L’America di Wim Wenders

Western World Development Near Four Corners (California), 1986 © Wim Wenders

Il West non voleva essere conquistato
e ha resistito ostinatamente a quasi ogni tentativo di civilizzazione.
Wim Wenders

Gli americani hanno da poco votato il loro prossimo presidente, il risultato lo conosciamo tutti: ha vinto Trump, l’ultimo difensore, forse, di una frontiera che non vuole essere conquistata. La frontiera, nell’immaginario occidentale, sono gli Stati Uniti tutti, ma in particolare il West, che con i suoi paesaggi umani riverbera nel celebre film di Wim Wenders, Paris Texas, tornato di recente nei cinema, fresco di restauro. Ma non è del film che qui vogliamo parlare, seppure si tratti di una pellicola iconica per l’immaginario visivo di chi l’America l’ha vista solo in celluloide, bensì dell’America che Wenders ha fotografato con sguardo ammirato, e ipotizzeremo il perché.

Una scena di Paris Texas , 1984, con Nastassja Kinski e Harry Dean Stanton

Il West non voleva essere conquistato. Nelle immagini di Wenders lo testimoniano quei cartelli che ancora recano l’indicazione Western World Development Tract 8271, e che delimitano lo spazio vicino Four Corners (California) in cui sarebbe dovuta sorgere una città mai edificata. Cartelli nel nulla divenuti simbolo di un mondo che da sempre pervade l’immaginario di noi europei così come le immagini delle cittadine assolate e statiche, con le loro case apparentemente vuote, le loro strade deserte, le vite silenziose degli uomini che le abitano. Butte, nel Montana, ne è un esempio. Un paese di minatori che nel secolo scorso poteva essere considerato alla stregua di una cittadina piuttosto grande a ovest del Mississippi e che all’inizio del nuovo secolo, dopo l’abbandono delle miniere e i problemi causati dall’inquinamento nel terreno e nelle acque dai metalli estratti, diviene una enorme città fantasma, un contenitore vuoto «metafora dell’abbandono», come lo stesso Wenders la definisce.

Blue Range, Butte (Montana), 2000, © Wim Wenders

Ed è proprio in questa staticità vuota e abbandonata che l’autore rivive la propria storia. Wim Wenders trova in questo paesaggio tracce di sé, della desolazione che ha attraversato vivendo nel proprio Paese, tracce che si manifestano sotto sembianze totalmente differenti ma che contengono una forza evocativa dirompente, la stessa che confluirà poi nei suoi lungometraggi lì ambientati.
Allo stesso modo questi squarci statici sono un omaggio dichiarato al pittore contemporaneo americano per antonomasia, ispiratore di molte generazioni di altri pittori nonché di fotografi e cineasti: Edward Hopper. Wenders ne riproduce le inquadrature in una sorta di vortice quadro-fotografia-film che sembra pervadere totalmente il senso di questi luoghi elevandoli a emblema di un mondo i cui confini tentano ancora di apparire come inconquistabili.
La donna affacciata alla finestra nella foto intitolata Woman in the window ricalca perfettamente i dipinti hopperiani così come le immagini Night Hawks Setting o Street Front in Butte ripresa, quest’ultima, nelle prime ore del mattino: «Era come stare dentro il mio quadro preferito di Edward Hopper: Domenica mattina presto, del 1930», racconta il regista. La memoria di Wenders, e con la sua quella di molti di noi, va ai nomi che leggevamo sull’atlante, quei nomi della frontiera all’ovest che assumevano contorni magici, significati paradisiaci di luoghi espressi solo nella mente e nel sogno.

Street Front in Butte, Montana, 2000, © Wim Wenders
Edward Hopper, Early Sunday morning, 1930
Woman in the Window, 1999, Los Angeles (California), © Wim Wenders
Edward Hopper, House at dusk, 1935

Wyeth Landscape, Montana, è di nuovo un omaggio a un altro pittore simbolo del Novecento americano, Andrew Wyeth, un artista che nell’era in cui il figurativo veniva offuscato dall’espressionismo astratto di artisti come Pollock, utilizzava tecniche antiche come l’acquerello a secco e la tempera all’uovo che aveva studiato nei dipinti di Dürer o di Michelangelo. In poche parole, aveva fegato! Il fegato di mostrare quanto quella terra fosse in armonia con l’uomo e quanto i luoghi potessero ancora rivestire quel ruolo di libera frontiera dove tutto è possibile, il luogo in cui il sogno americano appare nella sua forma ancora pura e attraversabile. Il fotografo qui come il pittore nella riproduzione originale, ha reso il luogo al di fuori del tempo.

Wyeth Landscape, 2000, Montana, © Wim Wenders
Andrew Wyeth, Christina’s World, 1948

«L’atto del fotografare – afferma Wenders – innalza il luogo e le sue storie in un’eternità, in cui la sua stessa condizione temporale può essere ingrandita, studiata e testimoniata per sempre. Così l’immagine fotografica fa entrambe le cose: disvela l’eternità e al tempo stesso la rende obsoleta. […] In ognuna di queste immagini avvertiamo la natura del tempo, l’essenza della mortalità e dell’immortalità».
Forse è questo lo spirito che aleggia anche sulle immagini dal titolo New York, November 8 – 2001 che il regista tedesco ha scattato sul bordo di Ground Zero. Nessun riferimento all’accaduto, solo un luogo e una data. Poiché tali immagini appartengono contestualmente all’idea di fine come a quella di rinascita, in qualche modo sembrano raccontarci la nostra storia, quella dell’uomo che passa inevitabilmente attraverso la distruzione di se stesso per poter ricominciare: l’uomo collassa e il suo mondo con lui. Le immagini ancora fumanti di Ground Zero, che nelle esposizioni sono state riprodotte in dimensioni enormi tanto da rivestire intere pareti, ne sono la testimonianza eclatante. Wenders ha ritratto le macerie di un mondo che gli appartiene e conosce molto bene perché è quello interiore, visioni che non documentano bensì mostrano la devastazione già nell’atto di essere ripulita, ricostruita. Si guardano queste immagini come guarderemmo un incendio che ha devastato la nostra casa (qualcosa di molto intimo), come se osservassimo la distruzione non perché rappresenta la fine ma il punto di partenza per ricominciare di nuovo.

New York, November 8, 2001, © Wim Wenders
New York, November 8, 2001, dettaglio, © Wim Wenders

Queste fotografie, infatti, non mostrano un senso di perdita: è come se si fosse dovuto abbattere per guardare all’interno, l’atto terroristico lo ha messo a nudo, ed è emblematico che a farci vedere questo sia un europeo. Altri hanno prodotto immagini eroiche o spettacolari di quegli eventi mostrando l’accadere. Wenders va al centro, scopre il cuore che poi è quello della propria memoria, la memoria della distruzione della Germania durante il secondo conflitto mondiale, dove si giunse ad annientare tutto ciò che stava intorno, conquiste comprese, per permettere agli uomini di osservarsi e ricominciare. Il cratere creato dal crollo delle Torri Gemelle ha fatto affiorare un paesaggio desolato che ci riporta all’origine. Ciò che lì era edificato non c’è più e la terra è tornata ad essere nuda come all’inizio dei tempi, quando si osservava l’orizzonte ad ovest e a est e non c’era nulla se non terra. Qui quel West che non voleva essere conquistato è venuto a fare visita al corpo della città distrutta. In silenzio si è sporto sulle ferite mortali che le hanno inferto, ma quello che avrebbe potuto essere il momento di una reale rinascita del mondo occidentale, il punto di partenza verso una visione nuova, di pace, non c’è stato.
La guerra continua.
In conclusione le fotografie “americane” (così come i film) di Wenders permettono di affacciarsi sull’ampio e sconfinato territorio dell’America ed è un po’ come se questi desolati luoghi trovassero un loro accoglimento all’interno della nostra immaginazione, come se il loro fosse un tornare “a casa” affettuoso, abbracciati da quel vecchio continente dal quale partirono i colonizzatori delle nuove terre, al di là del mare.