Per entrare alla mostra di Mario Giacomelli presso la galleria Gilda Lavia di Roma, bisogna scostare una pesante tenda nera. Forse è per questo che, entrando nella grande sala, si ha l’impressione di stare in un luogo separato da tutto ciò che accade all’esterno. Le pareti sono totalmente bianche. Le foto vengono accostate fra loro senza nessun ordine apparente. Non si legge alcuna didascalia, nemmeno i titoli delle sue serie più celebri: Vita d’ospizio, Un uomo, una donna, un amore, Io non ho mani che mi accarezzino il volto, La buona terra, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Motivo suggerito dal taglio dell’albero. Chi cammina nella stanza non ha alcun riferimento cronologico o tematico. Lo spettatore è disorientato, deve porsi davanti alle immagini del fotografo senza strumenti per interpretare ciò che sta osservando. Sembra quasi un gioco. O meglio: i segni, le tracce, le forme che evoca ciascuna fotografia, e ciò che queste immagini sembrano dirsi fra loro, sono come le parole di un discorso, una sorta di sussurro, che dalla parete passa allo spettatore. Non conta più sapere cosa si sta guardando, ma ciò che queste immagini richiamano: emozioni, ricordi, sentimenti. Le fotografie sono come dei passaggi, segnano il varco che dalla realtà del fotografo conduce a quella di chi sta osservando. La terra è lacerata, i volti sono segnati da solchi profondi, il contrasto tra il bianco e il nero evoca l’alternarsi della luce e del buio, della vita e della morte. La solitudine, l’abbandono, la paura sono il volto scuro dell’incessante desiderio di scattare, di vivere, di amare, ma anche del timore dei giorni che passano. Il “Tempo di vivere” è fatto da questo groviglio. Ogni immagine riporta a una contraddizione, un conflitto, una ferita e alla possibilità di rimarginarsi attraverso la fotografia. Le fotografie sono il filo che ricuce ciò che il tempo lacera. “Man mano che si vive”, diceva Giacomelli, “si fa esperienza della propria morte”.
S.M. “Ti sembra corretto quello che ho scritto?”, chiedo a Katiuscia Biondi, nipote del fotografo e curatrice della mostra e del suo archivio. Lei risponde subito. Inizia con una frase che mi pare riassuma perfettamente il pensiero di Giacomelli.
K.B. Non stava mai nel contingente, ma in un mondo poetico, il contingente lo trasformava in simbolico. Lo faceva ininterrottamente.
S.M. Non dico nulla. Lascio che prosegua…
K.B. Non ho mai conosciuto Mario Giacomelli come nonno. Nel senso che era un poeta, un individuo strano anche in casa propria, nella sua quotidianità. Riduceva tutto a un infinito rituale che non dava spazio alla contingenza. Ci poneva nella situazione di giocare, ognuno di noi recitava una parte e lui era il regista. Noi eravamo gli attori di questo teatro della vita, una rappresentazione in cui dava un grande valore alle piccole cose.
S.M. Raccontaci…
K.B. È difficile adesso dire tutto. Mi vengono in mente un mucchio di cose, ripeteva sempre gli stessi rituali. Ci incontravamo, e per ognuno di noi aveva una canzoncina che cantava quando ci incrociava nei corridoi della casa. A me, che sono sempre stata pallida, cantava Signorinella pallida, una canzone degli anni Trenta. Chissà per quale motivo era tutto sempre uguale… Quando ci vedeva aveva dei regali, ninnoli che vendeva nella Tipografia marchigiana. Lui non si presentava mai senza questi doni. Ogni volta che li offriva diceva: “Così non vi dimenticate di me”.
S.M. Perché lo faceva?
K.B. Secondo noi usava questo rituale per rimanere nella nostra memoria. E per quanto mi riguarda sono rimasta incastrata…
S.M. Mi pare molto umano quello che dici… Questa mostra è singolare. Quando sono arrivata alla galleria c’era buio e non trovavo la porta. Credevo di avere sbagliato l’indirizzo. “Chissà perché c’è questa tenda nera”, pensavo. E poi mi sono trovata in uno spazio tutto bianco…
K.B. Ho voluto ricreare un’atmosfera intima, ma anche di sorpresa. Un po’ come nelle fotografie di Giacomelli, dove è sempre presente l’elemento della X e del cerchio, un segno che lui ripropone di continuo. Con questo allestimento ho voluto riprendere quel cerchio, perché dietro la tenda ci si trova in una bolla, un cerchio, la bolla della sua interiorità.
S.M. Si capisce che c’è molta attenzione. Ti preoccupi di essere estremamente rispettosa del suo lavoro.
K.B. Sì, è vero… Anche se sono consapevole che ogni selezione è arbitraria, nel senso che non è stato Giacomelli a scegliere le foto. Ma è anche vero che il mio intento è quello di non tradirlo, proprio perché non è più vivente. Da più di dieci anni cerco di entrare nel suo mondo attraverso lo studio di tutti i suoi documenti, la visione delle immagini, la comprensione del contesto creativo. Quindi i suoi scritti, le lettere e anche gli appunti che prendeva casualmente sono molto importanti, proprio perché mi permettono di pensare ogni volta a delle mostre libri, che rappresentino il suo modo di intendere la fotografia.
S.M. Raccontaci di questa mostra.
K.B. Una cosa che salta subito all’occhio è il fatto che non ci sia un ordine cronologico e di serie. Credo sia il modo più convincente per presentare Giacomelli, a meno che non si tratti di una serie di tantissime foto come quella che c’è stata a Palazzo delle Esposizioni nel 2001. E quindi, visto che oggi è molto difficile riuscire ad organizzare mostre così grandi, un’installazione composta da poche foto con un ordine e una divisione in serie, sarebbe un dispetto ai propositi di Giacomelli, verrebbe meno l’idea del racconto fotografico. Ho deciso di mischiare le serie tra loro proprio per evidenziare il senso di unità e coerenza all’interno della sua produzione. Ci sono delle fotografie degli anni Cinquanta e degli anni Novanta che sembrano contemporanee. La potenza del suo stile è alla base del suo pensiero, la fotografia è memoria e rappresentazione della propria interiorità.
S.M. Cosa ci dici del titolo: “Il tempo di vivere”?
K.B. Può avere diverse letture. Per Giacomelli il tempo di vivere era quello in cui sentirsi vivo attraverso le sue foto, che sono sempre dei pezzi di sé, come specchi in cui vedere riflessa la propria interiorità. In questo senso è importante anche l’insegnamento di Cavalli, che è stato suo maestro: la fotografia intesa come incontro con il reale, ma sempre tenendo presente che questo incontro avviene attraverso il filtro del proprio sguardo.
S.M. Katiuscia si interrompe per un momento. E poi riprende, quasi incredula.
K.B. Mi hanno detto che c’è anche chi si è commosso di fronte a questa mostra. È molto bello, perché non è così scontato vedere persone che si sentono coinvolte emotivamente di fronte ad una fotografia. E questo è merito di Giacomelli. Io non so come faceva… Si possono fare tutti i discorsi che vuoi sulla tecnica, ma c’è davvero qualcosa di magico. Lui stesso diceva che c’era della magia e si meravigliava di fronte a quello che veniva fuori dalle sue opere di alchimista, anche perché poi ci lavorava così tanto in camera oscura…
S.M. Tu l’hai visto lavorare?
K.B. Purtroppo no… Posso dire queste cose in base agli studi fatti sui negativi. Ti rendi conto di come lo stesso scatto risulti completamente diverso, perché ci lavorava così tanto che veniva fuori un’altra cosa. Anche i soggetti sono irriconoscibili…
S.M. È molto interessante quello che racconti. Dicci qualcosa in più su questo aspetto.
K.B. C’è una storia particolare da raccontare. Si tratta della serie intitolata Caroline Branson, come la poesia tratta dall’Antologia di Spoon River, dove due amanti decidono di suicidarsi per tenere sempre vivo il loro amore, per non farlo cadere nella routine. Giacomelli scatta le foto ispirate al poema di Edgar Lee Masters nel 1967. I due protagonisti delle foto erano fidanzati, ma ora non stanno più insieme. Pur essendosi lasciati, mi raccontavano che proprio a causa di queste fotografie, oggi vivono il ricordo della loro storia d’amore come qualcosa di mitologico, rimasto lì in quelle immagini, come ti dicevo, al di là della contingenza. Nel ‘71 Giacomelli riprende quelle foto, ne fa delle sovrimpressioni, fonde due negativi per creare un’atmosfera di sogno. La parola nel poema è fantasmatica e quindi lo deve essere anche l’immagine, qualcosa che si avvicina al sogno, che non si può cogliere e possedere del tutto.
S.M. Secondo te accade anche al paesaggio?
K.B. Credo di sì. Anche nel caso dei paesaggi, dopo aver visto le sue opere, non si riesce più a vedere le colline marchigiane senza il filtro delle sue fotografie… Il paesaggio diventa il risvolto reale delle sue immagini. È come se continuassimo a guardare con i suoi occhi e attraverso il suo sguardo…
S.M. C’è un aneddoto molto interessante anche sulla serie dedicata al pittore Walter Bastari, un artista di Senigallia amico di Giacomelli. Ce lo racconti?
K.B. Sì! Il pittore Bastari non è classificabile come “normale”, d’altronde è un artista. Sembra quasi una cosa assurda che Giacomelli intitoli la serie Vita del pittore Bastari, perché non c’entra assolutamente niente con la vita del pittore. E questo è significativo del fatto che a lui importasse poco della documentazione del contingente. In questa serie il pittore è un alter ego del fotografo. È come se Bastari avesse prestato il suo corpo per fare da attore dentro una scenografia che Giacomelli creava puntigliosamente. Bisogna anche dire che nella maturità diventa sempre più minuzioso nel ricreare le scene da fotografare, tanto da impiegare ore e ore prima dello scatto. Per le sedute con Bastari (siamo nel 1992), si era portato diverse cianfrusaglie, come i capelli di bambola che gli aveva messo davanti alla fronte, come una parrucca, vesti, lenzuola, ecc. Usava di tutto per le sue foto, per ricreare la scena da fotografare, tutti elementi del suo vissuto quotidiano personale. Un mondo di memoria.
S.M. Usava materiali e oggetti “poveri”?
K.B. Sì, non gli importava se non erano perfetti. Anzi più erano di scarto e più funzionava, era affascinato dalla bellezza della povertà… Era affascinato dall’immagine sporca, e non quella educatamente patinata, lui usava anche il negativo scaduto a volte, per dare più vissuto all’immagine.
S.M. Mi sembra un aspetto davvero interessante. Spiegaci meglio.
K.B. Si collega alla visione dell’arte povera. La materia è qualcosa di vivido perché rappresenta l’essenza depurata da tutte le sovrastrutture. E questo spiega la vicinanza con Burri e l’informale. Oltre al fatto che c’erano di mezzo le sue origini umili e contadine. E quindi si trattava di un recupero della memoria… Il punto è che la materia per lui è carne, viva. E così ce la restituisce: un’immagine che fuoriesce direttamente dalle sue viscere. Come i suoi Paesaggi… Sono sempre corpo. Tutto è corpo.
S.M. Torniamo al pittore Bastari…
K.B. Giacomelli regalava sempre ai suoi soggetti fotografici alcuni provini come ringraziamento per aver partecipato a un progetto fotografico, e così fece anche con il pittore. Ma nel caso di Bastari e della moglie accade qualcosa di strano. Lei si arrabbia non riconoscendo il marito e strappa i provini! Non è stata a pensare che erano foto di Giacomelli. Le ha guardate, è rimasta traumatizzata dal fatto che suo marito non fosse riconoscibile e le ha stracciate. Questa reazione può sembrare folle, ma è significativa. Le foto di Giacomelli sono forti, non ti lasciano mai indifferente… a volte sono uno schiaffo, altre una carezza.
S.M. Vorrei farti una domanda sugli aspetti tecnici della sua opera. Sappiamo che Giacomelli aveva una sua tipografia in cui lavorava sin da ragazzino. Il tipografo sceglie i caratteri, decide gli spazi, l’intensità del nero o il vuoto del bianco. Deve avere il dominio sugli strumenti che usa e nulla può essere lasciato al caso. Cosa ne pensi?
K.B. Lui non voleva mai parlare di tecnica, e per togliersi di mezzo quel tipo di domande, diceva sempre che era avvenuto tutto per caso. Ma la realtà era che aveva una enorme conoscenza tecnica, data anche dalla sua attività di tipografo e dagli insegnamenti severi di Cavalli. Ci lavorava così tanto in camera oscura, che se non fosse stato padrone della tecnica, gli acidi avrebbero portato via tutto, perché aspettava sino all’istante prima che tutto venisse cancellato, prima di togliere via la carta dalla vaschetta dello sviluppo. Era sempre una sfida contro la morte, contro qualcosa che in un attimo rischiava di distruggersi e che lui invece riusciva a salvare… E poi legata alla tipografia c’era un’altra cosa: l’attenzione verso lo spazio bianco, infatti tra i caratteri mobili esiste appositamente un carattere per creare lo spazio tra due parole, il carattere del vuoto che rende possibile la comunicazione. Allo stesso modo Giacomelli considera fondamentale il bianco (spesso mangiato) per dare rilievo al nero nelle immagini.
S.M. In effetti guardando le immagini in mostra ciò che si percepisce è di essere dentro un turbine di emozioni. Tu lo definisci “flusso di immagini”. Chi guarda non si chiede nulla, non vuole nemmeno sapere a che serie appartengono. Spariscono i soggetti e restano i segni. Il muro è una parete su cui imprimere questi segni. Cosa ne pensi?
K.B. È proprio così! Per Giacomelli tutto era simile a una tavola di segni. Qualsiasi cosa lui guardasse era fatta di segni. Immaginare la parete come una tavolozza rende molto bene la gestualità di Giacomelli. È vero che non ha tracciato questi segni come Pollock, ma è come se lo avesse fatto, c’è una fortissima gestualità nella sua creazione artistica, ed è per questo che noi lo sentiamo così presente nelle sue foto. Sentiamo tutta l’energia, la vitalità del suo mondo che è fatto di segni, non di figure decifrabili, perché non c’è niente di definibile. E questo è un altro concetto fondamentale per Giacomelli. Siccome non c’è niente di definibile una volta per tutte, lui rincorreva continuamente la realtà nella consapevolezza che non l’avrebbe mai acciuffata, mai posseduta tutta. Come nell’amore, no? E per questo ha prodotto così tanto…
S.M. A questo proposito vorrei chiederti di un aspetto del suo lavoro. Il momento della ripresa fotografica è solo il primo passo di un lungo processo. Ciò che Giacomelli fa in camera oscura denota la necessità poetica di andare oltre lo scatto meccanico. Lo scatto non ha senso nel momento in cui si preme l’otturatore, ma ha senso dopo. È come al momento della nascita, ciò che conta, accade dopo…
K.B. Sì… sono d’accordo! Tuttavia per Giacomelli era importantissimo anche il momento dello scatto. Spesso racconta di come trattenesse il fiato prima di scattare, come una sorta di rituale di avvicinamento, di “corteggiamento”, di ascolto del paesaggio. Per noi è molto difficile capire… Sembrava raggiungere il medesimo stato a cui si perviene durante la meditazione. Un grado di empatia, che gli permetteva di scattare quando si sentiva “fuso” con il mondo. Però il riferimento che hai fatto al momento della nascita è vero… Tutto quello che conta, viene dopo. Giacomelli parla delle sue opere come di qualcosa che bisogna sempre tenere in vita, si riferisce a tutto il corpus fotografico, migliaia di foto che si mettono in collegamento tra di loro attraverso simboli, segni e atmosfere che si ripetono e ritornano. Una volta scattata la foto, questa va sviluppata in un certo modo, e stampata in un certo modo, poi va accostata a tutte le altre, va messa in un flusso. Un flusso di memoria, dove il reale si impasta con l’immaginario, con il sogno, e dove presente passato e futuro alla fine sono la stessa cosa. Per questo la figura del cerchio è molto importante, perché oltre a indicare l’eterno ritorno, evoca anche l’immagine di cerchi concentrici, come se fosse una spirale, simbolo di movimento, metamorfosi, innesti…
S.M. Ho notato che osservando le foto in questo modo senza attribuire loro un tempo preciso, si vedono i vecchi dell’ospizio, poi le vecchiette di Scanno, poi si torna a rivedere l’ospizio… Non c’è più una grande differenza tra i diversi soggetti, quando adotti questo modo di guardare…
K.B. È la stessa cosa che accade quando in fondo alla sala, c’è un gruppo di immagini dove noti un’alternanza tra le foto del taglio dell’albero, sezioni di tronchi, e quelle delle anziane dell’ospizio (entrambe le serie del ’66). E senti che insieme dialogano tantissimo, come fossero la stessa cosa: corpi. In quel caso ho voluto evidenziare il peso del corpo. Tanto più che la mostra parla anche del rapporto tra l’uomo e la natura.
S.M. C’è una foto che può essere tranquillamente assunta a nocciolo del suo pensiero e riprende il titolo della mostra “Il tempo di vivere”. È quella in cui si vedono due bambini su una giostra. Siamo in un ruotare continuo dell’esistenza, siamo appesi a un filo, ma non siamo da soli, perché davanti a noi c’è qualcuno, e se vuoi raggiungere un obiettivo, chi sta dietro di te, ti deve spingere in avanti. Questo è anche il momento in cui si vive l’ebbrezza, poi si scende nuovamente verso il basso. Il gioco può ricominciare? Forse si o forse no. Secondo te questa interpretazione coincide con il pensiero del fotografo?
K.B. Sì! Ciò che dici in riferimento a qualcuno che nel giro di giostra ti deve spingere per prendere la bandierina, può essere tranquillamente assimilato al concetto espresso da Giacomelli e che si può ascoltare nell’audio in mostra nella piccola stanza con le pareti dipinte di nero, in cui Giacomelli sottolinea l’importanza del visitatore, e di come sia bello che ritorni sui suoi passi e guardi nuovamente una foto che ha catturato la sua attenzione. Per Giacomelli le fotografie non hanno una bellezza oggettiva, ma ognuno di noi la vede come può. Il mondo ha mille sfaccettature, uno nessuno centomila… C’è e non c’è una realtà oggettiva. Chi guarda queste foto dà una propria visione e le fa rivivere mille volte. Il visitatore è come colui che deve spingere per permettere all’altro di ottenere il premio della giostra…
S.M. Lo spettatore che visita la mostra ha l’impressione di varcare la soglia di uno spazio e un tempo dove regna la libertà. Con i tuoi occhi cerchi le gerarchie e le relazioni. Fai la tua parte. Come se il fotografo dicesse: “io mi sono preso la mia libertà, ora fai tu, prenditi la tua… Ti lascio la libertà che vuoi”. Cosa ne pensi?
K.B. Sei libero, ma proprio per questo sei anche responsabile, le due cose sono collegate. Se tu sei libero, senti il peso della libertà, perché sei responsabile del tuo essere presente. Questo sentimento di sentirsi presenti era una cosa a cui Giacomelli teneva tantissimo. Lo spettatore può farsi sconvolgere da quello che vede, ma ci vuole tempo, ci vuole concentrazione, nonostante siamo abituati a vivere in un mondo velocissimo che ci distrae e ci allontana da questo modo di pensare e di guardare. Il tempo di vivere è anche questo: un invito ad essere presenti e consapevoli. La sfida era quella di creare quella bolla, un mondo interiore che è quello di Giacomelli. E lì è lecito staccare con il mondo, infatti la tenda potrebbe servire a segnare un limite tra il fuori e il dentro, sostare nel dentro, e trovare noi stessi, attraverso l’arte.
S.M. Aveva una voce calda Giacomelli…
K.B. Sì… mi piace molto quell’intervista. Gliel’aveva fatta Francesca Vitale, una bravissima conduttrice di Radio Rai 3 che aveva una rubrica dedicata all’arte, alla fotografia, negli anni Novanta. L’aveva intervistato pochi mesi prima che lui morisse… Un’intervista davvero bella, in cui Giacomelli si è aperto tanto.
S.M. La piccola stanza della mostra dove puoi sentire la sua voce in loop, mi è sembrata una specie di “cuore”, una camera oscura, un luogo intimo… Racconta alla giornalista del senso che attribuisce al bianco e al nero.
K.B. Mi piace molto quel passaggio, dice che il nero è uno spazio dove ci possono essere tante cose. Nelle sue foto lo lascia intuire, ci tiene molto a mostrare la “materia”, e quindi questo nero è come un buco dove ci può stare l’universo intero. Non è mai un nero che cancella, per questo sembra di avvertire un brusio sotterraneo nelle sue foto. Giacomelli dice anche che dentro al nero cadono tutti i suoi problemi, e lui continua a fotografarlo, per questo il nero è lo spazio dove c’è il mondo. Però nel nero non lo vediamo, e dunque si torna all’idea che non si può definire e vedere tutto, ma di certo si può sentire anche quel che gli occhi non colgono.
S.M. Che programmi hai per il futuro?
K.B. Al Maxxi ora fino al 17 febbraio c’è una bellissima mostra itinerante dedicata al rapporto tra Burri e Giacomelli, dopo esser già stata al Palazzo del Duca di Senigallia, arriverà a Città di Castello alla Fondazione Burri nella prossima primavera, ideata e coordinata da Alessandro Sarteanesi (editore di Magonza che ne ha pubblicato l’importante libro della mostra), a cura di Marco Pierini e Bruno Corà. Un’altra mostra si svolgerà in primavera 2022 in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma, sull’inedita produzione pittorica di Giacomelli. Nello stesso periodo a Milano, al Mufoco, si inaugura una mostra sulla serie Questo ricordo lo vorrei raccontare (ultima serie creata dall’artista prima della morte, nel 2000) per cui esce un interessantissimo libro edito da Skinnerboox. In fieri un progetto editoriale-espositivo sulla serieCaroline Branson da Spoon River… Sono tutti progetti molto mirati, che stringono il discorso su questo grande artista e scendono sempre più nei dettagli della sua creatività.
Mostra: Tempo di vivere a cura di Katiuscia Biondi Giacomelli
Galleria Gilda Lavia, Roma fino al 31/12/2021.
Il sito dell’Archivio Giacomelli