Invincibile Letizia
Immaginare Palermo (1982-2022)
2. In un altro millennio

Letizia Battaglia. Anthologia, ZAC (Zisa Arti Contemporanee), marzo 2016. Foto © Olimpia Cavriani

Il folclore è una tavola imbandita che serve a nascondere l’orrore. Dietro la tavola, fuori dagli occhi, avviene ciò che non si può dire… La mafia è il trionfo della menzogna, è il rovescio che diventa verso, il sotto che viene a galla, il basso che si fa alto, il delitto che si trasforma in
regola.
(Emma Dante, dalle note di regia di Cani di bancata, 2006)

Ma io, con il cuore cosciente
di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?
(Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, 1954)

DIMENTICARE PALERMO: MISSION IMPOSSIBLE

Apro una grande, pesante finestra al primo piano di un vecchio palazzo signorile. Appena sotto, una bellissima tettoia art noveaux: è l’entrata laterale degli artisti del Moulin Rouge. Sono a casa di Franco Zecchin, che è ormai un fotografo affermato anche a livello internazionale. Di passaggio a Parigi con P., la mia compagna di allora, Letizia aveva chiesto a Franco, che era in viaggio, se poteva sistemarci a casa sua una notte nella camera degli ospiti.
Siamo agli inizi di un nuovo secolo e millennio. Nel giugno del 2000 mi ero trasferito a Milano, ma la notizia è un’altra, e a molti, me compreso, sembrava tanto grave quanto inconcepibile: Letizia va via da Palermo. Al telefono, una volta, mi aveva raccontato della sua delusione e rabbia, gli stessi sentimenti che riversava in tante interviste di quel periodo, parlando di una città immemore ancor prima che ingrata «in cui niente e nessuno lascia traccia, città senza futuro in cui tutto si dimentica».
No, non era bastata la prima mostra (curata da Paolo Falcone e Melissa Harris) che Palermo – dopo trent’anni di impegno nella città – aveva dedicato a Letizia nel dicembre 2000, nel cartellone di quella che sarebbe stata l’ultima edizione del Festival ‘sul Novecento’1. Dal 2001 il clima politico è cambiato, ora al posto di Leoluca Orlando c’è un nuovo sindaco, un avvocato da qualche anno prestato alla politica, poco conosciuto ai palermitani, a differenza di chi, alle sue spalle, manovra da lungo tempo politica e affari.
Così, all’inizio di gennaio del 2004, sfidando il freddo, Letizia era partita in treno per Parigi dove contava di poter lavorare ancora con Franco Zecchin e anche con il grande Josef Koudelka2 che con lei aveva collaborato sin dagli anni Settanta per la sua agenzia Informazione fotografica (creata insieme a Zecchin). Sicuramente non era facile ricominciare una carriera a Parigi negli anni 2000. D’altra parte, l’attaccamento viscerale (e nel suo caso non è un modo di dire) alla città e alla famiglia (le tre figlie, i nipoti), certo anche la nostalgia, ebbero presto il sopravvento. Letizia ritorna a Palermo dopo circa un anno di autoesilio. Come avrebbe detto Attilio Bolzoni: «più di una volta ha provato a mettere distanza fra lei e la sua città, Palermo, che è come la sua pelle. È sempre tornata»3. Letizia non poteva vivere dentro una pelle non sua.
Rientrata a Palermo, nonostante la città fosse di nuovo in letargo, Letizia inizia, con la passione di sempre, a ricollegarsi nuovamente al mondo: ad esempio, accompagnerà il viaggio in Sicilia del giornalista e scrittore Alexander Stille dal cui libro4 il regista Marco Turco trarrà il documentario In un altro Paese (2006). È in quel periodo che si interessa più da vicino a una figura emergente del teatro nazionale, e non solo, la palermitana doc Emma Dante (classe 1967), anche lei accomunata dall’ostracismo a lungo riservatole da una città ‘matrigna’ (che per tanto tempo le avrebbe negato uno spazio). Solo nell’ottobre 2006 Emma Dante (la cui compagnia era stata da tempo scoperta e sostenuta produttivamente da istituzioni teatrali assai note come il CRT di Milano) debutta per la prima volta a Palermo con Cani di bancata, un’opera fortissima ed estremamente provocatoria. La Dante ci offre una visione matriarcale della mafia, il boss assoluto è infatti una donna, la “mammasantissima” che nutre i suoi tanti figli mafiosi seduti, ma spesso anche sospesi, di fronte a una tavola tanto riccamente imbandita quanto scomoda e precaria. Un lavoro che evoca la ritualità religiosa della mafia, ma dove si recita il “Madre nostra”. Con una (tra le tante) invenzione drammaturgica e scenografica, geniale, a nostro parere, proprio per il suo apparente “didascalismo”, nel finale dello spettacolo vediamo una grande carta geografica dell’Italia dove la Sicilia è al nord. La madre-padrona “dona ai figli una Italia capovolta”, dice la Dante che, sempre nelle note di regia, spiega: «In un’isola del nord di un’Italia capovolta c’è una città madrìce, un luogo primario, dove un popolo silenzioso, seduto attorno a una tavola imbandita, si spartisce l’Italia e se la mangia a carne cruda».5 Teatro crudele quello della Dante, dove il richiamo, più che mai attuale, a una Sicilia, e in primis al suo capoluogo,  spolpata a ‘carne cruda’ inevitabilmente ci riporta a una delle prime opere che la imposero all’attenzione, anche fuori dai confini italiani, per la forza espressiva ed emozionale: Carnezzeria (così a Palermo, e solo a Palermo, vengono chiamate le macellerie).

Emma Dante, regista e drammaturga palermitana

Il lavoro di Emma Dante sarà sin dall’inizio seguito molto da vicino dalla rivista Mezzocielo che Letizia contribuì a fondare nel 1991 (insieme al lavoro, in altre discipline artistiche, di donne di generazioni diverse come Lina Prosa6, ancora nel teatro, Costanza Quatriglio nel cinema, Evelina Santangelo per la letteratura).

COSÌ VICINA O COSÌ LONTANA?

Non avrei visto invece il set di Wim Wenders che, nell’autunno del 2007, arriva in città per girare Palermo Shooting (2008). Letizia era stata contattata da Wenders in persona: sapeva del suo incontro con la Bausch di quasi 20 anni prima7 e voleva assolutamente che lei fosse parte del film.
Ebbi più volte la tentazione di prendere un aereo, per provare a curiosare anche io sul set. Ma poi decisi di non andare. Mi arrivavano comunque notizie, specie tramite Patrizia, una delle sue figlie: davanti a Wenders l’emozione di Letizia era troppo forte, non riusciva a gestirla; anche quando stavano insieme, magari prendendo un caffè, aveva voglia di scappare via subito.
Vidi il film in una anonima multisala milanese, nella sua fugace apparizione sugli schermi italiani a fine 2008. All’uscita dal cinema ero parecchio frustrato, anzi decisamente arrabbiato, come spesso capita con i film di registi che abbiamo molto amato che ci deludono. Al di là dei limiti propri del film, diffusamente evidenziati dalla critica, e precisato che il cameo di Letizia mi era parso la cosa più vera e vitale dell’opera, questa Palermo wendersiana non la riconoscevo, o meglio la riconoscevo sin troppo. Mi sembrava inconcepibile che un regista come lui (anche scrittore, fotografo, pittore), la cui poetica era stata da sempre fondata sull’anima dei luoghi e su quanto essi raccontano, che ci aveva fatto amare tante città, anche quelle dove non eravamo mai stati, avesse potuto restituire una Palermo così ‘da cartolina’, piazzando la camera nei luoghi più turistici. Né del resto risultava del tutto chiaro, dalla trama, il perché della scelta di Palermo come meta del viaggio per il fotografo protagonista della storia (interpretato dal cantante punk-rock Campino).
Quelle reazioni, oltre che con il giudizio sul film in sé, avevano però a che vedere, e più in profondità, con il mio rapporto ambivalente con la città, ora dalla posizione anche più ambigua della distanza fisica, ma certo non emozionale. Che ora era a Palermo, adesso che io non abitavo più là? Nel manifesto pubblicitario di Palermo shooting, dalla cifra un po’ magrittiana, c’è un uomo, sospeso in orizzontale nel vuoto, in un cielo azzurro attraversato da qualche nuvola, aggrappato al palo di un lampione-orologio, a formare con il lampione stesso, altissimo in verticale come il simbolo di una croce.  Sullo sfondo, in basso, si stende la città e il suo golfo. L’orologio segna le tre meno dieci del pomeriggio (la controra, direbbero a Napoli). Il mare, e Palermo, appaiono immobili8.

L’immagine utilizzata per il manifesto del film Palermo Shooting, Wim Wenders, 2008

Ma non era così. In quegli anni, in città, magari in maniera sotterranea e poco visibile, tantissimi giovani, tra cui i figli di miei amici e conoscenti, viaggiavano, studiavano le lingue e le culture, curiosi del mondo, come e più di noi alla loro età, qualche decennio prima. Tanti di loro erano andati via, al Nord o all’estero per studiare o lavorare, ma tanti altri avevano scelto di restare e di impegnarsi per la città, nell’associazionismo e nel volontariato, nella cultura e nel sociale. Nascevano così iniziative, luoghi, reti, e si sviluppavano antidoti contro l’ignoranza e la cultura della “mafiosità”, anche se quasi sempre nell’indifferenza delle istituzioni locali.

DUE O TRE (O ANCHE PIÙ) COSE CHE SAPREMO DI LETIZIA

Nel frattempo, dopo la parentesi parigina, anche la sua città (dopo l’Italia, l’Europa e il mondo intero) ri-comincia a scoprire Letizia. Come se avesse sentito la sua mancanza. Un punto di svolta sarebbe stato, nel dicembre 2008, la mostra Due o tre cose che so di lei promossa dalla galleria d’arte (e associazione di artisti) Nuvole, dalla lunga e meritoria attività (grazie all’appassionato coordinamento di Raffaella De Pasquale), che aveva sin dalla nascita (nel 1996) sostenuto fortemente il lavoro di Letizia. La quale reincontra qua l’attrice Serena Barone, una delle colonne del Teatés di Perriera e poi della compagnia di Scaldati, ma anche di altri grandi registi, tra cui, più di recente, Emma Dante.
Concepita da Letizia insieme al pittore palermitano (ma anche scenografo e costumista) Gaetano Cipolla, la mostra intreccia i linguaggi della fotografia, della pittura, ma anche del cinema, intorno al corpo, reale e simbolico, e allo sguardo della Barone, interprete di una serie delle “nuove” fotografie di Letizia e modella al tempo stesso dei quadri di Cipolla che giocano sulla duplice dimensione dello spazio e del colore9.
Al ritorno da Parigi, e vincendo la tentazione più volte espressa anche in pubblico di ‘bruciare’ tutte le sue foto del passato, stanca anche dell’etichetta indelebile di ‘fotografa della  mafia’, Letizia inizia infatti a “ri-elaborare” (rielaborazioni era il termine che aveva adoperato) le sue foto storiche di morte e di dolore, accostando o sovrapponendo in parte ad esse, nello spazio e nel tempo che ogni foto racchiude in sé,  altre immagini, di vita e di speranza, tratte dal presente ma che guardano al futuro. Immagini che molto spesso sono attraversate dall’acqua: acqua pura che scorre, che placa la sete e la calura, che pulisce le città e lava i peccati, in una simbologia che appartiene peraltro agli archetipi universali prima che al sentimento religioso. Immagini dunque ‘nuove’ che dialogano, ma non cancellano, le ‘vecchie’.
Una speranza di futuro affidata, anche e soprattutto, all’immagine e al corpo nudo delle donne, ritratte in pose plastiche, quasi teatrali, ma che a volte rimandano anche all’immaginario del cinema. Già presente all’ospedale psichiatrico nel video Festa d’agosto del 1982 (vedi più in dettaglio la prima parte di queste note), Serena  viene chiamata da Letizia come protagonista del cortometraggio Fine della storia da lei scritto e diretto e ultimato appena un tempo per la mostra: è quasi un suo alter ego femminile dai grandi occhi scuri e profondi, a scrutare il mondo e l’anima, che per Letizia erano gli sguardi della sua camera.

Gaetano Cipolla – Serena, tempera e pastello su carta intelata c. 80×70, collezione privata
(immagine tratta dal catalogo della mostra Due o tre cose che so di lei, Edizioni Passaggio, 2008)
UNA SERA A NEW YORK

Da lì a pochi mesi, nel maggio del 2009, Letizia vola di nuovo a New York per ricevere un altro prestigioso riconoscimento10, il Cornell Capa Infinity Award assegnatole come Concerned Photographer dall’ICP-International Center of Photography (insieme ad Annie Leibovitz cui quell’anno era andato il Lifetime Achievement). Decido di tornare in quei giorni a New York (dove non ero più stato da parecchi anni), sia per poter incrociare l’occasione del premio a Letizia che per onorare una promessa fatta da tempo a me stesso ma mai realizzata: rintracciare i luoghi delle diverse case in affitto in cui i miei genitori avevano vissuto tra il 1949 e il 1958 a Brooklyn (e in particolare quella abitata quando ero nato io, appena prima del nostro ritorno in Italia, ovvero in Sicilia).
Letizia riuscì (nessuno del resto poteva dire di no alla co-protagonista della serata) a fare invitare anche me – e Piero Trupia11 – al gala della premiazione, addirittura al suo tavolo (molto ampio, e per fortuna non erano richiesti particolari dress-code). Tra i ricordi più vividi di quella sera, in una New York primaverile che aveva ormai ben metabolizzato l’11 settembre: l’aperitivo al tramonto sulla terrazza ai Chelsea Piers con vista sullo skyline del New Jersey, la gioia di Letizia accanto alla sua grande amica e sostenitrice Melissa Harris, storica editor della rivista Aperture12 (che anche io avevo conosciuta nelle sue frequenti visite a Palermo che prevedevano spesso una ‘tappa gelato’, di cui Letizia era ghiotta in ogni stagione, ‘Da Ilardo’ al Foro Italico); ma soprattutto, la sua grande emozione nel breve discorso di ringraziamento accanto alla Leibovitz. Ricordo la colazione offerta in suo onore al mattino all’ICP, presenti anche alcuni studenti dei corsi, dove Letizia raccontava, in un inglese magari imperfetto ma che arrivava chiaramente grazie anche al non verbale, aneddoti divertenti sul suo lavoro. A un certo punto, ma non saprei bene dire come e perché, ci si era ritrovati tutti a ballare, compresi i manager dell’Istituto.

Melissa Harris, editor della rivista Aperture, e Letizia Battaglia, New York, maggio 2009. Foto di Sergio Di Giorgi
Letizia (di spalle) all’ ICP-International Center of Photography, maggio 2009.
Foto di Sergio Di Giorgi
Letizia Battaglia pronuncia il discorso di ringraziamento alla serata di premiazione
del Cornell Capa Infinity Award, New York, maggio 2009. Foto di Sergio Di Giorgi
È RI-NATA UNA STELLA

Nel maggio di tre anni dopo, due giorni prima del ventesimo anniversario della strage di Capaci, si celebra il ritorno di Orlando sindaco. La città appare comunque disincantata, oltre che assai provata, dai dieci anni precedenti di malagestione. Nonostante la schiacciante vittoria alle urne, si capirà assai presto che non c’è più l’entusiasmo di un tempo (ma sarebbe un discorso lungo e complesso, e non è certo questa la sede).
Letizia, comunque, continua ad essere invitata dappertutto, in Italia e all’estero, da gallerie, festival, istituzioni, per mostre (e iniziative collaterali) che guardano alle sue produzioni vecchie e nuove. Come farà sino alla fine (anche contro il parere dei medici), Letizia non si risparmia, accetta gli inviti, ma partecipa anche a convegni e altre occasioni di dibattito e dialogo, spesso nelle scuole con gli studenti, risponde a mille interviste. Non è stata mai solo una fotografa, ma anche una ‘attivista politica’ (oltre ad aver ricoperto, come si sa, ruoli specificamente politici dalla metà degli anni Ottanta, per il Comune e la Regione).
A Milano, in quegli anni, sarebbe venuta varie volte, su invito delle più importanti istituzioni culturali della città. L’avrei rivista così più spesso di quando abitavo a Palermo, ma riuscire a parlarle… beh quello era ormai più complicato, sempre assediata come era dal pubblico o ‘protetta’ da curatrici e organizzatrici (donne, di regola, et pour cause) degli eventi. La riscopre anche la pubblicistica italiana (dopo quella straniera, grande risonanza aveva avuto il volume edito da Aperture nel 199913  attraverso saggi e volumi collettanei a lei dedicati, tra cui quello curato da Giovanna Calvenzi.14

FESTE DI MARZO (OVVERO LE ‘LETIZIADI’)

Il 5 marzo 2015 è davvero una grande festa. Letizia compie 80 anni e il luogo scelto per i festeggiamenti è il Teatro Garibaldi, adesso completamente restaurato, specie esternamente (all’interno resistono ancora resti e segni del suo passato, anche come luogo teatrale ‘off’), in una zona un tempo poco frequentabile di sera, ma che appare già parecchio gentrificata (nel 2018 sarà il quartier generale di Manifesta 12, la grande kermesse artistica biennale a carattere internazionale che scelse come sede proprio Palermo, in quell’anno anche capitale italiana della cultura).
Forse non tutti quelli che avrebbero voluto erano là ma c’è tanta gente e, cosa molto bella, di tutte le età e condizioni sociali. È un appuntamento all night long scandito da tanti diversi momenti, a partire da quelli ufficiali con il sindaco Orlando che finalmente annuncia l’apertura del Centro Internazionale di Fotografia, il vecchio ‘sogno’ di Letizia (ma passeranno ancora altri due anni, si sa che a Palermo le cose si muovono lentamente). C’è una mostra nel foyer: Letizia come regalo di compleanno aveva invitato i fotografi palermitani a donare una loro foto della città, per raccontarla insieme ancora una volta; ci sono le proiezioni in video delle sue opere, le testimonianze di amici e colleghi, il teatro con le attrici del Teatés (purtroppo la scuola era finita con la morte di Perriera), ma anche musica, con la voce della nipote Marta Sollima, e infine discoteca sino all’alba! A un certo punto della serata, prima che Letizia vada via, esausta, un’amica le pone sul capo una corona di plastica, lei sorride felice come una bambina, una ‘regina-bambina’.15
Dopo tanti anni di sangue, di lutti, di dolore, era stata una serata di emozioni e di gratitudine, ma spensierata, anzi piena di speranza, quasi un miracolo. Arrivato da Milano quella mattina stessa, quasi non credevo ai miei occhi e alle mie orecchie. La foto più bella, della figlia Shobha, campeggiava all’ingresso del teatro: Letizia in riva al mare di Mondello, a braccia aperte, la macchina fotografica in una mano, l’altra miracolosamente libera dalle sue sigarette a ciclo continuo (un vizio che condivideva, ahinoi, con Pina Bausch), gli occhi chiusi di fronte al sole che la bacia.

Letizia Battaglia sulla spiaggia di Mondello, © Shobha – courtesy dell’autrice

Un’altra serata di gala, certo più composta, Palermo le porterà in regalo l’anno dopo, sempre nel giorno del suo compleanno (Orlando del resto aveva annunciato l’anno prima un fitto programma d’onore, le “Letiziadi”). Al Teatro Massimo diretto da Francesco Giambrone16 va in scena una serata unica, in tutti i sensi: Il Caravaggio rubato, oratorio per voce recitante, orchestra e coro, su testi di Attilio Bolzoni, con musiche composte ed eseguite dal vivo da Giovanni Sollima (che dirige nell’occasione anche l’Orchestra e il coro del Massimo). In sovraimpressione, per tutto il tempo, scorrono le immagini, vecchie e nuove, di Letizia. La storia è quella del furto della celebre Natività del Caravaggio, avvenuta nella notte del 17 ottobre 1969, nel meraviglioso oratorio di San Lorenzo decorato dal Serpotta. Per alcuni  il furto era stato commissionato dalla mafia, ma in realtà è una storia a tutt’oggi carica di mistero, pur se oggetto di numerose rivisitazioni critiche, letterarie, e cinematografiche (era anche il sottotesto del film di Roberto Andò, Una storia senza nome, 2018). Mafia o non mafia, resta certamente simbolica della ‘sottrazione’ di arte e cultura che la città ha dovuto subire per decenni.
Il giorno dopo poi, nell’enorme padiglione ZAC dei Cantieri alla Zisa, inaugura la mostra Letizia Battaglia. Anthologia17, la più grande antologica sin qui mai dedicata all’artista, curata da Paolo Falcone, con 140 foto in grande formato. Finalmente Palermo affolla la mostra e le rende omaggio con un allestimento, di grande impatto scenografico ed emotivo, all’altezza dell’importanza della sua opera.

Letizia Battaglia. Anthologia, ZAC (Zisa Arti Contemporanee), marzo 2016. Foto © Olimpia Cavriani
TO HOPE OR NOT TO HOPE, THAT IS THE QUESTION (A PALERMO)

«Io la speranza me la invento… lo so che tu vorresti farmi dire che non c’è speranza», dice Letizia a Franco Maresco, voce rigorosamente fuoricampo. Letizia invece è al centro dell’immagine, su uno sfondo completamente nero, la voce flebile, che sembra giungere da una profondità remota, gli occhi come velati di pianto, la faccia stanca, solcata dalle rughe (sulle quali sicuramente la pensava allo stesso modo della Magnani). Letizia aveva ripreso i contatti con il geniale e intransigente regista palermitano. Si sa che Maresco, periodicamente, si ‘inabissava’.  Non so chi dei due avesse fatto il primo passo, ma mi piace pensare che Letizia fosse riuscito a stanarlo. In realtà, sappiamo che Maresco accarezzava da diverso tempo il progetto di un film su e con lei.
Vidi La mia Battaglia. Franco Maresco incontra Letizia Battaglia (2016) al MAXXI di Roma nel febbraio 2017, in occasione della grande mostra Per pura passione18, di cui ho già parlato. Anche quella resta per me una serata indimenticabile. Intanto, per l’emozione dei brevi saluti scambiati con Letizia – per la prima volta la vedevo su una carrozzella (il suo stato di salute aveva iniziato a peggiorare), che peraltro manovrava quasi del tutto in autonomia. Poi per aver rivisto Franco Maresco dopo quasi 20 anni (dall’incredibile set panormita di Totò che visse due volte, 1998). Dopo i saluti istituzionali, la proiezione, il confronto a due voci, intervallato dai contagiosi silenzi del regista e che spesso si arenava in un tipico ‘dialogo tra sordi’ (ma forse entrambi un po’ “ce facevano“ come avrebbero detto a Roma). Il dibattito fu però ben presto vivacizzato delle voci dei tanti ‘esuli’ palermitani presenti, quelli andati a Roma a cercare (e in molti casi a trovare) il ‘successo’ professionale: ricordo tra questi lo scrittore e polemista Fulvio Abbate, il giornalista e romanziere Giuseppe Di Piazza, il critico e studioso di cinema Emiliano Morreale, di qualche generazione più giovane.. Non ricordo ci fosse Attilio Bolzoni, avrei salutato con piacere anche lui.

La locandina de La mafia non è più quella di una volta

La mia Battaglia è un omaggio sentito e complice a Letizia, donna e artista palermitana ‘doc’ al pari del regista. Il tema della speranza (e per converso, del  disincanto) che attraversa il film a mio avviso evoca una questione ancor più vasta, quella sorta di Weltanschauung che oppone da sempre tra loro gli artisti e gli intellettuali siciliani (e che richiama in qualche modo la celebre distinzione tra siciliani ‘di mare aperto’ o ‘di scoglio’ coniata da Vittorio Nisticò, storico direttore del quotidiano L’Ora, ripresa più di recente da Andrea Camilleri). C’è tra essi chi si immerge nella vita reale e va per le strade del mondo, o anche solo, magari ossessivamente, della sua città o quartiere, a incontrare, a osservare, a spiare forse, i suoi diversi abitanti; e chi, all’opposto, preferisce restare nella sua turris eburnea in un isolamento dal mondo più o meno pacificato, da cui evadere soltanto grazie al sogno e alla creatività. Letizia, di certo, aveva scelto di conoscere la città e il mondo. Palermo, del resto, è per i suoi abitanti una “città-mondo”: per una sorta di dissonanza cognitiva di tipo ambientale, essi finiscono per credere che il mondo intero ruoti intorno alla città, almeno finchè non vanno via, altrove (la sindrome, peraltro, e lo dico per esperienza diretta, può puntualmente ripresentarsi, anche per chi non vi abita più da tempo, bastano solo pochi giorni di permanenza). Franco Maresco (a differenza di Daniele Ciprì19,  con il quale si consumerà poi una dolorosa separazione), viveva – quando usciva dalla torre – solo nella sua città e non amava allontanarsene. Al contrario di una figura di artista e intellettuale cosmopolita e che ha attraversato diversi linguaggi come Roberto Andò. Può apparire curioso che Letizia sia stata amica vera e confidente di due autori agli antipodi e che incarnavano, ciascuno, le due opposte visioni dell’essere siciliani e artisti. O magari è ben spiegabile: come se avesse voluto, da donna prima che artista, non separare ma piuttosto unire, per generare una dialettica, dunque qualcosa di nuovo, abbracciando modi diversi, persino disperati (come nella poetica di Maresco) di amare e raccontare quella città-metafora.

‘FUOCO AMICO’

Ne La mia Battaglia Maresco dice «in fondo siamo complementari, tu hai la fiducia e io instillo il dubbio» (ma sarà invece Letizia a instillargli provocatoriamente dei dubbi a proposito dell’assenza del femminile nel suo cinema). Soprattutto, ricorda sempre Letizia, non bisogna perdersi nel labirinto dei pensieri, bisogna agire, ed è importante che ognuno “faccia la propria piccola parte”. Per questo ricordava spesso l’ammonimento dei versi tanto amati di Ezra Pound (dai Canti Pisani): Here error is all in the not done, all in the diffidence that faltered (“Qui l’errore è in ciò che non si è fatto, nella diffidenza che fece esitare”).
La diffidenza in Sicilia è di casa e, insieme all’accidia e al ‘retropensiero’, inibisce di continuo l’azione. E poi c’è l’invidia, che nutre rancori sordi e ciechi e ispira boicottaggi e ostruzionismi di ogni tipo verso chi fa e dunque può riuscire (ma anche sbagliare e, se sbaglia, la vendetta dei “nulla-facenti” sarà implacabile…). Non a caso riuscire a fare a Palermo è davvero molto più difficile che altrove e, sempre non a caso, da Palermo in tanti vanno via, magari per sempre. Sono i peccati originari della città, al pari di quello di “non credere alle idee” che per Sciascia era il più grave di tutti. A pensarci bene, poi, sono le facce di una stessa medaglia: le idee come progetti, sogni, utopie, magari irrealizzabili, ma per cui comunque vale la pena vivere e impegnarsi.
Letizia che non conobbe esitazioni, che seguì il proprio istinto e le proprie passioni – artistiche, politiche, umane – e che creò tante cose, da sola o con tante persone, lo avrebbe imparato sulla propria pelle tutta la vita. Esposta a minacce e illazioni di vario tipo per le sue foto ai ‘colletti bianchi’ della mafia, che divennero poi prove giudiziarie importantissime, ma anche a invidie, pettegolezzi e maldicenze rispetto alla sua vita privata, sino all’ultima grande polemica della sua vita, quella che esplose sui social (e dove se no?), finendo per coinvolgere anche le istituzioni comunali, nel novembre del 2020, per le sue foto alle bambine e adolescenti di Palermo per una campagna pubblicitaria della Lamborghini. Di quella polemica – come avrebbe notato Michele Smargiassi sul suo blog – colpì in primo luogo la violenza dell’«attacco alla persona, la demolizione frustrata dell’autore celebre» che sostituiva «qualsiasi altra possibile discussione, anche critica». Ora, gli elementi di criticità sicuramente non mancavano in una campagna pubblicitaria forse poco chiara di suo, con l’azienda automobilistica (italiana ma di proprietà del gruppo tedesco Audi) che sceglie 20 città italiane e altrettanti fotografi non conosciuti al grande pubblico per “incastonare le carrozzerie negli scenari del Bel Paese” (sic) e come plus ‘autoriale’ aggiunge Letizia e Palermo. L’esito è un corto-circuito, nota sempre Smargiassi, quello di «una poetica d’autore, in questo caso le sue bambine-metafora (da tempo Letizia fotografava quasi unicamente bambine e adolescenti, ndr), traslocata in un altro contesto discorsivo, quello della pubblicità». Linguaggio pubblicitario che in effetti Letizia non aveva mai frequentato, ritrovandosi forse, nonostante tutta la sua esperienza, a peccare di ingenuità rispetto alle sue logiche (delle due serie prodotte da Letizia, una in bianco e nero e una a colori, la Lamborghini sceglie quest’ultima, con un impatto visivo ritengo ben diverso). Inoltre, la sua poetica che vede Palermo come una bambina si ritrova a fare i conti con una immagine (e un immaginario) della città molto cambiato, nel bene e nel male, per gli italiani tutti come per gli stessi suoi abitanti: «non più teatro di drammaturgie esasperate», ma che «si acconcia come un set pubblicitario»20.
La Palermo di questi ultimi anni è in effetti, almeno nel suo centro storico, una città molto ‘turisticizzata’. Accanto al recupero e alla rivisitazione di luoghi, costumi e tradizioni della cultura – anche materiale, dall’accoglienza al cibo – sembra avanzare un fenomeno che riguarda in effetti non solo Palermo, ma la Sicilia e l’intero meridione: una confezione oleografica, molto colorata e sicuramente globalizzata, modernamente “esotica”, una “estetica Dolce&Gabbana” che però non ha più alle spalle lo sguardo d’autore, consapevole e innovativo, di Ferdinando Scianna.

RITORNO A MILANO 

È il dicembre 2019 e la città che nel lontano 1971 aveva accolto Letizia in cerca di futuro la omaggia in grande stile: dopo gli incontri, nel corso del decennio, alla Triennale, alla Fondazione del Corriere, all’Accademia di Brera, eccetera è l’ora di una grande retrospettiva a Palazzo Reale21. Come ha raccontato tante volte, era partita all’avventura per Milano all’inizio dei Settanta, con le figlie ancora piccole, ma certo non più tanto giovane, per fare la giornalista, e si era trovata, per poter fare la spesa, a fare la fotografa senza aver mai studiato fotografia, grazie a una piccola macchina regalatale da un’amica architetto,  Marilù Balsamo (che le sarà vicina sino alla fine).
A Milano, quasi mezzo secolo dopo, come in una storia d’amore mai spento e anzi spesso rinfocolato, Letizia rivolge sincere parole di riconoscenza («e qui, non a Palermo, ho cominciato ad essere una fotografa») – che spiccano su una parete illuminata, proprio all’inizio del percorso della mostra.

Un pannello posto all’ingresso della mostra Letizia Battaglia. Storie di strada.
Palazzo Reale, Milano, dicembre 2019 Foto di Sergio Di Giorgi

Una mostra molto ricca – oltre 300 foto, anche inedite – articolata in tante sezioni tematiche (forse un po’ troppo didascaliche), che cercano di restituire tutte le sfaccettature della sua opera, sin dagli inizi. A Milano il titolo della mostra – Letizia Battaglia. Storie di strada – pone l’accento più sulla dimensione sociale e politica della sua opera che su quella privata (un titolo un po’ diverso, pur se con la stessa curatela, aveva la mostra che di questa era un prologo, tra la primavera e l’estate di quell’anno, a Venezia, presso il bellissimo spazio espositivo di Casa Tre Oci 22 ).

Il manifesto della mostra al Palazzo Reale di Milano

Visito la mostra a Palazzo Reale nel primo giorno di apertura al pubblico (non c’era stato nemmeno un vero vernissage, meglio così, Letizia era di solito contraria), c’è tantissima gente, soprattutto tanti giovani. Finalmente, al termine del percorso, rivedo la sua serie degli Invincibili: Berlinguer, Pasolini, i bellissimi ritratti di Elvira Sellerio (scomparsa nell’agosto del 2010), e altri ancora. Però, non vedo nessuna foto della Bausch (so che una era stata esposta a Palermo nel 2015 nella mostra alla galleria Nuvole e mi sarebbe piaciuto vederla qua).
Sì è vero, a Milano Letizia è stata molto amata (proprio come Pina Bausch), più che a Palermo. È un pensiero che mi consola – Milano è diventata un po’ anche la mia città – ma al tempo stesso mi fa rabbia. Erano dirette anche a Palermo quelle parole riprodotte in mostra? Esprimevano anche un velo di delusione, o erano addirittura come un rimprovero rivolto a una madre o a un compagno di vita che non ci ha compreso fino in fondo? Anche Emma Dante, a pensarci, è stata più amata e rappresentata per tanti anni a Milano e non a Palermo. Forse non hanno mai perdonato, a entrambe, di aver infranto gli stereotipi del femminile e, soprattutto, di non aver nascosto quello che della città degli opposti era meglio non mostrare: il sordido, quando non l’orrore, insomma l’altra faccia del sublime, e senza la mediazione di quel particolare teatro dell’assurdo, metafisico e di denuncia, che era cresciuto in città, spesso nell’ombra o nel sottosuolo (e ancora una volta vengono subito in mente i nomi di Scaldati e di Perriera, ma anche quello di Gabriello Montemagno, da poco scomparso, che aveva speso la sua vita tra il teatro e il giornalismo militante, naturalmente al giornale L’Ora).
Alla fine del mio giro non riesco nemmeno a salutarla tanta è la calca per avere una sua firma su cataloghi, libri, fotografie sciolte, quaderni personali. Con ciascuno lei scambia una parola, un’impressione, un sorriso. Generosa Letizia. Penso a una foto che mi aveva regalato tanti anni fa, con una firma gigantesca sul retro, come lei era solita fare, ritrae Rosaria Schifani, nella celeberrima foto del suo viso diviso in due dall’ombra, ma qua ora c’è un altro taglio, in orizzontale, e nella parte superiore della foto una mano versa acqua da una bottiglia. Lancio uno sguardo alla nipote Marta, che le è accanto e le fa cenno, la saluto da lontano. È l’ultima volta che l’ho vista di persona. Però pochi giorni prima, ero riuscito a parlarle, al Teatro Litta di Milano, per l’anteprima del film Shooting the Mafia. Poi era arrivata la pandemia, ci eravamo sentiti di rado al telefono, le notizie sulla sua salute, che peggiorava, le ricevevo sempre grazie alla figlia Patrizia. Il 5 marzo di quest’anno non aveva risposto alla mia telefonata di auguri. Le avevo mandato un messaggio, ma poi non l’avevo più richiamata…

SEQUENZE FINALI

Sempre nel 2019, a settembre, avrei dovuto incontrarla alla Mostra del Cinema di Venezia, dove Letizia arrivava nelle vesti di attrice, o comunque di testimone protagonista del nuovo film di Franco Maresco La mafia non è più quella di una volta (2019). Il film, ancora una volta mescolando documento e fiction, prosegue per certi versi idealmente il suo Belluscone. Una storia siciliana (2014), che quell’anno a Venezia aveva vinto, un po’ a sorpresa, il premio della sezione ufficiale Orizzonti.  Il film passava nell’ultimo giorno del concorso principale, ma io ero dovuto già rientrare a Milano.
A Venezia Maresco non era venuto (un classico) e Letizia, che nel film interpretava fondamentalmente se stessa,  ma a tratti  giocava un po’ a fare la ‘reporter di strada’,  si era trovata così, in conferenza stampa, a dover far fronte (ma era abituata a ben altro) alle polemiche  che il film aveva innescato (Rai Cinema aveva persino disconosciuto il film):  non per come si parlava della mafia, ma per quella parte (in realtà un po’ avulsa dalla trama principale), in cui si chiamava in causa il Presidente Mattarella e soprattutto la figura, storicamente controversa, del padre Bernardo. In ogni caso, il film aveva ottenuto un ‘premio speciale della Giuria” (presieduta dalla regista argentina Lucrecia Martel)23.

Letizia Battaglia e Franco Maresco durante le riprese de La mafia non è più quella di una volta, 2019
Foto © Tommaso Lusena de Sarmiento

Il film prosegue quel dialogo ravvicinato tra il regista e la fotografa iniziato con La mia Battaglia. Le sequenze iniziali ci riportano al 2017 e seguono, come fossero un reportage televisivo, le manifestazioni per il venticinquesimo anniversario della strage di Capaci. Letizia, come sappiamo, non volle andare sul posto quel 23 maggio, come non volle andare in via D’Amelio due mesi dopo (ma insieme ad altre donne andò a deporre fiori sulle carcasse annerite delle auto su cui viaggiavano Borsellino e le altre vittime della sua scorta). Però, come ogni anno da allora, è là, con la sua macchina a tracolla, per cogliere immagini sulla scena, ufficiale e non, e per parlare con la gente, che la ferma di continuo e la saluta. Ritorna qua il tema dello scetticismo (affettuosamente ma convintamente Letizia apostrofa Maresco «scettico di merda»), specie rispetto alla retorica e alla ‘scenografia’ delle commemorazioni ufficiali delle stragi che il recente trentennale di Capaci e via D’Amelio ha messo ancora più a nudo (vista anche la concomitante campagna elettorale per le elezioni comunali cittadine). Ma il film, che forse è meno compatto di Belluscone inseguendo diverse trame, sottotrame e personaggi si interroga su questioni ancora più complesse e fondative come la dialettica tra vero e falso, realtà e rappresentazione, il volto e la maschera, eccetera24. A Palermo, nel frattempo, la mafia è riuscita, e credibilmente (anche se sembra incredibile), a giocare tutte le parti in commedia (o in tragedia), al grido di “la mafia fa schifo”! (sic), fatto proprio anche da politici chiacchierati e che risuona anche nel film per bocca dell’ambiguo personaggio dell’impresario Ciccio Mira. Il quale, nella città ‘cinica’ in cui tutto, anche la memoria degli eccidi, può essere corrotto, organizza allo Zen (il noto quartiere sottoproletario ben controllato dalla criminalità) la serata musicale “I neomelodici per Falcone e Borsellino” che diventa “un grottesco balletto di loschi figuri avvolti dal tricolore sotto il ritratto di Mattarella”.25  Ben oltre il ‘cinismo’, qua la tragedia, come spesso la Storia, si ripete in farsa. O in un contest per i migliori trasformisti, come quegli imprenditori antimafiosi che si scopriranno in affari con i mafiosi. E allora il film di Maresco, che pochi vedranno in sala (come per i suoi precedenti la censura, specie quella di mercato, non perdona), segna forse la fine di quella narrazione avvolgente, soprattutto televisiva e seriale, dal tono comunque epico, di cui parla in un suo recente saggio26 Emiliano Morreale che, abbandonando i generi codificati del cinema, iniziò a tenere incollati gli spettatori alle poltrone (la prime due Piovre, quelle ‘d’autore’, firmate da Damiani e Vancini, sono datate 1984 e 1986, ma la serie andò avanti sino al 2001). Un vero e proprio “mafiaworld” mediatico parallelo, come nota l’autore.
Nel film, davanti all’ “albero di Falcone”, Letizia dice di rimpiangere di non essere morta prima di assistere alle tragedie annunciate del 1992. Ma come il giudice Antonino Caponnetto (capo del pool antimafia, morto nel 2002) aveva rinnegato, a distanza di anni, quel suo sussurro disperato il giorno della morte di Borsellino («È finito, è finito tutto»)27, anche Letizia avrebbe continuato a lottare il male, fuori e dentro di sé, anche se fino alla fine non sarebbe riuscita a staccarsi da quelle sue amate, dannate sigarette.
Ma c’è ancora tempo, e sino all’ultimo respiro, perché il cinema e la televisione la raccontino (dopo altri lavori su di lei girati in anni precedenti, come Amore amaro di Francesco Giuseppe Raganato, 2012, senza contare i tanti video e reportage prodotti anche all’estero). Sempre nel 2019 al festival Biografilm di Bologna (dopo l’anteprima mondiale al Sundance Festival) la regista di origini italo-gallesi Kim Longinotto, documentarista da sempre attenta ai temi delle violenze e delle discriminazioni subite dalle donne, presenta Letizia Battaglia. Shooting the Mafia (2019).

Locandina di Letizia Battaglia. Shooting the Mafia, Kim Longinotto, 2019

Il film, sicuramente destinato a un pubblico internazionale (girerà nei festival di mezzo mondo, raccogliendo anche diversi premi) vede Letizia, sempre dalla sua viva voce, ripercorrere la sua storia, mentre scorre, in un montaggio molto fluido e veloce un riepilogo visuale di quella lunghissima catena di sangue e complicità (vedendo il film, forse proprio per quella sorta di veloce ma implacabile sommario,  ti chiedi continuamente come tutto questo sia potuto davvero accadere sotto i nostri occhi). Letizia spiega bene quel ‘richiamo del sangue’ al quale non si sottrasse (come fosse il suo dharma, il suo compito), anche se «il primo omicidio ti rimane nella testa, forte forte forte». Ma «la paura è un lusso» (non la speranza) e «noi non dobbiamo avere paura». Anche se è un «amore amaro», «Palermo è la mia passione, la mia passione più grande» e nel dirlo sembra quasi piangere di rabbia e di gioia. Ma questo lo aveva detto davanti l’obiettivo di Franco Maresco, sapendo che lui l’avrebbe capita più di tutti.

SOLO PER PASSIONE (PER PURA PASSIONE)

Letizia ora porta i capelli rosa (o fucsia, o verdi, ma anche di un blu elettrico, che preferivo). La intervistano anche riviste patinate, come Vanity Fair. Nel 2017 il New York Times, l’aveva nominata una delle undici donne che hanno lasciato un segno nel nostro tempo. Ma era rimasta sempre la stessa, non si era “montata la testa” forse pensando a quell’altro verso di Ezra Pound che amava: “strappa da te la vanità, ti dico strappala!”. Credo che quei capelli colorati significassero per lei, ancora una volta, libertà, non vanità.
“Letizia Battaglia: una vita da film”, così titolano quotidiani e riviste, a proposito della miniserie tv (solo due puntate) Solo per passione che il regista Roberto Andò si appresta a girare a Palermo. È un suo amico di vecchia data Andò, come del resto anche la moglie Lia Pasqualino28, fotografa di scena e ritrattista di grande sensibilità che tanti anni prima era stata anche allieva di Letizia, come ben racconta qui. Al regista la legava poi un antico e resistente filo – che rimandava sempre a quella sua curiosa empatia per il mondo dei ‘matti’ – ed era la comune conoscenza con lo psicoanalista e terapeuta Francesco Corrao29 che prima di partire per Milano all’inizio degli anni Settanta l’aveva guarita da un forte stato depressivo.
Conosco sin dagli esordi (con Diario senza date, 1995) il cinema impegnato di Andò, scrittore e regista, di cinema e di teatro, e intellettuale colto e raffinato, di cui il pubblico è tornato di recente a scoprire e apprezzare anche la cifra umoristica e surreale, peraltro meno frequentata, della sua filmografia30. Premesso che non ho molta dimestichezza (e piuttosto molti pregiudizi) con le fiction tv, nella prima parte – che inizia nella Palermo del dopoguerra, con una Letizia (troppo) giovane sposa e madre – mi sembrava che il racconto stentasse a carburare; ma via via, la materia biografica e insieme quella della cronaca avrebbero fatto lievitare,  in crescendo, la tensione narrativa. Immagino anche che sia stata grande la difficoltà per gli sceneggiatori31 (oltre che  per gli scenografi, con le riprese effettuate in gran parte per gli interni e gli esterni proprio a Palermo) nel condensare in due puntate da meno di due ore ciascuna una vita intensissima come quella di Letizia sullo sfondo di un contesto sociale e politico così cangiante: quasi ottanta anni di storia di Palermo e dell’Italia. E al tempo stesso, come ha affermato Andò  in una intervista, rivivendo se stesso e le tragiche vicende cittadine, attraverso gli occhi di Letizia, come in una “autobiografia dissimulata”. A decisivo merito del regista e della produzione va comunque la scelta vincente di una bravissima attrice come Isabella Ragonese, (peraltro davvero assai somigliante a Letizia da giovane), della quale la fotografa dirà «ha una faccia vera, mi rappresenta» (non a caso, la Ragonese, palermitana trapiantata a Roma, a 16 anni aveva frequentato proprio la scuola di teatro del Teatés di Michele Perriera).

Letizia e il regista Roberto Andò durante le riprese della serie Solo per passione, 2022 .
Foto © Shobha, courtesy dell’autrice
LE “INVINCIBILI” DI PALERMO

«È una donna che cammina sulle ferite dei suoi sogni, riesce a tenere insieme il dolore profondo per quello che ha visto e al tempo stesso la luce». Le parole di Michele Perriera sarebbero il più esatto epitaffio da inscrivere sulla tomba di Letizia, sulla quale molte persone comuni, credo soprattutto giovani, lascerebbero un fiore, anche solo a voler smentire quel secolare desiderio di oblio della città per le sue voci più scomode e autorevoli.
Ma Letizia, amante della libertà, nemica di ogni costrizione, ha scelto di disperdere le sue ceneri nel mare. Un ultimo viaggio, che aveva peraltro già messo in scena nel 2007, attraverso il corpo di attrice di Serena Barone, nel suo video Fine della storia. Quasi cinquanta anni dopo i versi di Pasolini32 anche Letizia, esule in patria come lui e come tanti siciliani, aveva raggiunto il suo mare e al mare aveva affidato il suo corpo e le sue fotografie: «alla fine della storia, le foto galleggiano come zattere sul mare, chissà chi le raccoglierà, su un’altra riva, per asciugarle, per mostrarle ancora».33

Due fotogrammi del cortometraggio di Letizia Fine della storia, 2007
(dal catalogo della mostra Due o tre cose che so di lei (Edizioni Passaggio), 2008

Mi piace pensare che da qualche parte, in fondo a quel mare oppure lassù nel cielo – sopra Palermo? – Letizia si ritroverà, anima inquieta e appassionata, a fumare con Pina. E con tante altre donne, di diversa età e saggezza, per ideare – ma soprattutto per realizzare – altri progetti: fotografici, editoriali, teatrali, cinematografici…
Le “Invincibili di Palermo”. Come Letizia. Conosco i loro nomi (altri ne dimentico di certo, altre stanno crescendo). Le ho conosciute, per poco o per nulla, ma sapevo del loro valore anche grazie a lei. Si chiamano Giuliana Saladino, Elvira Sellerio, Simona Mafai (l’unica che non fumava).
Mi piace anche pensare che, nel mare o nel cielo, Letizia incontrerà finalmente Lisetta Carmi (morta nel mese di luglio di quest’anno, a 98 anni) che mai conobbe di persona (e sempre me ne ero meravigliato), ma il cui lavoro e le cui cinque vite , o forse più, aveva tanto ammirato. Lei veniva da un’altra città di mare, ma entrambe erano “anime in cammino”34, e allora, c’è da scommetterci, in quel cammino si erano già incontrate.

NOTE

1“Letizia Battaglia. passionegiustizialibertà” (così di seguito e in minuscolo), inaugurata il 2 dicembre 2000 ai Cantieri Culturali della Zisa – Galleria Bianca per il “Festival sul novecento” (diretto da Roberto Andò).
2Koudelka era già stato in mostra a Palermo in una acclamata esposizione ai Cantieri alla Zisa nel 1999; nell’ottobre del 2018 Letizia lo avrebbe invitato e omaggiato in una mostra del Centro Internazionale di Fotografia.
3Attilio Bolzoni, “Letizia Battaglia, eterno ritorno a Palermo”, La Repubblica 24-11-2016 (è un estratto del suo testo per il catalogo della mostra, già citata, al MAXXI di Roma, Per pura passione).
4Alexander Stille, Excellent cadavers. The Mafia and the Death of the First Italian Republic, Vintage, 1995.
5Nelle note di regia leggiamo anche: «La mafia è una femmina-cagna che mostra i denti prima di aprire le cosce. È a capo di un branco di figli che, scodinzolanti, si mettono in fila per baciarla.  La cagna non si preoccupa più di punire la verità, quella che costò la vita a Peppino Impastato, perché è riuscita a delegittimarla questa verità, screditando la magistratura e assuefacendo l’opinione pubblica all’illegalità».
6Lina Prosa, regista e drammaturga, e Anna Barbera, giornalista e operatrice culturale, a metà degli anni Novanta avrebbero dato vita al “Progetto Amazzone” (e poi all’attivissimo “Centro Amazzone”) su temi di frontiera come la malattia, il dolore, la diversità, che utilizzava in particolare il linguaggio teatrale per veicolare le sue iniziative.
7Alla Bausch, poco dopo la sua morte prematura nel 2009, Wenders avrebbe dedicato lo straordinario documentario Pina, 2011.
8Queste ed altre considerazioni sul film svolgevo nel mio contributo “Così lontana, così vicina. Appunti all’incontrario sul ‘set’ Palermo (1989-2008)”, in Idea di un’Isola. Viaggio nel cinema della e sulla Sicilia (a cura di Emiliano Morreale), Quaderni del CSCI, n.5, 2009.
9Il catalogo della mostra (Edizioni Passaggio) ospita contributi di Sergio Troisi (anche curatore del volume) e Augusto Pieroni.
10Dopo il Premio W. Eugene Smith (Grant in Humanistic Photography) ottenuto nel 1985 e il Photography Lifetime Achievement Award of the Mother Jones nel 1999.
11Mi aveva accompagnato nel viaggio, complice anche in questo mio “pellegrinaggio” nella memoria familiare, Piero Trupia, studioso multidisciplinare e moderno erudito, scomparso nel marzo 2020, che era per me fondamentale riferimento culturale rispetto a temi sociali, educativi e di cultura organizzativa di cui per anni mi sono interessato come formatore e consulente indipendente.
12Si veda anche il ricordo di Letizia di Melissa Harris sul sito di Aperture: “The Sicilian Photographer Who Fought the Mafia”, 5 maggio 2022.
13Letizia Battaglia: passion justice freedom: photographs of Sicily, New York, Aperture, 1999.
14Giovanna Calvenzi, Letizia Battaglia. Sulle ferite dei suoi sogni, Bruno Mondadori, 2010.
15Riesco a darle, come mio piccolo presente, il Dvd del film Ida di Paweł Pawlikowski che non era riuscita a vedere in sala (mi avrebbe detto poi che le era piaciuto moltissimo).
16Assessore alla Cultura di Palermo negli anni straordinari (e credo irripetibili) dal 1995 al 2000, poi di nuovo dal maggio 2012, già sovrintendente al Teatro Massimo di Palermo e dall’inizio di quest’anno dell’Opera di Roma.
17Letizia Battaglia – Anthologia (5 marzo – 8 maggio 2016), a cura di Paolo Falcone, ZAC (Zona Arti Contemporanee), Cantieri Culturali alla Zisa, Palermo.
18Letizia Battaglia. Per pura passione (24 novembre 2016 – 17 aprile 2017), a cura di Paolo Falcone, Margherita Guccione e Bartolomeo Pietromarchi, MAXXI Roma.
19Daniele Ciprì aveva iniziato a collaborare con altri registi, come Roberta Torre, e soprattutto con Marco Bellocchio, prima di debuttare anch’egli nella regia.
20Come nota, nel finale della sua analisi, Helga Marsala: https://www.artribune.com/arti-visive/fotografia/2020/11/letizia-battaglia-e-le-sue-bambine-il-caso-lamborghini-a-palermo/. Sempre a proposito di città e motori (ma questa volta senza corpi di donne), nel settembre 2021 Palermo con i suoi luoghi più iconici sarà il set di un video pubblicitario della Red Bull Racing Honda che diverrà presto virale.
21Letizia Battaglia. Storie di strada, https://www.palazzorealemilano.it/mostre/storie-di-strada a cura di Francesca Alfano Miglietti (collaborazione alla selezione di Maria Chiara Di Trapani e Marta Sollima).
22Letizia Battaglia. Fotografia come scelta di vita. https://treoci.org/it/2013-02-05-10-08-35/archivio/16-mostre/archivio/353-letizia-battaglia-fotografia-come-scelta-di-vita
23Da non confondersi comunque con il ben più importante Gran premio della giuria che andrà al Polanski de L’ufficiale e la spia.
24Si veda al riguardo Bruno Roberti. https://www.fatamorganaweb.it/la-mafia-non-e-piu-quella-di-una-volta-maresco/
25Bruno Roberti, cit.
26Emiliano Morreale, La mafia immaginaria. Settant’anni di Cosa Nostra al cinema (1949-2019), Donzelli, 2020.
27«Capiì quanto avevo sbagliato nel pronunciare quelle parole – avrebbe detto anni dopo il giudice Caponnetto – e quanto bisognava che per farmele perdonare io operassi per continuare l’opera di Giovanni e Paolo.» Dall’intervista tv di Gianni Minà, per il programma Storie, 23 maggio 1996.
28Tra i primi volumi di Lia Pasqualino ricordo con emozione, avendo frequentato a lungo il set, specie nelle scene di interni nel fastoso ma assai délabré Palazzo Mazzarino in via Maqueda a Palermo, il libro fotografico Il manoscritto del principe, edito da Federico Motta nel 2000, che conteneva le foto di scena dell’omonimo film di Roberto Andò, uscito in quello stesso anno, tra cui alcuni bellissimi ritratti dei due protagonisti: Michel Bouquet e Jeanne Moreau (nei ruoli di Tomasi e della moglie Licy). Il volume conteneva anche una lunga conversazione a tutto campo tra me e il regista sulla figura di Tomasi di Lampedusa e su quella del suo allievo, poi autorevole critico letterario e musicologo, Francesco Orlando.
29Andò aveva pubblicato nel 1994 con le Edizioni della Battaglia, la casa editrice fondata da Letizia nel 1992, una raccolta di conversazioni con Corrao dal titolo Il maestro e i porcospini. Sulla figura di Corrao vedi anche la nota 12 nella prima parte di questo contributo.
30Ci riferiamo in particolare al notevole e beneaugurante successo al botteghino (con finalmente il pubblico nelle sale, oggi disertate persino dai produttori di “cine-panettoni” in favore delle piattaforme…) del suo ultimo film La stranezza: una storia squisitamente “pirandelliana”, tra documento e invenzione, che utilizza e mescola assai bene diversi registri espressivi, con interpreti Toni Servillo, la collaudata coppia Ficarra e Picone, e un cast ottimamente selezionato in tutti i ruoli. Servillo era invece mattatore indiscusso in quella satira politica, assai riuscita e sempre attuale rispetto alle vicende politiche italiane, che era il film Viva la libertà (2013), tratto dal suo romanzo, vincitore del Campiello, Il trono vuoto.
31Con Roberto  Andò, firmano la sceneggiatura Angelo Pasquini e Monica Zapelli.
32Sono i versi finali – qui in esergo – della poesia di Pasolini, Le ceneri di Gramsci, 1954, nella raccolta omonima, Garzanti, 1957.
33Sergio Di Giorgi, “Vibrate, immagini, vibrate!” in Giovanna Calvenzi, Letizia Battaglia. Sulle ferite dei suoi sogni, Bruno Mondadori, 2010.
34Ricordo che le avevo fatto vedere in DVD, e ne era rimasta molto colpita, il bellissimo documentario di Daniele Segre sulla Carmi Lisetta Carmi. Un’anima in cammino, 2010.