L’estetica dell’abbandono e il canto della memoria in Morena Campani tra Visconti e Antonioni

Fotogramma da E trema ancora , 2023, regia di Morena Campani

Morena Campani, ravennate di nascita e parigina d’adozione, col suo film Tutto bianco, vincitore dell’Étoile de la Scam1, e il suo ultimo lavoro, E trema ancora, omaggio a Luchino Visconti, tratta e approfondisce alcune tematiche come quella dell’estetica dell’abbandono, dell’incomunicabilità, e della nostra responsabilità nei confronti del patrimonio. L’abbiamo incontrata.

Marco CaccavoNei tuoi film, appare evidente l’approccio architetturale ovvero un’evocazione dello spazio che diventa contesto e soggetto del tuo fare cinema. L’architettura di un luogo può essere impulso di creazioni più eteree e meno fisiche?

Morena Campani – Effettivamente nel mio fare cinema tutte le ispirazioni provengono dallo spazio, dai luoghi e da quello che evocano. Per me, lo spazio e l’architettura, in particolare, oltre ad essere la mia prima formazione e il mio primo lavoro, è una sorta di corazza che protegge e struttura. E l’architettura compenetra le altre discipline perché tutte le arti sono collegate tra loro e si corrispondono. Antonioni, per esempio, a cui è consacrato il mio film Tutto bianco, si iscrisse ad architettura e nei suoi film questa disciplina è onnipresente, quasi in maniera ossessiva, come lo è il suo sguardo da urbanista e la sua cura per la prospettiva.

Trailer del film Tutto bianco, 2015, regia di Morena Campani, voce narrante di Fanny Ardant
Nebbia nella pianura padana, fotogramma dal film Tutto Bianco , 2015, regia di Morena Campani

M.C. – Quindi quando filmi l’oggetto architettonico, per esempio la villa protagonista del tuo film omaggio a Visconti, La Colombaia, lo intendi come corazza atemporale o simulacro dell’abbandono a imperitura memoria?

Mor.C. – Partendo dai luoghi abbandonati, in questo caso la villa di Visconti a Ischia, volevo far sentire la memoria del luogo e attraverso questo evocare il senso di colpevolezza che questi edifici ci trasmettono, facendoci sentire responsabili del loro abbandono. La mia è una provocazione resa possibile dall’architettura perché i luoghi, quando dimenticati, sono più espliciti di un essere umano, parlano, urlano… Questo emozionarsi per l’abbandono, e la sua conseguente consapevolezza, dovrebbero toccare il nostro senso di responsabilità e smuovere il nostro dovere di salvare quei luoghi. Nella mia vita professionale, ho sempre preferito il restauro al costruire perché il primo ha un valore aggiunto: c’è la nozione del risanare, riparare, del far rivivere il vissuto e la memoria che implica la nozione di responsabilità.

M.C. – L’idea di responsabilità nei confronti del patrimonio abbandonato era presente già nel tuo primo film…

Mor.C. – Stai parlando dei fotogrammi dedicati alla centrale elettrica di Porto Corsini, location de Il deserto rosso di Antonioni. Immagina che di quella centrale, costruita nel 1958 su un progetto di Ignazio Gardella, avevo l’idea di farne un “Museo della luce”, progetto poi non accettato, ma con l’Ordine degli architetti della provincia di Ravenna siamo riusciti a non farla demolire in ragione del suo valore culturale. Tuttavia, non è stata distrutta, ma giace senza destinazione d’uso accanto a quella nuova e funzionante, disegnata da Michele De Lucchi.

Centrale SADE, Porto Corsini, 1998. Foto di Gian Luca Liverani
Caldaia Centrale SADE, Porto Corsini, 1998. Foto Gian Luca Liverani

M.C. – In questo caso un abbandono presente che al tempo stesso  è assenza.

Mor.C. – Se è vero che il cinema è la successione di ventiquattro, venticinque, immagini al secondo è anche vero che è possibile cogliere la ventiseiesima che non c’è. Il cinema, infatti, tenta di rappresentare questa presenza con l’assenza. Bisogna solo stabilire cosa accompagna la rappresentazione di quest’ultima. Tutto bianco è un film sulla nebbia, è lei la protagonista che esprime l’assenza, l’abbandono, che accompagna il vuoto. Questa nebbia che però non è mai angosciante perché il cielo in Pianura padana è sempre bianco e la nebbia è luminosa, quasi sacra, “numinosa”, dal latino numen, divino. Penso che lo sceneggiatore Tonino Guerra, con cui ho lavorato in progetti d’architettura, sia stato colui che maggiormente abbia dato valore alla nebbia. Infatti, la ritroviamo nei film Il deserto rosso di Antonioni, Amarcord di Fellini, Nostalghia di Tarkovskij e in Lo sguardo di Ulisse di Angelopoulos e tutti questi film hanno in comune l’aver avuto Tonino Guerra come sceneggiatore!

M.C. – La nebbia quindi come espressione dell’impalpabile, del vuoto, del non dicibile?

Mor.C. – In Tutto bianco, la nebbia si sostituisce alla comunicazione, tacendola e annunciando l’annullamento del dialogo, la morte della relazione e l’installazione della comunicazione come tabù. Tematiche già sviluppate da Antonioni che filma la traccia di quello che è stato perché le vite dei suoi protagonisti sono vuote, morte, statiche e inerti, nevrotiche.

Fotogramma del film Tutto bianco , 2015, regia di Morena Campani

M.C. – Quindi la nevrosi di Giuliana, protagonista de Il deserto rosso, è dovuta all’impossibilità di palpare la nebbia, al suo non colore, all’impossibilità di “avere tutto”?

Mor.C. – Ma Giuliana la nebbia la possiede… dice questa nebbia mi confonde, si confonde con essa, non la domina, è vero, ma lei è nebbia. E questo possederla permette di attraversarla e quindi di vedere meglio, con più profondità.

M.C. – Come intendi questo attraversamento, è una condizione esistenziale da cui venir fuori o qualcosa di irrinunciabile come l’intrinseca incomunicabilità tra esseri umani?

Mor.C. – La nebbia è qualcosa da attraversare, con cui bisogna fare i conti come l’accettazione dell’incomunicabilità. Direi quasi un passaggio necessario. Personalmente, ho avuto bisogno di vedere prima tutto bianco, come se ci fosse solo nebbia, con immagini sovraesposte, talmente luminose da bruciare, che poi mi hanno permesso di veder meglio. Come Giuliana che vede i colori in un altro modo grazie alla nebbia, grazie al cielo padano perennemente bianco.

Non si penetrano i fatti con il reportage! 1964. Quaderno di lavoro per il film Tutto Bianco, 2010-2015
Luchino alla Colombaia, fotogramma dal film E trema ancora , 2023, regia di Morena Campani

M.C. – I tuoi due film, Tutto bianco e E trema ancora, sono rispettivamente un omaggio a Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti. Tuttavia, in entrambi i film, introduci elementi della tua biografia. Perché?    

Mor.C. – La definirei una sorta di  cinema-terapia. Infatti, questo bisogno di parlare di me mi ha spinto a lasciare il mestiere di architetto perché il progettare edifici non mi permetteva l’espressione. Dovevo occuparmi del far vivere meglio gli altri, non me. Così, a poco a poco mi sono chiesta cosa questi registi potevano condividere col mio vissuto. In Antonioni ho ritrovato la già citata nebbia, la stessa terra d’origine, un parallelo tra Giuliana e mia madre depressa, mio padre che lavorava al porto e l’arrivo delle industrie a Ravenna che ha portato i miei genitori ad emigrare dalle campagne verso la città. In Visconti, invece, il suo espatrio, il suo, certo, più aristocratico rispetto al mio, in Francia. Come si sa, Visconti arriva oltralpe in un momento in cui mentre in Italia c’è il fascismo a Parigi ci sono le pièce di Cocteau, i film russi, Jean Renoir, una effervescenza intellettuale e artistica che gli permise di aprirsi a un nuovo e superiore livello creativo. Anche per me Parigi è stata la possibilità di intraprendere un nuovo cammino professionale e un modo di approfondire, con la giusta distanza, le mie vicende personali e di vederle meglio.

E trema ancora, l’autre voix de Luchino Visconti, 2023, regia di Morena Campani. Teaser
Saline di Cervia, Morena Campani sopralluoghi 2010

M.C. – A differenza del primo dove la nebbia era protagonista e contesto, il film su Visconti da subito appare molto luminoso.

Mor.C. –  Effettivamente lo è e la ragione è quella di aver voluto mettere in piena luce il sentimento di abbandono. La Colombaia e l’isola di Ischia mi hanno permesso di ripercorrere il cammino di Visconti verso un progressivo avvicinarsi alla Bellezza, al suo elogio, alla sua rivelazione. E al suo culmine, nel pieno del Bello è arrivato l’Abbandono, l’Assenza. La villa di Visconti era in stato di abbandono, dimenticata. Del bello ricercato rimaneva solo la memoria, il suono che dà vita all’assenza e che ho cercato di restaurare, di riportare alla vita. L’assenza è diventata musica, elaborata da Joséphine Lazzarino, che ha interpretato e reinventato Le spectre de la rose di Berlioz in un pezzo finale che ho ribattezzato Requiem per una società corrotta perché rappresenta l’assenza e l’abbandono che può sorgere in società, istituzioni, famiglia, persone.

Villa Colombaia, Morena Campani sopralluoghi, 2018

M.C. – Architettura, nebbia, presenza e abbandono che poi diventa impalpabile ed eterea come musica. Un processo verso la resa dell’immateriale?

Mor.C. – L’UNESCO parlerebbe di passaggio du tangible à l’intangible ovvero da quello che vedo a quello che voglio recuperare e trasmettere, come la memoria. Alla fine, si tratta di adottare l’oscurità come linguaggio per toccare l’ombra di quello che non c’è più, la sua eco. Come le ombre della casa di Ischia di Visconti, ombre che sono diventata assenza ed essenza del luogo.

M.C. – Per percepire l’essenza dell’abbandono, la sua presenza… “cosa devo guardare”?

Mor.C. – Bisogna guardare quel ventiseiesimo fotogramma, quello che non è montato con gli altri, ma che si può percepire perché il regista ha voluto dargli presenza senza dirlo o mostrarlo.

Morena Campani sopralluoghi, 2010

M.C. – E questo ci riporta al tema dell’incomunicabilità…

Mor.C. – Assolutamente. Con l’altro, col partner, con la società, le istituzioni, la famiglia,  l’incomunicabilità è sempre presente, è una sorta di elaborazione di un lutto esistenziale collettivo.

M.C. – …e dell’abbandono.

Mor.C. – L’abbandono però utile, responsabile, quello che smuove il sentimento di colpevolezza per l’aver abbandonato qualcosa o qualcuno. Per me era importante parlare di qualcosa di abbandonato in Italia, mio paese d’origine, qualcosa che doveva essere restaurato, ma che io, in quanto italiana, ho lasciato. E qui ritroviamo l’estetica di Visconti, grandeur et décadence, la bellezza dell’abbandonato dove le ombre sono vive e suggeriscono altri mondi al di là del visibile e provocano dolore nello spettatore. Come se il nostro sguardo sull’abbandono ci guardasse a sua volta per mostrarci immobili e impotenti in attesa forse della morte.

M.C. – L’assenza e l’abbandono ci scrutano per chiederci di ridare senso al guardato in vista di un’azione che sia per quello ritorno alla vita attiva o per, al contrario, chiudergli definitivamente gli occhi santuarizzando quel luogo?  

Mor.C. – Questo dipende da noi, in effetti questo abbandono ci permette di dare un volto al passare del tempo, alla morte come condizione esistenziale e a come vogliamo vivere il nostro lutto fondativo.

M.C. – Questo mi fa pensare ai nostri tempi dove la morte è il nuovo tabù, come lo è la dimensione temporale che ci fonda ontologicamente e che oggi viene sostituita da un eterno presente. Conseguenza di questa nuova filosofia della gioia è che la nozione stessa di abbandono ci mette in difficoltà, ci fa balbettare. Si dovrebbe diventare nebbia per fare esistere il reale.

Mor.C. – Esattamente. Anzi giustamente fare esistere la morte e la prospettiva temporale sarebbe un interessarsi reale alla condizione dell’abbandono che sostanzierebbe così  la possibilità del restauro come riparazione e canto di memoria.

 

NOTE

1  Riconoscimento per le migliori opere premiate da La Scam, Société civile des auteurs multimédia, Parigi.