Come mi capita spesso di scrivere, non amo collocare i lavori degli artisti e dei fotografi all’interno delle gabbie degli “ismi”, delle definizioni più o meno coercitive.
Mentre mi preparavo alla scrittura del testo sul lavoro di Nello e Gianmarco Taietti e guardavo i loro lavori su Lula, non ho potuto che trovare conferma di quanto appena affermato. I lavori di entrambi, spaziano in diverse direzioni di possibile lettura, che vanno dal ritratto in posa, e non, alla Street photography, alla ricerca di matrice antropologica. Certo è che non si tratta di meri lavori di documentazione. Entrambi si pongono su un livello differente con una volontà di conoscenza, di approfondimento di un territorio complesso come quello del piccolo paese barbaricino. Un luogo ricco di tradizioni folcloriche, con una storia di miniere, quelle di Sos Enathos, S’Arghentaria e Guzzurra1.
La mostra di cui si parla nel catalogo in cui questo testo è contenuto, propone in un unico contesto i lavori dei due fotografi. Le immagini sono allestite una accanto all’altra, senza divisioni di sorta fra gli autori, padre e figlio. Qui invece la scelta è quella di analizzarli separatamente.
La Sardegna è una terra assai particolare, una realtà unica rispetto al resto del territorio italiano, con importanti riferimenti storici e culturali che affondano le loro radici nelle civiltà nuragiche della piena età del bronzo. Nel corso degli anni, il lombardo Nello, si è innamorato di quell’isola selvaggia, dignitosa e forte, che troppo spesso viene identificata con le spiagge alla moda della Costa Smeralda, con la notorietà dei locali, con le ville dei miliardari. Si è innamorato della natura, della gente dell’isola. Il tentativo, attraverso le foto, pubblicate nel libro ed esposte nello Spazio Matalon, è quello di presentare un mondo che è diventato, per alcuni versi, il suo e che è entrato a fare parte del suo immaginario iconografico.
Ci introduce nel territorio un cartello stradale, Luvula, è la traduzione in sardo di Lula. Forse qualcuno ha sparato su quel cartello, ci sono tracce di fori, ma non è questa la sede di analisi. Ci sono parecchi fori. Pallottole? Forse. Ma non è quello il punto.
Taietti ci mostra la gente, che non è stata messa semplicemente in posa. Ogni immagine è l’esito di un dialogo, di un rapporto di conoscenza con quelle persone che si consegnano con la loro riservata fiducia a chi li sta riprendendo. Nessuno scatto rubato. Non è quello lo scopo. Ci sono parecchi vecchi che si mostrano con la serietà di chi non è aduso alle pose sguaiate dei social, dei selfie, che sono diventati testimonianza di esistenza. Qui non c’è bisogno di tutto questo. Sono altre storie. Quanta eleganza nell’anziana signora con la semplice e leggera camicia grigia e la lunga gonna nera. Il tempo con lei è come sospeso. Il suo mostrarsi è un dono per chi guarda. E quindi una serie di ritratti come fototessere formato 1:1. Anche con loro Nello ha parlato, si è fatto raccontare prima di fotografarli.
Nessuna aggressione visiva. I volti sono sereni.
Una vecchia signora sta seduta su una panca di pietra che sporge da un muro. Alle sue spalle un murales con il ritratto di Lenin: «A volte la storia ha bisogno di una sosta».
Ci troviamo in un paese in cui l’impegno politico è intrinseco alle storie degli abitanti. Nell’aprile del 1899 il paese sardo è stato teatro di uno dei primi scioperi dei minatori con la società mineraria Jacob. Taietti vuole entrare nel tessuto di quel territorio, vuole conoscerne le usanze, quelle che trovano un’origine nella notte dei tempi e quelle religiose, vuole instaurare un rapporto con la gente.
Una delle rare immagini a colori rappresenta una cappellina dedicata a San Francesco, con ceri votivi e rosari appesi. Sono la testimonianza di grazie ricevute? Anche attraverso questi oggetti si ricostruiscono le microstorie della gente del paese che si pongono di volta in volta in relazione con la macrostoria.
Una donna è intenta a friggere delle frittelline. La sua attenzione è tutta rivolta alla grande teglia, ci troviamo di fronte a quel mondo di tradizioni femminili alle quali era tornata Maria Lai, la nota artista di Ulassai, quando aveva abbandonato la Capitale per tornare nella sua terra natia.
È il mondo delle donne, con le sue storie, le sue tradizioni, le sue straordinarie capacità, un mondo privo di retorica che sta alla base della costruzione sociale. Ci sono le mani di chi ha lavorato una vita, le pelli consumate dal sole.
In alcune foto scorgiamo anche una certa ironia: una tavolata di allegri commensali ha alle spalle il muro pubblico sul quale sono affissi i manifesti con i necrologi. La gente mangia, beve, chiacchiera. Si lasciano la morte alle spalle, la vita continua.
Taietti ha una certa preferenza a ritrarre persone anziane, anche molto anziane, come la signora che parla accanto al camino del suo salotto. È una sorta di trittico in cui l’autore si avvicina sempre più al soggetto, che non pare particolarmente toccato dalla presenza del fotografo.
Tra i personaggi più interessanti una vecchia signora in piedi in un locale che parrebbe una sagrestia. La signora, tutta vestita di nero, longilinea, seria ma bonaria, è un personaggio di straordinaria eleganza. Nello le si avvicina, ne riprende il volto solcato dalle profonde rughe, il sorriso è accennato ma evidente: tra la donna e il fotografo si è creato un rapporto di fiducia. I suoi occhi neri e profondi, come quelli di molti sardi, brillano. Gli orecchini di corallo danno all’insieme una nota di colore.
In alcune immagini le persone sono riprese con i costumi locali. C’è chi suona la fisarmonica, chi balla, come in tutte le terre del mondo. Il particolare diviene universale. Chiude la serie delle sue immagini il ritratto di una vecchia signora, i cui occhi sono cerchiati dal segno della vecchiaia, il suo volto è trascurato: con la peluria vana e i punti neri sul naso. Nello Taietti non ha fatto nulla per nasconderlo. È come una prova, una testimonianza di vita. Tutto questo ha un’importanza relativa.
Gianmarco è un grande viaggiatore. Il suo approccio alla fotografia, con la quale si confronta sin da ragazzo, influenzato dalla passione paterna, è, tuttavia, diverso da quello del padre. I suoi lavori in bianco e nero sono molto più legati ai tempi del reportage, anche se non mancano i ritratti in posa.
Se Nello ha istintivamente bisogno di dialogare con i suoi personaggi, per Gianmarco la faccenda è un po’ diversa, è fatta di sguardi, di osservazione, come nelle immagini sull’uomo con il maglione a collo alto che fuma.
Anche qui non mancano i ritratti, anche se sono più ambientati, collocati nella casa e nel territorio. Una donna prepara la sfoglia per fare il pane, in quello che sta facendo c’è passione e partecipazione: i suoi occhi lo rivelano.
Le immagini di entrambi non sono sottomesse al tempo storico nel quale sono state realizzate, c’è in tutte una sorta di sospensione del tempo, determinata dalle situazioni stesse in cui le immagini sono state scattate.
Non mi sento di definire quello di Gianmarco Taietti un lavoro di natura sociale, antropologica. Se pensiamo in tal senso a operazioni come quella realizzata a cavallo tra i Sessanta e i Settanta da Lisetta Carmi, ispirata dai resoconti della maestra elementare, Maria Giacobbe, pubblicati su Il Mondo. In quel lavoro si sottolinea la povertà di Orgosolo con un chiaro riferimento alla situazione storica e politica del tempo. La critica è evidente.
Nelle immagini di Carmi ci sono ambienti casalinghi, luoghi di culto, feste tradizionali, spazi di lavoro, che riescono a trovare spazio anche nelle foto di Gianmarco, pur se con diversa accezione.
Quasi cento anni fa arriva in Sardegna, in compagnia dello scrittore Ludwig Mathar, August Sander: è il 1927. È stato uno dei più importanti e intensi fotografi del XX secolo che con le sue ricerche ha segnato definitivamente il corso della storia della fotografia.
La finalità del viaggio dello scrittore tedesco è quella di raccogliere informazioni in vista della scrittura del volume Sardegna, un’isola sconosciuta, che non è mai stato pubblicato.
Sander rimane colpito da quella civiltà millenaria tutta da scoprire, antitetica al suo mondo tedesco e realizza circa 300 fotografie con territori, persone. Pur senza avere studiato approfonditamente quel lavoro, Taietti si pone alla scoperta dei luoghi, delle situazioni.
Ne esce un’intensa indagine umana realizzata in un momento, il nostro, che pare essere molto lontano da quello che vediamo a Lula. Pare impossibile, ma solo una delle persone presenti nelle immagini sta facendo uso del cellulare. È un mondo diverso. La nostra è una vita fatta di followers, like, di selfie privi di senso e di social, di tanti, di troppi social.
Nello e Gianmarco Taietti
Incontri a Lula – Adzovios a Luvula
Fondazione Luciana Matalon, Milano
26 marzo – 23 aprile 2022
Qui il rapporto è ancora fra le persone. E si badi bene, nelle mie parole non c’è alcuna retorica di matrice buonista. Un lavoro nostalgico il suo? Non direi, piuttosto oggettivo, teso a raccontare dei mondi che forse, fra qualche tempo, non esisteranno più. Taietti registra, ma non interpreta. Alcune persone anziane sembrano presidiare le porte delle loro case, guardinghe ma sorridenti. Mi colpiscono i neri intensi di quegli abiti atemporali, in cui le donne tengono il più delle volte il capo coperto.
Due anziane signore, anch’esse vestite di nero, sono in una sorta di sala d’attesa. Una è seduta l’altra in piedi, il luogo è spoglio ma presenta interessanti dettagli: una scultura lignea, una cornice, un arazzo. Le due donne hanno le caviglie gonfie. Taietti ha utilizzato un nero potente, che crea degli evidenti contrasti. Un nero che sottolinea le forme, i tessuti. Ci troviamo come di fronte ad antichi panneggi moroniani, in cui il nero su nero esalta la tridimensionalità dei fenomeni. E non credo che la citazione artistica sia voluta. In un’altra, un gruppo di giovani con i jeans stanno affacciati a un belvedere del paese. È vero il soggetto è moderno, ma la posizione è ancora assai tradizionale: maschi da una parte, femmine dall’altra.
Una giovane donna in costume tradizionale è seduta sull’uscio, ha uno sguardo ammiccante. È la gioia della vita, di un luogo in cui l’uomo ha ancora un rapporto intenso con la natura, con gli animali, con l’altro da sé che, dovremmo capire, è elemento imprescindibile dell’esistenza.
NOTE
1Oggi le tre miniere sono inserite nei percorsi del Parco Geominerario della Sardegna.
2Carmi va in Sardegna per la prima volta nel 1962 e vi si reca sino al 1976. Le zone che più percorre sono Barbagia, nord Sardegna e Gallura.
1Oggi le tre miniere sono inserite nei percorsi del Parco Geominerario della Sardegna.
2Carmi va in Sardegna per la prima volta nel 1962 e vi si reca sino al 1976. Le zone che più percorre sono Barbagia, nord Sardegna e Gallura.