Gruppo di famiglia in un esterno.
I membri si trovano in riva a un fiume, immersi nella luce chiara di una giornata estiva. Qualche nuvola punteggia il cielo azzurro sbiadito, oltre le colline aldilà della riva.
Il Campo Lungo che apre La zona d’interesse, quarto film da regista di Jonathan Glazer, potrebbe sembrare un dipinto impressionista, in bilico tra Pierre-Auguste Renoir e i Bagnanti ad Asnières di Georges Seurat. Una situazione placida, la scampagnata di una normale famiglia borghese. Poi, al termine della gita, il capannello rientra e s’inizia a intravedere un contesto diverso. L’elegante villa in cui vivono i personaggi (padre, madre e cinque figli – due maschi e due femmine di diverse età, più un neonato), circondata da un vasto giardino curatissimo – con tanto di piscina all’aperto – confina con un alto muro grigio che separa l’abitazione da una serie di edifici tutti identici, dei quali si scorgono solo i colmi dei tetti. I suoni tenui della campagna vengono sostituiti da rumori ovattati che provengono dall’altra parte della lunga parete divisoria: il Campo di Concentramento di Auschwitz. La famiglia rientra in casa, indifferente a quel misto di crepitio, vociare impastato di urla metalliche e lamenti: sottofondo a diverse gradazioni d’intensità, inframmezzato dallo stridio di qualche treno in arrivo e dall’eco di spari (indicatori di qualche esecuzione sommaria). Un tappeto sonoro costante, giorno e notte, ignorato ogni giorno e ogni notte dagli abitanti della villa; ossia, la famiglia di Rudolf Höss: Comandante del Campo dalla sua costruzione fino al 1944, con una breve sostituzione da parte di Arthur Liebehenschel nel 1943.
Il film di Glazer (tratto dall’omonimo romanzo di Martin Amis, pubblicato nel 2014) descrive la quotidianità di Höss e dei propri congiunti all’interno della cosiddetta “area d’interesse” (Interessengebiet). Il regista osserva con sguardo analitico la voluta cecità del nucleo famigliare, di fronte all’orrore che si consuma aldilà del muro che separa la loro “comfort zone” dall’Inferno sulla terra. Glazer registra le consuetudini della famiglia (e delle loro serve, freneticamente affaccendate, senza un attimo di sosta e in preda a un muto terrore), “sorprendendoli” tra le stanze e i corridoi dell’abitazione.
Il direttore della fotografia, Łukasz Żal, ha piazzato diverse telecamere nei vari ambienti della villa, allo scopo di ottenere un effetto da reality show – o “Grande Fratello” – in una casa nazista (edificio interamente ricostruito, dopo studi approfonditi sulla reale dimora in cui risiedevano gli Höss). A questo proposito, è emblematica la scena in cui Hedwig, la moglie del gerarca hitleriano (mirabilmente interpretata da Sandra Hüller, anche protagonista di Anatomia di una caduta), indossa con disinvolta vanità la pelliccia appartenuta a una donna deportata nel campo (persona anonima che, comunque, non potrà più riappropriarsi di quel capo d’abbigliamento).
Momento glaciale che esprime in forma sintetica la “temperatura” del film.
Il regista segue i propri personaggi all’interno e all’esterno della villa, spesso prediligendo campi lunghi, in modo tale da disseminare le inquadrature di dettagli – soprattutto oltre le mura della “zona” – portando così lo sguardo dello spettatore a palleggiare tra i vari punti di una prospettiva, nella quale domina un’ampia profondità di campo (per gli interni, per esempio, a volte sono state usate ottiche grandangolari, così da alterare la dimensione delle stanze).
Le riprese nel giardino sono state effettuate con luce naturale e tutto il film è stato girato interamente in digitale, al fine di evitare una sorta di effetto retrò (eventualità che si sarebbe posta girando in pellicola). Pertanto, gli esterni sono spesso contraddistinti da una tagliente luce diurna (bianca quasi come l’abito di Rudolf Höss, quando passeggia fino a bordo piscina).
Una dimensione straniante, consolidata dalla recitazione degli attori, all’insegna di una precisa sottrazione quasi bressoniana. In modo particolare la Hüller, col suo accenno di camminata claudicante, e Christian Friedel (che interpreta Höss), restituiscono perfettamente la relazione di una coppia abituata a comunicare col linguaggio di un telegramma, tramite il quale s’impartiscono istruzioni scrupolose (salvo qualche eccezione, come accenni di dolcezza prima di addormentarsi; chiaramente ciascuno nel proprio letto…). Anche in quella che dovrebbe essere la scena melò del film, ossia quando Rudolph comunica a Hedwig che dovranno lasciare il Campo, l’emotività di una coppia “normale” davanti a un problema, resta contenuta nei termini di un confronto che approda a malapena nel porto dell’intimità. Hedwig stessa mostra più attaccamento alla “zona d’interesse” che al marito, quasi fosse una creatura umana che lei ha allevato con lo stesso amore con cui si crescono i figli (in quel momento la “zona” diventa la “SUA zona”). Allo stesso tempo, l’unica forma di affetto manifesto che mostra Höss nel film, è nei confronti del proprio cavallo, in sella al quale ogni mattina si reca all’interno del Campo per eseguire, con abnegazione, il proprio “lavoro”.
Anche i figli, per proprietà transitiva, si muovono sulle oscure orme dei genitori, soprattutto i due maschi (il neonato serve unicamente come dimostrazione che l’amore materno può convivere con una malvagità pronta ad esplodere a sprazzi e, in questo caso, sempre rivolta alle povere domestiche). Quello più piccolo è ancora incolpevolmente concentrato sui propri giochi d’infanzia; il più grande, invece, è pronto ad abbandonare la propria “infanzia di un capo” (per citare l’omonimo film di Brady Corbett), per cominciare ad applicare la meccanica crudeltà paterna, usando come cavia l’ingenuo fratellino (scena in cui lo rinchiude a tradimento nella serra, sghignazzando sui suoi lamenti).
Il film procede tra dialoghi asciugati all’indispensabile, discorsi sui metodi di sterminio, come se si trattasse di strategie aziendali, e cenere che ogni tanto si “permette” insolentemente di oltrepassare il filo spinato che protegge la “zona”; giusto per ricordare ai protagonisti che esiste una realtà, oltre l’illusoria porzione di “Eden” fornita dal Reich.
La musica composta da Mica Levi si amalgama perfettamente al disturbo subliminale provocato dal sonoro d’ambiente, contribuendo a fare de La zona d’interesse, per paradosso, un’opera fuori dalla Storia, sospesa in una bolla aderente al fantastico. L’esempio, circa questa considerazione, lo forniscono le scene girate in negativo (sembrando quasi a infrarossi) della ragazzina polacca che dissemina clandestinamente frutti per i prigionieri, mentre il Voice Over di Höss – come un orco inconsapevole di esserlo – legge ai propri figli la favola di Hänsel e Gretel. Il personaggio di questa fanciulla “da fiaba”, in aderenza alla sua rappresentazione in controtipo, è una sorta di Pollicino al contrario che, invece di cancellare le proprie orme, ne dissemina moltitudini fino a raggiungere la (forse) salvifica porta di casa.
La zona d’interesse fa da contrappunto al silenzio evocato da Ombre e nebbia di Alain Resnais, dando per assodata la rigorosa ricostruzione storica di Shoah di Claude Lanzmann, e bypassando il realismo spettacolarizzato di Schindler’s List.
Sostanzialmente, Glazer trasporta lo spettatore in una dimensione a sé stante.
Tant’è che nel film vi è anche spazio per una sorta di metempsicosi (credenza secondo la quale dopo la morte l’anima trasmigra da un corpo a un altro, fino al punto di svincolarsi dalla materia).
Spesso si dice che le pareti delle abitazioni assorbano lo “spirito” di coloro che le hanno abitate. Su questo argomento la narrazione, non soltanto letteraria, annovera un ampio repertorio: da Henry James, passando da Edward Hopper, fino a Stanley Kubrick e oltre.
In Shining, ad esempio, il protagonista Jack Torrance vede nelle ampie e – teoricamente deserte – stanze dell’Overlook Hotel, inquietanti manifestazioni di un passato che, sempre ipoteticamente, non ha mai vissuto. La stessa cosa accade a suo figlio Danny, nei labirintici corridoi dello stesso edificio, mentre scorazza col proprio triciclo: l’apparizione di due piccole gemelle alla fine di un androne e pioggia di sangue che esonda dalle porte di un ascensore. Ondate oniriche di un passato che impregna i muri dell’hotel, invadendo il presente (del film) e anticipando un terrificante futuro prossimo ad avverarsi. Si tratta di fantasmi che si materializzano e smaterializzano al contempo; fino a lasciare una traccia indelebile della loro concretezza “storica” in una foto datata 1921, nella quale vi è impresso proprio Jack Torrance, in osservanza a una tetra legge del contrappasso che condanna l’uomo indipendentemente dalle colpe, o responsabilità, che ha avuto “nelle proprie vite”.
Volendo scomodare il Giansenismo, l’essere umano nasce inevitabilmente destinato a commettere il male e soltanto alcuni individui sono predestinati alla salvezza, almeno secondo l’imperscrutabile volere divino (sul quale, naturalmente, non si ha diritto d’interrogatorio).
Ne La zona d’interesse, Rudolf Höss scende le scale di un deserto e silenzioso palazzo del Reich hitleriano. Dopo un conato di vomito (che non produce nessuna materia organica) ha una sorta di visione: un piccolo foro luminoso al centro di una rettangolare cornice buia (la “zona d’interesse” dell’inquadratatura) che appare come la cosiddetta “luce in fondo al tunnel”. Nel giro di pochi istanti si spalanca una porta, rivelando la realtà del futuro: diverse donne delle pulizie iniziano a lustrare stanze e oggetti di quello che oggi è diventato Auschwitz: il più rappresentativo museo dell’Olocausto causato dal Nazifascismo. Alle spalle di costoro, oltre le vetrate del museo, si ergono cumuli di scarpe e oggetti appartenuti ai deportati uccisi; fotografie delle persone che hanno vissuto gli ultimi giorni della loro esistenza in quel luogo, riempiono le pareti degli stretti corridoi. Sono i fantasmi di una Storia che, agli occhi di Rudolf Höss, si sta compiendo.
Quel piccolo foro luminoso, inciso in un riquadro nero che si splanca sul futuro, rappresenta la sua metempsicosi.
E, al contempo, il suicidio dell’umanità.
Ancora in corso di esecuzione.