Denso di eventi e convegni, il 2023 ha celebrato i cento anni della nascita di uno degli scrittori italiani più conosciuti e studiati al mondo: Italo Calvino. Dal Neorealismo de Il sentiero dei nidi di ragno ai più sperimentali Se una notte d’inverno un viaggiatore o Il castello dei destini incrociati, l’opera di Calvino traccia, come spesso accade, non solo un itinerario creativo, ma anche uno esistenziale. Il centenario della nascita di Calvino ha, anche, permesso di far luce su un periodo della sua “avventura” biografica meno conosciuto, ma non meno fondativo, ovvero la sua permanenza a Parigi per tredici anni, dal 1967 al 1980. Questo vuoto è stato recentemente colmato dalla pubblicazione, nel 2023, del testo di Fabio Gambaro, giornalista culturale residente da oltre trent’anni in Francia, che, parafrasando il giudizio che del sanremese diede Cesare Pavese, ha per titolo Lo scoiattolo sulla Senna, l’avventura di Calvino a Parigi.
Per meglio comprendere le ragioni per le quali Calvino decise di trasferirsi in una Francia in piena ebollizione culturale e sociale e l’influenza che gli anni parigini hanno avuto sulla sua produzione letteraria, abbiamo incontrato l’autore Fabio Gambaro.
Marco Caccavo – Sappiamo che Calvino si è trasferito a Parigi inizialmente per ragioni sentimentali, essendo legato alla traduttrice Esther Judith Singer, soprannominata Chichita, incontrata nel 1962 e poi sposata a L’Avana. Ma ce ne sono altre più profonde che possono spiegare il suo bisogno di diventare “invisibile” a Parigi?
Fabio Gambaro – Senza dubbio, Calvino va a Parigi per le ragioni personali prima evocate, ma ci sono anche ragioni culturali legate al fatto che, nel corso degli anni Sessanta, malgrado le sue tante relazioni, si trova progressivamente isolato nello scacchiere culturale italiano. Effettivamente, in alcune interviste degli inizi degli anni Sessanta, Calvino dichiara di sentirsi solo, soprattutto dopo la morte del suo “fratello maggiore” Elio Vittorini. Di fatto, da una parte, non si riconosce più nella letteratura post resistenziale, legata al Partito Comunista, soprattutto in quella specifica nozione di impegno da lei portata. Dall’altra, anche se ne conosceva e frequentava i principali esponenti, non aderisce all’altra grande corrente letteraria dominante in quegli anni, quella Neoavanguardia che, pur praticando la sperimentazione cara a Calvino, giungeva a una distruzione del linguaggio, inaccettabile per quest’ultimo che giudicava imprescindibile la comunicabilità e il rapporto col lettore. Altro punto è quello legato all’invisibilità di cui dice di beneficiare nella capitale francese. La definirei meglio un bisogno di anonimato che in Italia non aveva più, soprattutto per le continue richieste di “presa di posizione”; domande che andavano in senso contrario alla filosofia del “signor Palomar”, che progressivamente Calvino stava adottando, non volendo più “dare fiato alle trombe”. Per il sanremese, l’anonimato, l’invisibilità, erano le condizioni esistenziali ideali per uno scrittore che lo portavano a essere giudicato per le proprie opere e non per il suo engagement o lato pubblico.
MC – Possiamo definire questa postura altra di Calvino una rottura radicale con l’idealtipo dell’intellettuale del ‘68?
FG – Calvino è molto critico rispetto alla cultura dell’impegno. Le relazioni complicate con Jean-Paul Sartre lo testimoniano, non si riconosce in questa tradizione e ne prende le distanze. Per lui, la letteratura è sempre militante, ma nel senso che deve militare per proporre uno sguardo critico. L’intento conoscitivo del mondo è sempre presente nelle sue opere, ma in un modo diverso. Per Calvino, la letteratura non deve proporre una trasformazone del mondo, come in Sartre, ma è una forma di conoscenza, un intento più pedagogico che politico. Come fa Palomar, l’autore deve comunicare una certa visione della realtà, mettendone a nudo le contraddizioni. Anche quando Calvino descrive mondi visionari, sta proponendo strumenti per indagare e svelare il mondo. È questa una nuova forma di letteratura impegnata? Per certi versi, sì, ma che non offre soluzioni, non dà un giudizio e una regola da quello derivante. Calvino rompe col vecchio approccio letterario dell’impegno dove la letteratura era al servizio della politica. Non propone soluzioni, ma interrogativi a cui il lettore deve dare eventuali risposte col proprio metro di giudizio. È un altro modo di immaginare il rapporto della letteratura con la realtà.
MC – Quale fu l’accoglienza di Calvino nel mondo letterario francese?
FG – L’accoglienza dello scrittore è stata progressiva. Possiamo indicare la traduzione de Se una notte d’inverno un viaggiatore, del 1981, come momento iniziale del successo nel mondo culturale e letterario francese. Ma, Calvino, fin dall’inizio della sua avventura parigina, si era legato ai principali rappresentanti dello Strutturalismo, a Barthes, che conosceva molto bene, a Foucault, Lacan, Derrida, Todorov e ai membri dell’Oulipo, grazie all’amicizia con Queneau. Soprattutto i membri dell’Oulipo ne hanno riconosciuto la grande statura intellettuale e considerato i romanzi come Le città invisibili, Se una notte d’inverno un viaggiatore e Il castello dei destini incrociati la diretta trasposizione degli ideali letterari del gruppo. A Parigi, Calvino era capito, poteva sperimentare liberamente senza temere stroncature o accuse di troppo cerebralismo.
MC – Accuse mosse, invece, da alcuni intellettuali italiani…
FG – Effettivamente, una parte della critica italiana gli rimproverava una letteratura troppo intellettuale, troppo formale, che non teneva conto delle esigenze di quel periodo in cui tutto era politica, soprattutto in Italia. Per esempio, Goffredo Fofi, rappresentante di quel mondo giovanile in rivolta, definisce quei romanzi una sorta di letteratura fredda che non dice nulla sul mondo. O pensiamo a Spinazzola che accusa Calvino di aver perso ogni prospettiva sociale. Altri, addirittura, lo accusarono di essersi cercato un esilio dorato a Parigi, per non sporcarsi le mani in una Italia nel pieno degli Anni di piombo. Insomma, una parte della critica italiana continuava a privilegiare il Calvino degli anni Cinquanta, quello de I nostri antenati.
MC – Nel 1980, Calvino decide di lasciare Parigi perché, dice lui, la sua situazione economica, legata alle continue svalutazioni della lira, inizia a essere preoccupante. In questo ritorno in Italia, c’è anche voglia di sperimentare nuovi approdi?
FG – Tra le cose che mi ha detto sua figlia Giovanna e quello che leggiamo nelle sue lettere, effettivamente il motivo economico ritorna più volte. Ma è anche vero che all’inizio degli anni Ottanta, Calvino è ormai uno scrittore celebre a livello internazionale. Dopo tredici anni a Parigi, ha voglia di tornare in Italia ed essere più presente nel dibattito culturale, come si evince dall’invito di Scalfari a scrivere su la Repubblica. Inoltre, c’è anche un elemento fondamentale che è il problema della lingua. Uno scrittore che scrive in italiano, ma che vive all’estero da molti anni, ha il bisogno di nutrire la propria lingua che rischia, se non di perdersi, di diventare più fragile. Questo Calvino non l’ha mai detto pubblicamente, ma forse aveva bisogno semplicemente di tornare nel proprio paese per parlare la lingua dei suoi libri e dei suoi lettori.