LA PAZIENZA SELVAGGIA DI ARIANNA SANESI

Da Una pazienza selvaggia, © Arianna Sanesi, courtesy Red Lab Gallery

Si dice che la pazienza sia una virtù, in realtà è una condizione. La condizione può essere uno spazio attraversato per scelta ma anche per necessità o per costrizione. Lo spazio della pazienza può essere infinito oppure avere un limite. La derivazione latina del termine – patiens -entis “paziente” – ci parla del suo stretto rapporto con la “sofferenza”, fisica ma anche spirituale, quella più profonda che ci sostiene anche quando il corpo non ce la fa più. La pazienza sopporta, dunque presume una disposizione d’animo.

Le immagini di Arianna Sanesi che fanno parte della mostra dal suggestivo titolo Una pazienza selvaggia, in mostra da oggi fino al 30 ottobre presso Red Lab Gallery, ci chiedono di essere guardate con lentezza, una misura che implica attimi di sofferenza – se riconduciamo tale sofferenza alla necessità di soffermarci dinanzi a esse a lungo – azione inusuale per l’individuo contemporaneo. Osservando con attenzione, non solo retinicamente, notiamo che nella sequenza iniziale un’immagine ci conduce verso un interno dove tutto pare essere scuro. È come insinuarsi nel buio subendo una sorta di richiamo che porta a un’altra dimensione, quella di un mondo misterioso, magico. Il buio non sempre fa paura. All’interno di questo mondo si possono fare incontri inaspettati, si possono trovare pezzi del nostro inconscio in attesa di una visita, pezzi del lato immaginativo. All’interno, se non si oppone resistenza, ci si può stupire della nostra stessa volontà di voler vedere.

Da Una pazienza selvaggia, © Arianna Sanesi, courtesy Red Lab Gallery

“Volevo vedere le stesse cose che aveva visto il lupo”, dice l’autrice in uno dei suoi passaggi attraverso questi luoghi. Il lupo [simbolo di un retaggio selvaggio ancora a noi vicino] non vive come l’uomo, non attacca se non ne ha una reale necessità, osserva da lontano, senza mostrarsi. Osservare senza mostrarsi, in qualche modo annullarsi, per permettere alla condizione di emergere e di poterla così vedere.

Se ci soffermiamo sulla sequenza finale un’altra immagine ci conduce verso un esterno e, là fuori, sembra esserci un vuoto, non c’è nulla se non una fonte luminosa: dunque il percorso attraverso l’interno porta al nulla? Perché allora fare così tanta fatica, perché perdersi nell’oscurità viscerale con tutto ciò che il percorso comporta [soffrire] per approdare al nulla? Che cosa è il nulla? Ogni parola, se presa nella sua dimensione pura, di nascita, ha sempre un significato diverso da quello che assume quando lo collochiamo all’interno di un contesto, un’altra serie di parole. Elaborare catene di parole significa comunicare. È il linguaggio, che l’uomo utilizza per relazionarsi in una comunità. Nella sua accezione primordiale però, ogni vocabolo ha il suo senso “preciso” e imprescindibile del quale dovremmo sempre ricordarci. Un senso filosofico. Ma torniamo alla nostra immagine. Dell’esterno ci colpisce la luce molto forte, accecante: è questa luce così forte a non permetterci di vedere cosa c’è oltre? Eppure, alla fine del percorso, siamo pronti ad uscire, ad affrontarlo quell’oltre. All’interno c’è il buio e all’esterno la luce. Ma non è così facile, c’è dell’altro. La luce non corrisponde al nulla [nulla – nessuna cosa]. O forse si?

Da Una pazienza selvaggia, © Arianna Sanesi, courtesy Red Lab Gallery

Soffermiamoci ancora un momento: sul significato di “nulla”. Comunemente nulla è un termine che viene utilizzato per indicare la “mancanza” o l’assenza di qualcosa di rilevante, di significativo. Ma, in questo caso, sarebbe molto più appropriato avvicinarsi al suo senso filosofico che induce a un uso vicino alla notificazione di assenze e mancanze, così come avviene per le presenze e ancora di più per le “presenze assenti”, come pratica contemplativa sulla quale si basa la nostra comprensione del mondo. Platone nel Sofista poneva il nulla come “non-essere dell’essere di qualcuno”, quindi come alterità di ciò che quel qualcuno è. Ecco dunque che il nulla è una trascendenza, una trasformazione o, potremmo anche dire, una rivelazione. La rivelazione ci dice che siamo “altro” da ciò che siamo o che ci affanniamo ad apparire. Il nulla si colloca in questo interstizio necessario che esiste tra l’essere e il non-essere, quando non sappiamo ancora qual è la dimensione che ci attende ma sappiamo che dobbiamo cercarla. Tale “fessura” può, naturalmente, avere “dimensioni” differenti per ognuno: ampiezza, durata, “visibilità” ma rimanere un tratto, ben identificato, enormemente ricco di presenza.

Nel lavoro di Arianna Sanesi qui presentato, la sequenza delle immagini viene proposta sotto forma di trittici. Il tre è un numero che suggerisce un “passaggio”: una trasformazione. Si parte da un punto, si staziona in un altro, per poi proseguire oltre. È altresì espressione di una rivelazione, come nella cristianità dove il Dio supremo si rivela attraverso l’uomo mediante l’azione dello Spirito Santo, trinità il cui significato è costantemente presente nella nostra cultura. Ogni gruppo di immagini dunque è percorso da un filo conduttore che diviene espressione del “passaggio”. Si entra e si esce incedendo in un flusso che a poco a poco ci trasforma, si parte e si arriva per poi ripartire ancora poiché fermarsi non è contemplato. Ma cosa è cambiato nel frattempo? C’è uno spostamento di registro. Nel tragitto si raccolgono schegge. Si tratta di quei frammenti “sparpagliati” durante il cammino che, come per incanto, si legano, coagulandosi: si mischiano fondendosi l’uno con l’altro.

Se la mente fosse semplice, se la mente fosse nuda
di tutto tranne che delle necessità più antiche… *

La voce del poeta incalza, proietta luce sul percorso, una luce intermittente. Piccoli fuochi luminosi nel buio ma sufficienti a mostrare. Non sempre il sentiero è rischiarato. Quali sono le “necessità più antiche”?

Così vivrei se potessi scegliere:
questo è ciò che è possibile.*

A cosa si riferisce il poeta con quel “possibile”? Tutto ciò che io posso fare per vivere? Oppure ciò che è possibile prescindendo da me? La condizione per poter vivere, pare dire il poeta, presuppone la consapevolezza del non poter scegliere e dell’accogliere la necessità di soffrire, con pazienza, per poter giungere alla rivelazione del sé.

Da Una pazienza selvaggia, © Arianna Sanesi, courtesy Red Lab Gallery

“A wild patience has taken me this far” è il titolo di una raccolta di poesie di Adrienne Rich, una delle maggiori poetesse americane contemporanee. Il verso appartiene alla poesia “Integrità”, cui Arianna Sanesi si è ispirata per questa raccolta di immagini e affronta il tema del tornare interi, con fatica, ma anche attraverso qualcosa che ci spinge a ricomporci [l’istinto selvaggio] dopo essersi sparpagliati durante il cammino.
La pazienza selvaggia è quella dell’Uomo che insiste nel cercare, contro tutto e tutti, il proprio centro, possibile soltanto attraverso l’accettazione della relazione con il naturale inteso come rapporto con la parte primordiale del sé. È quella degli animali che cacciano e degli uomini che li braccano generando l’impulso a sopravvivere, a mantenere la propria “integrità”. È quella della natura che si riprende il suo spazio o si lascia erodere, con pazienza, sapendo già come andrà a finire.
Dunque la pazienza selvaggia è una condizione necessaria per “ricostruirsi”, per accedere alla propria integrità e per poter incontrare l’anima. Ma quanto l’anima è parte di tale integrità?
È di fronte alla morte che meditiamo e approfondiamo noi stessi avvertendo l’anima. La morte non ha una accezione unicamente negativa, come l’uso comune occidentale vuole la si assimili. Essa possiede l’intimo accesso alla verità e la verità è che attraverso la morte, ogni essere vivente trascende in una dimensione altra, vive l’esperienza del passaggio dalla vita cosiddetta reale per entrare in un mondo che, in questa “realtà”, si è sempre cercato di ignorare. Il ciclo della vita con la sua naturale “conseguenza” della morte non fa più parte del flusso delle cose, esce dalla natura per entrare nell’artefatto della manipolazione umana. Il Mondo Supero non dialoga più con il Mondo Infero [che costituisce metaforicamente il profondo della psiche] se non attraverso il sonno che possiamo assimilare alla condizione della morte.
“L’anima desidera rimanere nell’Ade, perché lì trova soddisfazione”.1 E non è un caso che il dio del profondo possieda la conoscenza di “tutte le cose belle”, l’intelligenza archetipica mostrata nelle immagini dei sogni per vedere le quali dobbiamo cadere nel sonno. Sono infatti queste immagini, “idee visibili”, ad appagare il desiderio dell’anima: “Le immagini fanno bene all’anima! Sono il suo vero alimento”, scrive infatti il filosofo romantico tedesco Franz von Baader2.

Da Una pazienza selvaggia, © Arianna Sanesi, courtesy Red Lab Gallery

Gli animali tutto questo lo sanno istintivamente, perché, a differenza dell’uomo, non hanno “dimenticato” [o allontanato da sé] l’inevitabilità della morte, essi sono integri e nessuna loro scheggia è sparpagliata nel mondo. Hanno conservato la propria integrità che appare inevitabilmente selvaggia.

Ecco allora che le immagini di Arianna Sanesi ci aiutano in questo percorso tortuoso, segnalandoci brevi punti di approdo in cui fermarci a riflettere; ci invitano a considerare la possibilità di vivere la consapevolezza che la nostra corsa folle e senza scampo verso un altrove tanto aspirato quanto accuratamente evitato, conduce al Mondo Infero senza il quale l’esistenza non potrà mai ritrovare quelle schegge sparpagliate, imprescindibili per ricomporre l’integrità necessaria alla rivelazione ultima del sé.

Da Una pazienza selvaggia, © Arianna Sanesi, courtesy Red Lab Gallery
Note

*I versi citati appartengono alla lirica “Ciò che è possibile” di Adrienne Rich presente nella raccolta Una pazienza selvaggia mi ha portato sin qui, contenuta in “Cartografie del silenzio”, Crocetti Editore, (2020).

1James Hilmann, Il sogno e il mondo infero, Adelphi Edizioni, 2003.
2Franz von Baader, Taghebücher aus den Jahren 1786-1793, Leipzig, 1850.

Arianna Sanesi, fotografa italiana, vive e lavora a Parigi. Dopo la Laurea magistrale in Storia della Fotografia conseguito all’università di Bologna, ha frequentato CFP Bauer a Milano e lavorato per diverso tempo come assistente di Ferdinando Scianna. Nel 2013 frequenta il corso avanzato di narrazione visiva presso la Danish School of Media and Journalism di Aarhus (DK). Il progetto finale, Dispersal, diventa un libro riconosciuto a livello nazionale e internazionale. Nel 2015 riceve una borsa di studio dal Festival in Baie de Saint Brieuc per creare un progetto sui femminicidi in Italia, che verrà esposto durante il Festival.
Attualmente dedica tutto il suo tempo alla narrazione visiva, concentrando la sua attenzione su questioni sociali e culturali. Lavora su diversi progetti personali e, con l’artista Francesca Loprieno, sul progetto L’esprit de l’escalier, una piattaforma per progetti fotografici, pedagogici, editoriali.
Il sito di Arianna Sanesi

La mostra:
UNA PAZIENZA SELVAGGIA di Arianna Sanesi, a cura di Giovanna Gammarota
Red Lab Gallery, Milano. Info: www.redlabgallery.com
Dal 23 settembre al 30 ottobre 2021