un uomo veramente di grande cultura, e non solo di questioni di diritto, e che parlava diverse lingue), in quella che fu chiamata la ‘primavera’ (politica, ma non solo) di Palermo.
ESTATI DI FUOCO
La mafia uccide solo d’estate diceva, nel titolo del suo fortunato esordio cinematografico, il regista palermitano Pif, Pierfrancesco Diliberto. “Soprattutto” d’estate sarebbe più corretto dire, senza contare che a Palermo l’estate di solito dura sei mesi, da aprile a fine settembre. La catena di sangue di cui ho precisa memoria era cominciata davvero in piena estate, nel mattino già luminoso del 21 luglio del 1979: un sicario di nome Leoluca (ma di cognome faceva Bagarella) sparò sette colpi – alle spalle, la mafia uccide spesso vigliaccamente – al capo della squadra mobile Boris Giuliano, togliendogli, insieme alla vita, il sapore del primo caffè appena gustato nel bar sotto casa, nella Palermo borghese vicino al viale della Libertà. Ero entrato da poco nei miei vent’anni, e di mafia non mi interessavo, piuttosto mi interessavano i temi dei diritti umani violati nel mondo, ad esempio nell’Argentina dei mondiali di calcio svoltisi l’anno prima (in quell’anno, il 1978, avevo dato vita con altri amici e conoscenti di diverse età ed estrazione sociale al primo gruppo di Amnesty International Italia in città, uno dei primi al sud).
Da lì a poco sarebbe iniziata la lunga stagione dei delitti ‘eccellenti’, all’interno della grande “mattanza” scatenata dalla “seconda guerra di mafia” che causò in pochi anni oltre mille morti8 . L’estate del 1979 finisce il 25 settembre con l’omicidio del giudice Cesare Terranova e del suo autista Lenin Mancuso. Al ritmo crepitante dei kalashnikov (mica lupare) nei mesi successivi cadranno, tra tantissimi altri senza nome, il presidente della regione Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il procuratore capo Gaetano Costa. Ed eccoci così già alla vigilia di un’altra lunga estate, quella del 1982. È l’estate degli inaspettati trionfi italiani ai mondiali di calcio di Spagna e forse la gioia di un popolo di tifosi ci avrebbe distratto dai massacri che quotidianamente accadevano per le strade (come quattro anni prima, le urla dei commentatori nelle radiocronache dei mondiali di calcio in Argentina avrebbero coperto, secondo molte testimonianze, le urla delle torture ai danni dei prigionieri politici9.
Il 1982 è per me un anno pieno di ricordi, privati e pubblici, bellissimi o terribili, tutti comunque indelebili. Tra i primi, la fine della mia prima vera storia d’amore, con F., ragazza assai cinefila che aveva incoraggiato la mia passione per il cinema, cosa di cui continuo dentro me a ringraziarla (di lei conservo ancora, con dedica, un regalo bellissimo, lo straordinario saggio di Adelio Ferrero sul cinema di Pasolini); poi la mia elezione nel consiglio nazionale della Sezione Italiana di Amnesty International (all’Assemblea generale di Assisi ero stato il più votato dai delegati, forse perché il candidato più giovane e ‘periferico’). Tra quelli pubblici, un primo maggio di rabbia, per le strade un’enorme massa di studenti, lavoratori, gente comune – e adesso ero anche io tra loro, perché quella mattanza mi aveva spinto a interrogarmi sulle cose tremende che accadevano in città. Il corteo, diviso in diversi tronconi, ufficiali e non (si calcoleranno oltre 100.000 persone), attraversa il centro, tra urla e proteste per l’omicidio, avvenuto il giorno prima, venerdì 30 aprile, vicino alla sede regionale del PCI, del suo segretario Pio La Torre e dell’autista e amico di vecchia data Rosario Di Salvo (in quello stesso giorno, si sarebbe insediato come nuovo prefetto di Palermo il generale Dalla Chiesa). Un corteo dove si mescolavano slogan contro la mafia, lo Stato, la NATO: neanche un mese prima si era svolta a Comiso la grande marcia del movimento pacifista contro l’installazione di più di cento missili Cruise, movimento del quale La Torre era una delle figure di riferimento10.
FOTOGRAFARE LA MORTE COME L’AMORE
Anche questa volta, per gli omicidi La Torre e Di Salvo, Letizia (con Franco Zecchin, a bordo di uno scooter) è là, ‘sul pezzo’, forse pensando, alle 9:30 del mattino, ai tempi stretti di un giornale che doveva “chiudere” a mezzogiorno per essere distribuito a partire dalle 14:00 come era L’Ora. La galleria di immagini di quegli anni di piombo della città – già disseminata di lapidi a ricordo delle sue vittime (giudici, carabinieri, poliziotti, ma anche medici legali) – è ormai un ponderoso catalogo, composto in massima parte dalla insostituibile testimonianza artistica e civile delle sue fotografie. Ma le foto di morte di Letizia, nel loro impatto ravvicinato con una violenza spesso efferata (termine abusato, ma in questo caso l’etimo è appropriato), recano spesso il segno di quella violenza, della lotta, dell’estrema convulsione dei corpi (il cadavere di La Torre, sfigurato da 30 colpi di mitraglia, era scompostamente con una gamba oltre la portiera dell’auto, come in un ultimo disperato tentativo di fuga). Altre volte, all’opposto, è come se Letizia volesse fotografare la resa, l’abbandono dei corpi, il momento dopo. Quei corpi senza vita hanno assunto, finalmente, una postura distesa, prona o supina che sia, sul selciato bagnato dal loro sangue, reso astratto ma non meno spaventoso dal bianco e nero. Come in una foto assai famosa del 1975, nota come Omicidio targato Palermo, l’ucciso, sdraiato a terra, ha il capo appoggiato al muro, con gli occhi chiusi, sembra dormire placidamente all’ombra del cofano posteriore di un’auto. E lo stesso è per il giudice Terranova, seduto in auto con il capo reclinato, sebbene tutto ricoperto di sangue.
Di fronte ad alcune di queste foto mi ero trovato a volte a immaginare che Letizia, sulla scena di alcuni delitti, avesse voluto ‘ri-comporre’ i cadaveri, in un gesto di umana pietas rivolto soprattutto a quei familiari che spesso si disperano in secondo piano o ai margini dell’inquadratura, ma anche ai sopravvissuti, testimoni più o meno inconsapevoli. Di questa mia, forse equivocabile, suggestione non ho mai parlato con lei, ma è come se ne avessi trovato conferma in una recente intervista dove il regista e suo amico di vecchia data Roberto Andò dice che «Letizia ha fotografato la morte come l’amore11. O anche leggendo, all’indomani della sua morte, le riflessioni di Silvia Mazzucchelli proprio rispetto alla foto dell’omicidio Terranova: «Il capo del giudice è leggermente reclinato, rivolto verso il basso come stesse dormendo, gli abiti sono sporchi di sangue. Lo sguardo della fotografa si posa su quel corpo come volesse avvolgerlo e sfiorarlo per l’ultima volta. Il corpo di Terranova sembra fragile e indifeso come quello di un bambino. La pietas della fotografa lo ha trasfigurato». Del resto, nel giorno del corteo funebre per La Torre e Di Salvo l’occhio di Letizia coglie la figura arcaica di una donna anziana inginocchiata, al centro dell’inquadratura con le mani giunte al petto, mentre un passante, attraversa con indifferenza il quadro, verso sinistra, ne è già quasi fuori. È una delle sue tante foto memorabili e senza tempo, – che mette a fuoco una persona isolandola dal quadro generale – al punto da venir interpretate anche al di fuori del loro preciso contesto storico, pure imprescindibile.
‘COLPITO AL CUORE’: OVVERO, ‘LO STATO DELLE COSE’
Quell’estate del 1982 non sarebbe più finita. È ancora un venerdì, il 3 settembre, come quell’ultimo giorno di aprile in cui avevano ucciso Pio La Torre, ma è una sera di gran scirocco. Ancora distratta dalle vacanze e dalla calura, la città assiste, muta e sgomenta, all’omicidio ‘annunciato’ del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (e della sua giovane consorte). Un agguato ben studiato e spettacolare. Sono da poco passate le 21, l’ora pigra, spossata dal caldo di tutta la giornata, della cena, o del dopo cena. La strada tutta dritta che dal centro storico, diventando via via più moderna, porta in direzione del parco della Favorita e infine del mare di Mondello (dove Dalla Chiesa e la giovane moglie volevano andare a cenare) è già deserta.
Ma questo e tanti altri particolari li avrei letti dopo, perché quel giorno non ero a Palermo: proprio quella mattina, di buon’ora, ero partito in aereo e per la prima volta in vita mia ero sbarcato alla Mostra del Cinema di Venezia. C’era ancora la mitica arena Perla, giusto dietro il Casinò, e con il mio biglietto per il quale avevo fatto alcune ore di coda pomeridiana vidi in sequenza due film: Lo stato delle cose di Wim Wenders, che avrebbe poi vinto il Leone d’oro, e Colpire al cuore, esordio nel lungometraggio di Gianni Amelio. Sul vaporetto che, ormai quasi notte, mi riportava dal Lido alla pensioncina sulla terraferma, ero ancora immerso nelle immagini, assai diverse e contrastanti al pari delle storie che raccontavano, dal ‘cinema nel cinema‘ in soffuso bianco e nero di Wenders ai colori saturi del film di Amelio. Un film, quest’ultimo, che parlava di un’altra Italia violenta, quella del terrorismo politico, a me però sostanzialmente sconosciuta. A un tratto mi giunsero, ma come protetti da una bolla di incredulità che avevo istintivamente attivato, frammenti di dialogo sussurrati a mezza bocca da altri passeggeri e che alludevano a quel tragico fatto avvenuto poche ore prima nella mia città. Erano parole ovattate, smozzicate, trascinate dal vento umido della laguna, ma che parlavano inequivocabilmente di morte, di mafia, di Palermo. Non posso spiegare più di così con le parole quelle emozioni e sensazioni che non avrei dimenticato mai: come essere strappato da un bel sogno, di gioventù, appena iniziato – Venezia, il cinema, la vacanza, l’avventura – e riportato bruscamente indietro, a quel mondo laggiù, di caldo e violenza che avevo lasciato solo poche ore prima, ma che mi sembrava già così lontano.
MAL DI LUNA
Proprio in quell’estate, poche settimane prima dell’agguato a Dalla Chiesa, Letizia sta girando un mediometraggio, Festa d’agosto, nel famigerato ospedale psichiatrico di via Pindemonte (già “Real Casa dei Matti” fondata nel 1824) dove svolgeva da tempo attività di volontariato. Era attratta da quella realtà, specialmente dopo un percorso intrapreso per alcuni anni con lo psicoanalista Francesco Corrao12 che le aveva dato la forza per separarsi dal marito e lasciare Palermo per Milano. Insieme a Franco Zecchin partecipa per due anni di fila a un laboratorio di animazione teatrale con gli internati promosso dal Teatès, la scuola di teatro fondata e diretta dal drammaturgo e regista Michele Perriera agli inizi del 1979 e operante sino alla sua morte, nel 2010 (Perriera fu maestro e guida di diverse generazioni di teatranti e intellettuali palermitani13. Sia lei che Zecchin avevano frequentato il Teatès tra il 1979 e il 1981 dove si erano anche diplomati14, senza però pensare mai di rinunciare al loro lavoro foto-giornalistico.
Dall’esperienza del laboratorio teatrale allo psichiatrico scaturirono due video – Festa d’agosto, appunto, e Vatinni (Vattene). La regia di quest’ultimo è del videomaker Giuseppe Zimmardi, tra i protagonisti in città, sin dalla metà degli anni ’70, di una vivace stagione creativa e produttiva, rigorosamente low-budget. I video ebbero una circolazione sempre assai limitata e furono proiettati per la prima volta in un ambito pubblico espositivo solo moltissimi anni dopo in occasione della mostra al MAXXI di Roma Per pura passione inaugurata nel novembre 201615. In quella stessa occasione, fu esposta, per la prima volta in versione integrale, la serie delle fotografie di Letizia scattate dentro l’ospedale tra il 1985 e il 198916.
Ho visto Festa d’agosto molti anni dopo e solo in tempi ancora più recenti, ho avuto l’occasione di scriverne alcune note17. Mi aveva colpito, tra l’altro, il rapporto fisico, carnale, che la videocamera di Letizia aveva instaurato con i reclusi di via Pindemonte, uomini e donne, ma soprattutto con le donne. Nel video, Letizia fa uso sia di piani molto ravvicinati o dello zoom, quasi a rimarcare grotteschi stilemi espressionisti18, ma anche dei primi piani tipici della sua poetica, che cercano, anzi trovano, con comprensione e amore, l’anima delle persone dietro e dentro gli sguardi, anche i più disperati.
Realtà e finzione, “normalità” e “follia” si scambiano le parti di continuo nel video, come del resto accade spesso a Palermo (Letizia e il Teatès portano in scena all’ospedale anche un gruppo punk-rock locale e gli internati esclameranno: «ma questi sono matti!…»19). Una giovane donna reclusa, dagli occhi enormi e profondi, di nome Graziella (che Letizia provò invano anche a sottrarre all’internamento, ospitandola a casa sua per un certo periodo, come avrebbe di recente raccontato) porgeva in primo piano a Letizia e a Palermo un fiore luminoso (pur nel suo bianco e nero) ma che la città non poteva nemmeno raccogliere20. Palermo era paralizzata dal terrore, in balìa della follia, questa sì, omicida agita dai ‘corleonesi’ di Riina che avrebbe continuato a imperversare a lungo, sino alle stragi apocalittiche del 1992. Una follia che faceva sembrare innocua e romantica la vena ‘lunatica’ che attraversa da sempre Palermo (come la Sicilia tutta, Pirandello ce lo aveva spiegato da par suo).
PAGINE BATTAGLIERE (DIALOGHI CON LETIZIA)
La prima, ancora esile, versione di quel Repertorio dei pazzi della città di Palermo – galleria di personaggi bizzarri, strambi, eccentrici, o decisamente patologici, abitanti della città – che lo scrittore palermitano Roberto Alajmo avrebbe via via ampliato per editori diversi, tutti importanti – era stata pubblicata, nel 1994, dalle Edizioni della battaglia, piccola e autofinanziata casa editrice cui Letizia aveva deciso coraggiosamente di dar vita subito dopo la strage di Capaci del maggio 1992. Il primo volume, di piccole dimensioni, della prima collana, “Quadernetti” (stampato nel mese di luglio, in terribile sincronia con la strage di via D’Amelio), sarebbe stato Oltre il disgusto di Michele Perriera, una riflessione, intima e pubblica al tempo stesso, su quello spaventoso e inconcepibile evento21. Pur tra mille difficoltà, economiche e non solo22 la casa editrice continuò a pubblicare sino al 2006 (oltre 150 i titoli complessivi). Lotta alla mafia, diritti civili e sociali, lotte dei sud del mondo, linguaggi artistici (con la fotografia presente più che altro nella cura della parte visiva e iconografica dei libri), tra saggistica (prevalente) e narrativa, erano i percorsi più in evidenza, con autori, anche di richiamo nazionale, e alcune voci dall’estero. È difficile peraltro trovare oggi notizie in rete di questa ‘impresa’ editoriale, ma per fortuna proprio la recente mostra, già citata, al MAXXI di Roma, aveva ricordato una parte importante dell’attività di operatrice culturale di Letizia, allestendo una intera sala con un significativo campione dei titoli pubblicati, oltre a materiali inediti e una documentazione sulle pagine storiche del quotidiano L’Ora.
Avrei conosciuto di persona Letizia solo qualche anno dopo quel tragico 1982, credo a una conferenza sui diritti umani organizzata da Amnesty alla metà degli Ottanta. Il ricordo è un po’ confuso, nitida è solo la passione veemente, e anche provocatoria, del suo intervento, a proposito dei diritti violati delle donne nel mondo.
Ma sarebbe stato il cinema, alcuni anni dopo, a rendere i miei incontri con lei più frequenti, soprattutto dopo la nascita della casa editrice. Il cinema (e anche il teatro, suo primo amore) faceva spesso capolino tra le diverse collane23. Oltre che dei film in sala (Letizia non aveva molto tempo per andare al cinema, cosa che pure amava moltissimo), parlavamo di libri e argomenti specialistici che le avevano proposto e a volte mi sottoponeva a veloci interrogatori su autori e tendenze del cinema contemporaneo.
Sempre molto curiosa e attenta, Letizia teneva le antenne dritte su fenomeni ed eventi che riguardavano l’arte e la cultura nel mondo, sfruttando la sua rete di contatti e relazioni per creare e diversificare l’offerta editoriale. D’altra parte, aveva anche delle figure di riferimento, una di queste era sicuramente Goffredo Fofi24, con le quali si confrontava regolarmente. L’esperimento un po’ ‘dadaista’, assolutamente fuori da ogni logica di mercato (con il ‘magazzino’ libri che ingombrava casa sua), diventerà, pur nel suo piccolo, un terminale di richieste e suggerimenti per autori e idee, tendenzialmente controcorrente, da pubblicare. Quanto al cinema, come aveva già fatto nel campo fotografico, e per giovani autori di narrativa, Letizia avrebbe dato spazio e incoraggiato giovani critici a riscoprire autori o a inquadrare scuole e fenomeni particolari come il ‘nuovo cinema napoletano’ o il “nuovo cinema siciliano” degli anni ’80-‘9025. Nel 1998, in collaborazione con la cooperativa La luna nel pozzo di Bologna, inaugurerà poi una collana dedicata al cinema, “L’Atalante”, che avrebbe peraltro pubblicato solo pochi titoli su specifiche cinematografie e su autori importanti come Kiarostami e Lars von Trier26 .
PALERMO, SI GIRA!
Ricordo bene l’emozione di una mattina di inizio marzo del 1990, una giornata nuvolosa, la primavera sembrava ancora lontana. Ero appena sceso alla fermata di Piazza Massimo, giusto davanti al teatro, dall’autobus 101 con cui mi recavo ogni giorno al mio lavoro dipendente. La piazza, come per magia, era invasa da tanti caravan tutti uguali, con la scritta ben in evidenza sul parabrezza: “Zoetrope Studios”. Curiosando un po’, vidi davanti a uno di questi, una targa ancora più vistosa: ‘Francis Ford Coppola’…!
Erano passati sedici anni dal Padrino parte II, e anche il teatro Massimo era chiuso da sedici anni, ma avrebbe riaperto, anche se per poco, per quell’imperdibile occasione: le sequenze finali del Padrino parte III, che per parecchi giorni avrebbero coinvolto tutta la città, anche per il numero spropositato di comparse arruolate27. Palermo, del resto, a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta, era diventata, oltre che teatro di guerra tra le famiglie mafiose, un rutilante set cinematografico.
In effetti, un primo trait d’union più forte con Letizia era stato, alla fine degli anni Ottanta, il lavoro di Aurelio Grimaldi, insegnante e scrittore, allora non ancora regista, che Letizia seguiva con interesse per le testimonianze – pubblicate dalla rivista culturale Segno28 di cui allora ero redattore – del suo lavoro di educatore nel carcere minorile di via Malaspina a Palermo29 , materiali che avrebbe poi trasposto nel racconto lungo Meri per sempre30.
Il produttore Claudio Bonivento ne acquistò subito i diritti affidando il film alla regia di Marco Risi. Nel maggio del 1989 Mery per sempre (la Meri del titolo era diventata Mery) è già un film fatto. Al festival di Cannes, dove mi trovavo per la prima volta, riesco a vedere, in una sala cittadina, fuori del programma ufficiale, la proiezione per il mercato del film di Risi, imbucandomi poi alla festa all’Hotel Carlton in onore del film (e anche di Saalam Bombay dell’indiana Mira Nair che l’anno precedente aveva vinto la “Camera d’or” per la migliore opera prima). Se da Bombay (figurarsi) la Nair non aveva portato con sé nessun ‘ragazzo di strada’, a far compagnia a Marco Risi c’era una folta delegazione dei giovani protagonisti palermitani del film, decisamente ripuliti e ben vestiti per l’occasione, ma visibilmente spaesati e a disagio.31 Ancora Marco Risi girerà l’anno dopo una sorta di sequel, Ragazzi Fuori (1990). Purtroppo, nonostante una sceneggiatura (firmata in questo caso anche da Grimaldi) che restituisce accenti di verità alle vicende narrate, l’operazione produttiva tradisce la volontà di sfruttare una sorta di nuovo ‘filone’ palermitano.
UOMINI DA MARCIAPIEDE
Mentre le periferie di Palermo e le facce dei suoi giovani attori non professionisti irrompono sullo schermo, sempre a partire dalla fine degli anni Ottanta registi nati e cresciuti in Sicilia, e in particolare a Palermo e dintorni, esordiranno dietro la macchina da presa per gettare uno sguardo diverso sulla propria terra sino ad allora esplorata da registi quasi esclusivamente ‘continentali’. Ricordo qua autori come Salvo Cuccia, Pasquale Scimeca, o lo stesso Grimaldi (che si era trasferito da Ragusa a Palermo), o come Roberto Andò che peraltro aveva già al suo attivo esperienze internazionali prima come assistente di Francesco Rosi e Michael Cimino e poi come documentarista e regista di teatro. E se da una parte Peppuccio Tornatore (da Bagheria) trionfava a Cannes (e pochi mesi dopo agli Oscar) con Nuovo Cinema Paradiso (peraltro tagliato pesantemente per i mercati italiani ed esteri), su una sponda opposta, autarchica e fieramente indipendente, emergono sguardi molto più radicali, che rifiutano ogni compromesso (creativo, produttivo, distributivo) ma anche ogni cedimento al pittoresco o alla nostalgia.
Letizia segue con interesse questi fermenti e in particolare il lavoro di Franco Maresco e Daniele Ciprì, che imporranno una nuova visione, sicuramente urticante e provocatoria, della città trasfigurandone i paesaggi periferici, tra macerie, abbandono, solitudini, in altrettanti scenari simbolici, e potenzialmente universali, grazie anche all’uso di uno straniante bianco e nero32. Dopo numerosi cortometraggi, e prima di approdare, a metà degli anni Novanta al lungometraggio, i due inventeranno un geniale contenitore narrativo, la Cinico Tv, rimasto per molto tempo un loro marchio di fabbrica, trasmesso come striscia quotidiana da Rai 3, a partire dall’aprile 1992, ma in realtà in onda su un’emittente locale già dal 1989 33.
Nel loro universo rigorosamente maschile (che non ammetteva alcuna presenza femminile, nemmeno en travesti) le persone reali che i due registi individuavano, esplorando le strade di Palermo del centro come delle periferie – uomini soli, tristi, depressi, o in preda a tic o a istinti compulsivi – venivano trasformate in personaggi di una tragicommedia antica e contemporanea. Attraverso di loro, Ciprì e Maresco coglievano un dato profondo della psicologia collettiva della città, quel misto di disillusione, spaesamento, accidia, pessimismo: sentimenti storici e cosmici a un tempo. Forse Ciprì e Maresco erano solo più realisti nel considerare già Palermo, ancora prima delle stragi del ’92, una città “all’indomani dell’Apocalisse34, irreversibilmente trasformata e sconfitta (una visione che Maresco condivideva con il drammaturgo Franco Scaldati, uno dei maggiori ispiratori della sua poetica35).
REOPENING PALERMO
Eppure, nonostante i lutti, e anche dopo i terribili fatti del ’92, nell’umano testacoda tra la presenza incombente della violenza e della morte e la voglia di ritornare a vivere, la città torna a sperimentare momenti di apertura e luoghi di nuova aggregazione. Il recupero di piazze e mercati del centro storico e l’apertura di locali e caffè-concerto fanno da preludio alle attesissime riaperture di alcuni luoghi simbolo della città. Il 25 luglio 1995 – dopo un lavoro di recupero e restauro lungo 10 anni che aveva convogliato enormi energie anche dell’associazionismo e del volontariato locali – riapre, nell’antichissimo quartiere della Kalsa, la Chiesa dello Spasimo: sarà un’altra serata di indimenticabili emozioni con l’esecuzione in prima assoluta della partitura Spasimo di Giovanni Sollima. L’anno seguente, sempre alla Kalsa, rinasce il Teatro Garibaldi, gioiello architettonico ottocentesco (inaugurato da Garibaldi nel 1861) lasciato per decenni in abbandono, che ora ospita spettacoli di teatro d’avanguardia, sotto la direzione di Matteo Bavera36. Nel maggio del 1997 sarà finalmente la volta del Teatro Massimo (chiuso dal 1974). Intanto ai Cantieri culturale alla Zisa (le ex-manifatture Ducrot) per il festival “sul Novecento” (diretto da Roberto Andò, che proseguiva le esperienze condotte come curatore delle Orestiadi di Gibellina) arrivano i più grandi artisti della scena teatrale e musicale mondiale (impossibile qua nominarli tutti).
Tornato sindaco nel novembre 1993 (con le prime elezioni dirette e un plebiscito di oltre il 75% dei voti) Orlando e con lui l’assessore alla cultura Francesco Giambrone, possono ora realizzare con coerenza i loro progetti. Ma non lavorano in un deserto, trovano piuttosto un fertile humus, grazie ai cambiamenti politici già avviati nella “primavera” e alla semina copiosa di iniziative artistiche e culturali degli anni (e decenni) precedenti.37 Per rimanere nel campo dell’editoria e della fotografia, oltre al ruolo e all’eredità sempre viva, artistica e imprenditoriale, di Enzo e Elvira Sellerio, credo avessero contribuito anche le attività lanciate da Letizia, insieme a Franco Zecchin e altri giovani fotografi e videomaker, sin dalla seconda metà degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta: dal Laboratorio d’If, galleria espositiva e libreria fotografica, che ospiterà tra gli altri le immagini di Luigi Ghirri, Will McBride e dei fotografi della Magnum (riaperto nel 1985 dalla figlia Shobha, anche lei divenuta nel frattempo una fotografa affermata a livello internazionale), a una innovativa rivista di grande formato, GrandeVù.
La rivista metteva a fuoco principalmente le questioni ambientaliste (dunque anche politiche, basti pensare al tema delle infiltrazioni criminali), del territorio siciliano e italiano, ma anche della pace e dei diritti in Italia e nel mondo. Era evidente la volontà di innovazione, anche grazie all’uso dello humour, nella grafica e nella cura delle immagini: della stessa Letizia, di Shobha, ma anche di autori internazionali o di tanti giovani fotografi siciliani che trovavano una possibilità di far conoscere il proprio lavoro. Nel 1991, prima di lanciare l’avventura della sua casa editrice, insieme a Simona Mafai, Rosanna Pirajno e altre intellettuali e operatrici culturali cittadine avrebbe poi dato vita alla rivista “Mezzocielo” (tuttora ben attiva sul web ).
UNA MILANESE IN CITTÀ
Nella ‘nuova onda’ cinematografica cittadina spicca anche una palermitana ‘d’adozione’ come la milanese Roberta Torre che arriva a Palermo nel 1990 (lascerà la città all’inizio degli anni 2000) dopo aver studiato alla scuola Paolo Grassi e alla Civica Scuola di Cinema di Milano. La regista assimila in maniera straordinaria (anche grazie alla vicinanza privata e artistica con Franco Maresco, ma potendo mantenere uno sguardo culturalmente assai più distaccato) gli umori, antichi e nuovi, della città e ne indaga, senza remore, le contraddizioni, anche quelle legate a questo suo impetuoso ma pur sempre precario “rinascimento”. Dopo una lunga gavetta di cortometraggi e documentari, molto innovativi sul piano narrativo e stilistico (che mescolano finzione e storie vere) con Angelesse (1994) la Torre entra nelle case dei vicoli più poveri e, grazie a una naturale complicità femminile, riesce a mette a nudo storie e antichi retaggi di violenza ai danni delle donne. Colpita in particolare da questo corto, Letizia sosterrà fortemente il lavoro della Torre (nel frattempo ben noto e apprezzato da festival e rassegne). Nel 1997 arriva il suo folgorante esordio nel lungometraggio con Tano da morire38, geniale sberleffo alla cultura machista della mafia, che vincerà il premio per l’opera prima a Venezia e diversi altri premi importanti. Nell’estate del 1999 la Torre realizza Sud Side Story (2000), un altro musical girato tra i vicoli più nascosti di Palermo, che anticipava conflitti e contraddizioni della multietnicità, svelando, tra le pieghe della finzione, una città assai più intollerante, e persino razzista, di quanto volesse ammettere. Ancora una volta, alle soglie di un nuovo secolo e millennio, Palermo – città “cipolla” dai tanti strati secondo Roberto Alajmo39 – si conferma metafora e laboratorio sociale dell’Italia.
(continua)
NOTE
[1] Sul suo sito , in occasione del trentennale dello spettacolo, la Fondazione Pina Bausch ha pubblicato un filmato di montaggio di brani rimasterizzati dalle registrazioni di diverse edizioni dello spettacolo, oltre ai crediti completi e a preziosi materiali informativi.
[2] Nel novembre 2019, sempre in occasione del trentennale dello spettacolo, il Teatro Biondo di Palermo e il Tanztheater di Wuppertal, oltre a ricordare l’evento con delle manifestazioni collaterali, avevano annunciato il progetto, probabilmente poi bloccato dalla pandemia, di un nuovo spettacolo dal titolo palermoWpalermo.
[3] Di recente a Emilia Jacobacci, ottobre 2019; o anche alla nipote Marta Sollima, 14/6/2019.
[4] Non molto tempo fa ho ritrovato tra i ritagli non dispersi dal tempo e dai traslochi la bellissima recensione su la Repubblica della grande critica di danza e studiosa italiana della Bausch.
[5] Il romanzo della Palermo dei fermenti sociali e culturali tra il dopoguerra e gli anni Ottanta è invece sicuramente Swinging Palermo di Piero Violante, Sellerio, 2015.
[6] Una storia ormai ben nota a molti è quella professionale di Letizia: l’inizio fortuito della collaborazione con il giornale diretto da un grande giornalista come Vittorio Nisticò, il periodo milanese, il sodalizio con il fotografo e compagno di allora Santi Caleca, il rientro nel 1974 a Palermo e al giornale di cui sarà per diciotto anni, sino alla chiusura, responsabile dei servizi fotografici, “maestra”, anche inconsapevole, di tanti fotografi e fotoreporter, uomini e donne: Quelli de ‘L’Ora’, come recita il titolo di una mostra organizzata nel 2019 dal suo Centro Internazionale di Fotografia.
[7] Nei miei anni palermitani, ho avuto poche ma per me sempre significative occasioni di incontro con Leoluca Orlando, in relazione alle mie attività per Amnesty International o nel campo della critica cinematografica. Ho avuto però la fortuna di lavorare con uno dei suoi fratelli, Antonio, scomparso prematuramente nel 2019, persona di rara intelligenza e tratto umano, con cui avevo lavorato, e soprattutto imparato, al Centro di Formazione del Banco di Sicilia da lui diretto per diversi anni.
[8] Una minuziosa ricostruzione è quella di Antonio Calabrò, a suo tempo capo redattore del quotidiano L’Ora, in I mille morti di Palermo. Uomini, denaro e vittime nella guerra di mafia che ha cambiato l’Italia, Mondadori, 2016.
[9] Lo ricorda anche, con la forza visiva e sonora del cinema, il film di Marco Bechis Garage Olimpo (1999). Si rimanda al riguardo anche alla recensione di Giuseppe Varchetta pubblicata su questa rivista del suo romanzo di testimonianza autobiografica e politica, La solitudine del sovversivo, Guanda, 2021.
[10] La sua uccisione resta legata all’incrocio di tanti interessi, interni, siciliani e nazionali, e internazionali. Su quella stagione culminata, dieci anni dopo, con le stragi di Capaci e via D’Amelio un libro imprescindibile è Uomini soli. Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, di Attilio Bolzoni, Melampo, 2012.
[11] Su Letizia Battaglia Roberto Andò ha diretto la miniserie tv in due puntate Solo per passione andata in onda su Rai 1, in prima serata, il 22 e 23 maggio, a poco più di un mese dalla morte di Letizia e nel trentennale della stragi di Capaci (vedi oltre).
[12] Corrao aveva dato grande impulso al sapere e alla pratica psicoanalitici a Palermo, di cui era originario, attraverso la costituzione in città di una seconda sede del Centro Ricerche Psicoanalitiche di Gruppo e organizzando una serie di Colloqui di livello internazionale. Era stato allievo di Alessandra Wolff Tomasi di Stomersee (Licy, la moglie di Giovanni Tomasi di Lampedusa), a suo tempo pioniera e fondatrice della scuola psicoanalitica siciliana che sarebbe morta, nel palazzo nobiliare di via Butera a Palermo – proprio nel giugno di quel 1982 – all’età di 86 anni.
[13] Segnalo sulla figura di Michele Perriera il numero speciale monografico (n. 329, ottobre-dicembre 2011) della rivista mensile Segno, che, dopo la sua morte, accoglie i contributi di tanti studiosi, intellettuali e di suoi allievi storici.
[14] In realtà Letizia aveva già recitato agli inizi degli anni Settanta in Morte per vanto, uno dei primi lavori di Perriera.
[15] Letizia Battaglia. Per pura passione (MAXXI, Roma 24/11/2016-17/04/2017), a cura di Paolo Falcone, Margherita Guccione, Bartolomeo Pietromarchi, catalogo DRAGO Publishing, 2016.
[16] Nonostante la legge Basaglia del 1978, la struttura ospitò lungodegenti sino al 2001.
[17] Sergio Di Giorgi, “Vibrate, immagini, vibrate!” in Giovanna Calvenzi (a cura di), Letizia Battaglia. Sulle ferite dei suoi sogni, Bruno Mondadori, 2010.
[18] Una cifra assai adatta, del resto, all’attore molto fisico e versatile che nel video interpreta il suo alter ego, vestendo i molteplici ruoli di regista, drammaturgo, fotografo, narratore della ‘festa’: Massimo Verdastro, allora assai giovane colonna del Tèates, ma destinato a lavorare con grandissimi registi di teatro italiani e stranieri, da Eugenio Barba a Testori e a Ronconi.
[19] Lo racconta Letizia nel libro intervista di Sabrina Pisu Mi prendo il mondo ovunque sia. Una vita da fotografa tra impegno civile e bellezza, Einaudi, 2020.
[20] Scrivevo nel testo sopra citato (Letizia Battaglia. Sulle ferite dei suoi sogni): «In via Pindemonte è in corso una festa, un po’ macabra e oscena, non si sa chi l’abbia davvero organizzata, la musica è ossessiva e il riso “straziato” (Pirandello ce lo aveva spiegato), ma nessuno, là fuori… riesce ancora ad ascoltare, a percepire, forse nemmeno a immaginare».
[21] Le ultime parole del testo di Perriera così recitavano: «Il disgusto è l’ultima risorsa attiva dell’intelligenza. Dopo, c’è il silenzio, o l’estrema solitaria innocenza dell’emigrazione o dell’eremitaggio».
[22] Tra queste le dure polemiche scaturite a seguito della decisione di Letizia di affidare la cura di una delle collane, oltre che un ruolo di coordinamento editoriale, all’ex brigatista (reo confesso dell’omicidio di Roberto Peci) Giovanni Senzani. Tempo prima, all’inizio di un processo di parziale dissociazione dal suo passato terroristico (sfociato nella semilibertà concessa nel 1999), Senzani le aveva scritto e lei era andata a incontrarlo in carcere. Da quel colloquio era nato un solido rapporto intellettuale.
[23] Ricordo in particolare un saggio di Goffredo Fofi su Cortile Cascino, il mitico documentario del 1962 di Robert M. Young e Michael Roemer su uno dei luoghi storicamente più degradati della città (al tempo del film ancora esistente), o la pubblicazione della sceneggiatura (e delle foto dal set) del film di Raul Ruiz sul suo film Viaggio clandestino – Vite di santi e di peccatori (1995), surreale allegoria girata a bassissimo budget e in poco tempo nella “Fiumara d’Arte” di Antonio Presti a Tusa (prodotto da questi e da Matteo Bavera del Teatro Garibaldi di Palermo). Avevo avuto la fortuna di assistere per alcuni giorni alle riprese e di conoscere il grande regista e intellettuale cileno (morto nel 2011) che avrebbe poi generosamente scritto la prefazione al mio saggio Fantasmi della libertà. Il cinema d’autore tra censura ed esilio, SEI, Torino, 1995.
[24] Solo nel 2021 Letizia e Goffredo Fofi avrebbero pubblicato per Contrasto Volare alto volare basso. Conversazioni ricordi invettive.
[25] Il critico e studioso Emiliano Morreale aveva pubblicato, giovanissimo, con la casa di Letizia Lampi sull’isola. Nuovo cinema siciliano (1988-1996), Edizioni della battaglia, 1996. Ricordo bene, quell’estate, una affollatissima presentazione del libro nell’atrio della Chiesa di Casa Professa (dove Borsellino aveva fatto l’ultimo suo discorso in pubblico poche settimane prima della strage di via D’Amelio) con la presenza mia e del già assai celebre critico Paolo Mereghetti nelle vesti di moderatori.
[26] Avevo avuto il piacere di inaugurare la collana con un libro sul nuovo cinema palestinese, scritto insieme a Joan Rundo, frutto più che altro di numerose nostre interviste a registi e registe palestinesi in occasione di festival e rassegne all’estero e in Italia: Una terra promessa dal cinema. Appunti sul nuovo cinema palestinese, 1998 (con una nota introduttiva del critico Roberto Silvestri).
[27] Anche io tra quelle: fare la comparsa era un modo, per chi come me scriveva spesso di cinema per quotidiani e riviste, di entrare nei set: più di tutte divertente e memorabile per me era stata l’esperienza di comparsa, protrattasi per diverse sere e notti, per Johnny Stecchino (1991) di Benigni, nei bellissimi giardini di Villa Malfitano-Whitaker dove si girava la lunga sequenza della festa alla presenza di un ministro e dei notabili locali.
[28] Nata alla metà degli anni Settanta dalle esperienze, anche nelle periferie di Palermo, delle “comunità cristiane di base” animate da Giovanni Don Franzoni (poi “dimesso dallo stato clericale” nel 1976 per il suo appoggio elettorale al PCI), la rivista mensile Segno, tutt’ora regolarmente pubblicata in versione cartacea e sin dall’inizio diretta dal sacerdote redentorista Nino Fasullo, aveva ospitato sin dal 1984 racconti e testimonianze di Aurelio Grimaldi.
[29] Si veda, ad esempio Fondazione promozione sociale.
[30] Pubblicato nel 1987 da La Luna, un’altra piccola casa editrice allora assai attiva a Palermo: Meri per sempre. L’amore, la donna, il sesso raccontato dai giovani detenuti del Malaspina di Palermo.
[31] Fu quella la mia prima recensione cinematografica (con annessa cronaca di colore) per L’Ora.
[32] Sulla poetica dei due autori, si veda, tra gli altri, Emiliano Morreale, Cipri e Maresco, Edizioni Falsopiano, 2003.
[33] La trasmissione, che aveva un largo seguito in città, si chiamava Interno notte (1989). Ideata dagli stessi Ciprì e Maresco e dal regista e attore di teatro Umberto Cantone era trasmessa dall’emittente palermitana TVM.
[34] Sergio Di Giorgi, “Palermo dopo l’apocalisse”, in Segno, n. 131, gennaio 1992; rimando anche ad alcune note del mio saggio “Così lontana, così vicina. Appunti all’incontrario sul set Palermo (1989-2008)”, in Idea di un’Isola. Viaggio nel cinema della e sulla Sicilia, a cura di Emiliano Morreale, Quaderni del CSCI, n.5, 2009.
[35] A Franco Scaldati, dopo la sua morte avvenuta nel 2013, Maresco, con Claudia Uzzo, avrebbe dedicato il bel documentario Gli uomini di questa città io non li conosco (2015) visibile su Raiplay.
[36] Tra cui ricordo la trilogia scespiriana di e con Carlo Cecchi Amleto, Misura per misura, Sogno di una notte di mezza estate, che avrebbe poi girato nei più importanti teatri d’Europa. Nell’ agosto del 1999 i tre allestimenti furono proposti di seguito in una indimenticabile “maratona”.
[37] In campo teatrale, accanto ai nomi di Perriera e Scaldati penso a realtà che avevo conosciuto più da vicino (anche lavorandovi da addetto stampa tra il 1992 e il 1995), come il Teatro Libero di Beno Mazzone, attivo come “Stabile di ricerca” dal 1973, e al suo festival internazionale Incontroazione.
[38] Letizia aveva pubblicato il soggetto del film con alcune note di regia e un testo critico di Goffredo Fofi.
[39] Roberto Alajmo, Palermo è una cipolla, Laterza, 2005 (prima edizione).