Da sempre l’immagine fotografica è percepita come racconto. Si affida allo sguardo del fotografo l’onere di ritrarre la realtà, di rappresentarla per ciò che appare. Ma sappiamo ormai che la realtà è manipolata e manipolabile, anche dallo sguardo stesso dell’autore che decide di ritrarla. Ed è anche risaputo che all’interno dell’immagine confluiscono tutta una serie di concetti, pensieri, sentimenti (intesi come sentire), scaturenti dal vissuto di ogni individuo come della collettività, da non permettere più all’occhio di chi guarda di osservare la realtà vera, bensì sempre e solo una sua interpretazione. Tale interpretazione narra necessariamente una storia diversa da un individuo all’altro, magari anche solo per una sfumatura, che si riflette perpetuamente all’esterno e che ognuno reinterpreta, ancora una volta.
L’immagine fotografica reca in sé qualcosa di insano, strettamente legato al concetto del mostrare. Attraverso il soggetto ritratto, la sua posa, la sua collocazione nell’area fotografata l’osservatore giunge a una “conclusione” più o meno mutuata dalla propria conoscenza. Ciò che l’immagine mostra diventa la realtà, la sua realtà. Tutto questo è chiaramente uno spazio – prima di tutto mentale.
I luoghi sono spazi, le persone li attraversano e ne fanno parte al contempo. Lo spazio dunque “contiene” e in quanto tale può senz’altro essere considerato, metaforicamente, una architettura. Inoltre esso può essere al tempo stesso pubblico e privato, appartiene a chi lo attraversa come a chi vi dimora abitualmente. Le architetture di cui parla Jitka Hanzlová nella sua ultima mostra antologica – tratta da serie diverse e presentata in una recente mostra appena conclusasi presso la galleria di Raffaella Cortese a Milano – non sono però “costruzioni”, se si esclude la cornice entro la quale necessariamente la visione fotografica deve esistere, sono “architetture di vita” (Architecures of life). Ai bordi l’immagine non si ferma, prosegue invece lasciando immaginare una possibile vastità altra, invisibile ai nostri occhi, ma che c’è.
Gli individui ritratti da Hanzlová guardano nell’obiettivo della fotografa come fossero sorpresi dell’intrusione in quello che evidentemente sentono come il “loro” spazio, assumono pertanto una posa composta, un’espressione seria pur mantenendo la naturalezza data proprio dal luogo – il loro luogo – in cui lo scatto li ha colti.
Io abito qui – sembrano dire – in questo spazio che è casa anche se non è costruito, uno spazio che corrisponde al mondo, che è di tutti ed è anche mio. Si coglie dunque, nelle immagini di Jitka Hanzlová, tutta l’intimità della permanenza come la leggerezza del passaggio.
Ciò è ancora più significativo se pensiamo che i luoghi della vita sono per l’autrice un prezioso ritrovamento dal momento che la sua esperienza personale l’ha portata ad essere esule, nei primi anni Ottanta e fino alla caduta del muro di Berlino, dal suo Paese, la Repubblica Ceca, che all’epoca si chiamava ancora Cecoslovacchia ed era governata da un regime comunista.
I luoghi che l’artista ci mostra, sia che includano o escludano la presenza umana, non rappresentano quindi un semplice paesaggio, vivono la condizione stessa dell’uomo che non è un elemento “aggiunto” ma “appartenente”. Questo aspetto è di enorme rilevanza poiché l’Uomo, inteso come specie, non dovrebbe essere considerato estraneo al luogo bensì parte integrante. Per luogo qui intendiamo prima di tutto quello naturale al quale Hanzlová si riferisce costantemente. Succede così che gli spazi da lei fotografati diventino essi stessi dei ritratti. Questo fa assumere ai luoghi un’identità che diviene “anche” identità dell’Uomo e viceversa.
Tutto nelle immagini di questa fotografa fa arrendere lo sguardo ad una inevitabilità dell’essere qui e ora, impellente ma al contempo sicuro nella forza del proprio radicamento. Il colore che nei ritratti della serie Rokytník (1990–1994) – sua zona d’origine – o della serie Famale (1997-2000) presi in esterni, appare molto naturale, come se una luce soffusa li ammantasse. Nelle opere tratte dalla serie Forest (2004), viceversa, in cui la presenza umana è assente, diventa ombra trasmettendo tutto il mistero del “mondo naturale” che lascia intuire la densità del segreto che alberga il luogo, un segreto impossibile da penetrare, che si può soltanto immaginare ma che resta inconosciuto. Queste serie non sono però distanti tra loro, parlano tutte della condizione di appartenenza. Se infatti nelle prime due tutto è visibile, lo si può intuire dall’espressione dei volti dalla luce che circonda i corpi, la naturalezza dell’essere; nella terza tutto è invisibile e occorre fare uno sforzo di attenzione per cogliere il mondo che essa cela. Si tratta di due risvolti complementari che rappresentano i due lati conviventi e inseparabili esistenti in ciascuna entità “vivente”. La naturalezza – che non significa semplicemente natura – appare nella veste “oscura”, inconscia, affascinante e al tempo stesso pericolosa, come in quella “luminosa”, visibile, che solo apparentemente non nasconde nulla. In entrambi i casi, per assurdo, i ruoli possono essere scambiati. Ci si può sentire più sicuri nella zona oscura e meno in quella luminosa.
Forma, intuizione, contenuto. Questi i tre elementi che, per Jitka Hanzlová devono coesistere in ogni immagine, la loro compresenza fa sì che questa diventi unica e dunque degna di entrare nel lavoro. “Nessuna cosa esiste da sola” dice l’autrice in una conversazione con il critico svizzero Urs Stahel. Ciò che intende riguarda appunto la compresenza degli elementi come condizione imprescindibile perché l’immagine abbia senso come del resto anche la vita. La vita non è soltanto formale o intuitiva o ancora carica esclusivamente di contenuto, attraverso la commistione di questi elementi che creano il contesto, si produce un’armonia, un suono che, a differenza dell’immagine, non appartiene all’uomo ma all’Universo, esiste perché ogni cosa è al suo posto.
Le immagini che non raccontano la storia – dice ancora la fotografa – finiscono nel letamaio, lei le chiama “gherkin”, cetriolo (ortaggio che nel linguaggio di certe tradizioni popolari viene associato a individui sciocchi e con poco cervello, raffigurando l’inutilità dell’esistere). Le immagini cetriolo non raccontano la “loro” storia e dunque non servono a se stesse e tanto meno a una serie.
In tal senso possiamo interpretare l’affermazione di Urs Stahel “Un solo pero non fa una foresta – oppure sì?” Il quesito è dirimente e assolutamente pertinente nel caso di Hanzlová poiché l’esperienza del suo guardare tende ad essere, allo stesso tempo, privata e collettiva, ogni sua immagine può esistere in solitudine come nella totalità, è una questione di percezione dell’uno e dell’altro aspetto: essi posso essere apparentemente percepiti come distinti ma altrettanto come saldamente uniti.
Analogamente importante per la narrazione è la dimensione delle immagini – sempre piuttosto contenuta – il colore della parete che fa loro da sfondo, anche questo racconta la storia che, nel caso di questa autrice, è necessariamente intima. Intimo è il rapporto con l’elemento raffigurato come per i cavalli della serie Horse (2007-2014) con i quali Jitka sembra parlare una lingua privata quando ascolta il suono del loro ventre. Qui gli occhi dell’osservatore sono quasi a contatto con l’animale del quale viene mostrata una parte del corpo: avvicinandosi ad esse ci si avvicina al cavallo, se ne sente l’odore, si nota la lunghezza del suo pelo, si ascolta il suono del suo stomaco.
Possono immagini di serie diverse coesistere armoniosamente in un’unica esposizione? Non è facile ma può accadere proprio se ciascuna di esse esiste in modo indipendente. È un controsenso? Niente affatto. Nella linea retta che forma la sequenza appare un flusso che incede, da una immagine all’altra, “come se l’autrice stesse scrivendo le parole di una frase su un muro” (Urs Sthael). Ogni parola, se presa singolarmente, ha un suo significato, esiste a se stessa, messa accanto a un’altra e a un’altra ancora forma un flusso di parole, così come una nota posta accanto a un’altra forma un flusso di suoni: ogni singolo alimenta l’intero modificando il significato che ciascuno possiede, creando nuovi significati. In questo modo le visioni dialogano tra loro, accompagnando l’osservatore nel guardare, imponendo il silenzio e l’ascolto.
Infine il colore celeste della parete sulla quale il flusso cammina, scelto dall’autrice per la mostra milanese, contribuisce a rendere visivo il senso dello scorrere, imprime il ritmo al tempo come fosse acqua che trascina, placidamente, trasportando anche lo spettatore. E proprio Water (2013-2019) è il titolo di una delle ultime serie realizzata a Jitka Hanzlová dove l’autrice pare sugellare in modo definitivo quel ritorno a se stessa quando, nel 1990, poté finalmente rientrare nella sua Patria, nei suoi luoghi, nella sua casa.
“Il tempo è come l’acqua, e l’acqua è fredda e profonda come la coscienza” scrive il poeta islandese Stein Steinarr, (Time and Water, 1948). Corsi e ricorsi segnano le trasformazioni, l’acqua elemento primordiale, appare dunque nel percorso di questa autrice come principio di congiunzione tra il passato e il presente, rappresenta lo svolgersi del tempo mettendo in connessione una visione dopo l’altra, dando forma a ciò che chiamiamo vita.
Jitka Hanzlová (Náchod 1958), vive e lavora a Essen, in Germania. Profondamente segnata dalla sua esperienza di esilio che all’inizio degli anni Ottanta la porta a lasciare il suo Paese, ritorna dopo la Rivoluzione di velluto del 1989. Da questo momento in poi, Hanzlová sviluppa il proprio linguaggio visivo con uno sguardo istintivo concentrato sulla messa in discussione di identità e appartenenza.
Le sue immagini sono state esposte in numerose mostre personali e collettive e ha pubblicato diverse monografie tra le quali ricordiamo Rokytník (1997), Female (2000), Forest (2005), Hier (2013), Horse (2015).
Il sito dell’artista: Jitka Hanzlová