«Amo l’industria. Le tubature. Amo i fluidi e il fumo.
Amo le cose create dall’uomo. Mi piace vedere le persone al lavoro
e mi piace vedere fanghi e rifiuti creati dall’uomo»
David Lynch
Torniamo a parlare di David Lynch, recentemente scomparso, attraverso un’altra delle sue grandi passioni, forse la meno conosciuta, la fotografia, che nella sua vita artistica si è espressa prevalentemente attraverso “ritratti di fabbriche dismesse”. Anche se le suggestioni che evocano alcune di queste immagini – come quella pubblicata in apertura – non si sottraggono al cinema. Le ciminiere inglesi fotografate nel 1980 da Lynch ricordano infatti quelle di Deserto rosso di Antonioni ambientato nella Ravenna industriale del 1964 e in qualche modo ne riprendono l’angosciante mutismo.
Deserto rosso, regia di Michelangelo Antonioni, 1964
Ma Lynch non mostra mai per gettare nell’angoscia lo spettatore, semmai lo fa per illuminare la via per uscire dall’oscurità. Dice infatti:
«Il nero ha profondità. È come un piccolo anfratto: lo imbocchi ed è buio e continua ad esserlo anche andando avanti. Ma è proprio per questo che la nostra capacità percettiva si fa più acuta e a poco a poco gran parte di ciò che avviene lì dentro diviene manifesto. E cominci a vedere ciò che ti spaventa. Cominci a vedere ciò che ami, ed è come sognare».
Questo concetto così ben espresso non riguarda semplicemente la capacità di sviluppare la percezione umana all’interno di una situazione oscura, comprende innumerevoli altri aspetti legati all’idea di avvicinarsi a qualcosa di estremamente profondo e costantemente eluso dalla maggioranza delle persone. Comprende l’atto di addentrarsi in una materia che non conosciamo a fondo e che ci appare ammantata proprio di quel mistero che deve ancora essere scoperto malgrado se ne sia in qualche modo già consapevoli. Il territorio è impervio ma oltremodo affascinante e la paura, man mano che la percezione aumenta, cede il passo alla curiosità. Del resto questa è l’unica possibilità per sconfiggerla, quella che crea il coraggio di proseguire e quindi di arrivare a “scoprire”.

Con The Factory Photographs – una serie di oltre 100 immagini che ritraggono luoghi e edifici industriali scattate tra il 1980 e il 2000 nelle fabbriche di Berlino, in Polonia, in Inghilterra, nella città di New York, nel New Jersey e a Los Angeles – Lynch conduce ancora una volta un’esplorazione nelle zone oscure e “abbandonate” che assume carattere di indagine sull’inconscio (collettivo) poiché, al di là della sua personale e specifica fascinazione per il contesto del lavoro umano e per i fluidi, i fanghi, i rifiuti da esso prodotti, la sostanza rimane sempre la stessa: quella di osservare ogni cosa oltre il filtro edulcorato della normalità.
Le fabbriche abbandonate che vediamo in queste immagini hanno una caratteristica potente, si stagliano come forme sinistre che nella loro monumentalità assumono una duplice valenza: incutono timore e provocano fascino, quella fascinazione tipica di ciò che attrae e al tempo stesso respinge. Tra i diversi piani di interpretazione che si manifestano all’osservatore vi è la relazione tra il dentro e il fuori che in qualche modo replica una condizione psichica: dentro sé e al di fuori di sé. Il contenuto è buio, intimo, prelude a ciò che teniamo nascosto. Il fuori è ciò che osserviamo attraverso questa interiorità. Si potrebbe dire che Lynch mediante le sue immagini cerchi di rappresentare l’uomo e la sua essenza. E cosa sono gli ambienti che l’uomo ha costruito se non il riflesso di ciò che egli è? Lynch dialoga costantemente con il subconscio trattando la mente come un altro sé, mostrando continuamente il desiderio di immergersi in una realtà popolata di elementi invisibili, ma al tempo stesso presenti.
Come organi interni al corpo umano, in queste immagini i particolari affiorano dal buio rivelando la materia dell’esistenza. La loro osservazione, condotta per mezzo dell’acuirsi della percezione, conduce la mente verso uno stato di liberazione raggiunto il quale ogni cosa è immaginabile. Così una pellicola sovrapposta a un vetro bagnato mostra segni che possono essere assimilabili ad antichi geroglifici come a moderne serie di codici cibernetici, il passato e il futuro si fondono, sta all’osservatore stabilire dove si trova in quel momento, i segni rappresentano “informazioni” che permettono alle reti dei rispettivi sistemi di comunicare. Segni e particolari diventano simboli attraverso i quali passa l’interpretazione soggettiva dell’immagine perché ogni fruitore possa trarre la propria. Le uniche indicazioni che l’autore fornisce sono un luogo e una data.

Ed è Lynch stesso a parlare del “profondo” come di quel mare che nasconde i pesci grossi, la metafora che amava utilizzare quando raccontava dove dimora “l’idea” creativa. La superficie inietta vaghi spazi di luce che parlano di un fuori lontano, dentro invece vi è la densità vischiosa dell’essere. Le immagini di fabbriche scattate a Berlino e a Ƚódź tra il 1999 e il 2000 appaiono cupe e dense quasi impersonassero una reminiscenza del passato politico di questi luoghi mentre diventano subito più aperte e inquietanti quando ritraggono le fabbriche abbandonate nei territori di New York e del New Jersey, facendoci immediatamente collegare questi ultimi all’immaginario cinematografico appartenente alla poetica del regista statunitense. Non è un caso infatti, a mio avviso, che le fotografie americane siano scattate essenzialmente in esterni come se quel territorio non potesse avere un proprio interno e fosse tutto proiettato verso l’esterno. Viceversa le fabbriche tedesche (europee) mostrano chiaramente luci e ombre, testimoniano un vissuto storico pesante che quelle americane non possiedono.


I luoghi ritratti nel New Jersey e a Los Angeles mostrano tutto il loro squallore, un pastoso senso di devastazione li attraversa trasportandoli verso una fine che appare “infinita”. Come per il suo primo lungometraggio, Eraserhead, il cui spazio Lynch definisce “interluogo”, anche queste fotografie sono «un recesso angusto, nascosto, sporco, dimenticato», ma al tempo stesso custodiscono segreti, sono rassicuranti, “mai banali”.


Sequenza del paesaggio industriale in Eraserhead, 1977
Il mondo che l’artista ci mostra è dunque così profondo da farci paura, è una vertigine. David Lynch lo pone davanti ai nostri occhi senza smussature, tuttavia tra i suoi intenti svetta quello di farci capire quanto in realtà sia affascinante e come questo aspetto non sia per nulla scontato. Ma la fabbrica è anche luogo creativo, Lynch dice di amare i suoi fumi, il fuoco, quei macchinari giganteschi che producono, che hanno a che fare con il metallo fuso. In queste officine si crea e per l’artista tutto questo è straordinario, potente. Il mondo creativo è intuitivo e per questo dunque non può che risiedere nel profondo dove tutto è liquido, senza alcuna forma, pronto per essere forgiato.

Tuttavia la direzione in cui si sviluppa la visione di queste immagini appare spesso verticale quasi a voler indicare un vertice assoluto, tensivo verso il quale si è condotti. Così il “fotogramma” prende vita trasformandosi in animazione come nel corto Industrial Soundscape (2002), in cui la ripetitività della scena produce un suono tipico da fucina dove vengono forgiati metalli pesanti. Continuando a osservare e ascoltare man mano sempre più particolari diventano nitidi: il primo piano sembra trasformarsi in un altare sacrificale e sul fondo sono visibili tre pali conficcati nel terreno come fossero croci in cima al Golgota, rivelando tutta la loro sofferenza quasi da girone infernale, ma che al contempo produce un fascino morboso.

In un altro video, The Bug Crawls, quella che sembra essere una casa posta al centro della scena appare come un nucleo ben protetto dai mostri esterni che tentano di penetrarla, ma un’improvvisa apertura sul fronte rivela un’attività interna pulsante e altrettanto inquietante e i mostri tenuti accuratamente all’esterno godono paradossalmente di una protezione inaspettata e il loro manifestarsi è indifferente al “lavoro” che si svolge all’interno.

Luce e ombra, profondità e superficie, due facce in contrasto che ogni individuo possiede e che possono indifferentemente svelare. Come la scala di pietra nel video Intervalometer: Steps diviene visibile grazie all’avanzare dell’ombra che invade la luce dandole profondità, così ogni forma emerge dal profondo man mano che avanziamo nell’oscurità riuscendo a vedere ciò che fino a un attimo prima non vedevamo. Questo approdo ci rassicura poiché, inaspettatamente, scopriamo che luce e ombra sono in realtà la stessa cosa.

Frame da Intervalometer: Steps, regia di David Lynch, 2004